domenica 26 gennaio 2020

Riproposta e rivalutazione dell'opera poetica di Iginio Ugo Tarchetti


Un coro quasi unanime di critici letterari parla, a proposito dell'opera letteraria di Iginio Ugo Tarchetti (San Salvatore Monferrato 1839 - Milano 1969), della netta superiorità del prosatore rispetto al poeta. Certamente non posso affermare che siano in errore, ma posso però dire che i versi dello scrittore piemontese (naturalizzato lombardo) sono stati sbrigativamente fatti rientrare a pieno nell'ambito della corrente letteraria che fu definita Scapigliatura, escludendoli da qualsiasi altro contesto e classificandoli come esempio di "poesia minore dell'Ottocento". Certamente Tarchetti non scrisse molte poesie, e nemmeno pubblicò, durante la sua breve vita, alcun volume di versi; l'unico che esiste, venne alla luce col titolo Disjecta, ben dieci anni dopo la sua morte, preceduto da un commento di Domenico Milelli - anche lui autore di versi - che, forse, fu tra i primi ad usare parole di elogio per il poeta, già allora ingiustamente dimenticato. Personalmente ho sempre amato le poche poesie di Tarchetti, e lo considero tra i migliori - almeno in Italia - del secondo Ottocento. Mi sorpresi alquanto leggendo la famosa stroncatura che fece, a proposito del volume citato, un celebre poeta italiano: Giosuè Carducci; ecco cosa affermò:

[...] A proposito dei versi del Tarchetti, il buon Domenico Milelli, che ne fa di incomparabilmente migliori, uscì una volta a dire che all'anima di lui erano fuse due grandi anime, quella del Heine e quella del Leopardi. Non mai fu nominato invano il nome di Dio: ma tali bestemmie sono conseguenze di quel sentimentalismo estetico che al Lamartine faceva trovare più genio in una lacrima che in tutti i poemi del mondo. Il Tarchetti visse povero, e morì giovane. Me ne duole; e mi adiro con chi non gli diè lavoro o il lavoro non compensò; forse anche mi adiro con la società che lascia morire di fame uomini d'ingegno e d'animo quale il Tarchetti. Ma per ciò devo dire che quella robetta è poesia? No: io dico che l'ammirazione pe 'l sonetto «Ell'era così gracile e piccina» è una miserabile prova di rammollimento di cervello a cui quella che il Proudhon chiamava «scrofola romantica» aveva condotto la gente.¹

Leggendo i giudizi di vari critici e antologisti italiani, quello di  Neuro Bonifazi, nell'introduzione all'antologia Poeti della Scapigliatura, mi è sembrato il più opportuno, e per questo motivo ne riporto dei frammenti:

[...] Abbiamo già detto che la poesia del Tarchetti (che forse a torto è sempre stata trascurata nei confronti della sua narrativa) è una poesia d'amore. Un'aria stilnovistica, di un dolce-amaro stil nuovo, un'atmosfera di intimità emblematica, di figurazioni e di incubi dolorosi e malati, di questi pochi versi di Disjecta, un canzoniere di stilnovismo rovesciato, maledetto. Il sogno si è rivelato definitivamente «orrenda visione». La donna è ambigua: cioè non è quello che sembra, viva, bella, giovane: si dichiara morta, si vede «scheletro», e si rivela «vecchia rugosa e sdentata»; eppure è «fragile e piccina», un «fior sì frale e delicato», è «la poveretta», è la «cara fanciulla». Nel gusto della Scapigliatura, lo abbiamo già visto, c'è questa violenza contro la bellezza apparente, ma qui c'è anche la pietà e l'amore.
[...] In Tarchetti la natura non parla, è «inaridita», e tace. «Tace la valle e tacciono gli steli» («Spunta il mattino»): dopo i fiori dell'adolescenza spezzati dalla delusione, dopo i «poveri fior recisi», si schiude ancora una viola, ma è «la viola bruna, il fior del sepolcreto», e il poeta vorrebbe essere solo un relitto della natura morta (petalo di rosa, fiore d'elianto, foglia di un cipresso), per poter «fuggire e gli uomini e me stesso, - Nuova terra cercando e nuovo mare» («Vorrei essere... ecc.»). Natura chiusa; quando non è già uno spunto di riflessione e di simbologia: ellera = virtù d'eterno amore; l'acqua che va = la felicità cosciente. A sostituire queste apparenze che non suggeriscono se non propositi di fuga e di liquidazione è appunto la donna, investita da un trasporto di sublimazione attraverso la morte e tutti i suoi aspetti, un trasporto d'amore. L'amore scapigliato del Tarchetti è amore-pietà, amore-orrore, amore-sogno ultraterreno. La fanciulla è trapassata dalla terra a un cielo fantomatico, o a un «sotto terra», a mostrare il miracolo di una esistenza di spiriti, a cui avvia il terrore mescolato di desiderio, in mezzo alle false «parvenze del vero». Per questo, tutto è al di là della terra, del tempo, del passare per le strade: un continuo «dì dei morti», un'eterna «mezzanotte» funebre, un accompagnamento di «demoni», un passare attraverso una «landa inospite»: «Io vado e ignoro il termine - Del mio cammin qual sia: - Vado solingo e lacrimo - Per la deserta via» («Amore ho in petto...»).
La lirica del Tarchetti, dunque (e qui non è il caso di collegarla ai suoi racconti in prosa), attinge uno sconsolato sentimento, un sentimento complicato, che ha trasformato le radici leopardiane della delusione e della rimembranza, e che interroga inutilmente e paurosamente l'essenza della morte, ricevendone una risposta di sola immaginazione, di soli fantasmi, di cadaveri muti. Ferma su di una innaturale pietà, riempie i versi di disperazione e di emblemi, di interrogazioni e di inutili violenze. Non esce tuttavia da un tono generico di tradizione romantica, anche se non ha timore di usare spesso un linguaggio di rottura sugli oggetti («lenzuol roso», «stinchi imbianchiti», «sozzi amplessi», «larva d'angelo», «zuccherini e carezze», «fetidi baci», ecc.). Si apre tuttavia con le poesie di Disjecta (composte tra il 1867 e il 1875) una visione caratteristica e nuova (e non ci ingannino certo linguaggio o cadenze della tradizione), un senso insano e morboso dell'amore e della donna, ma soprattutto della realtà. Sui suoi strani fiori d'oltretomba passano ombre sottili e di orfica rivelazione, e i suoi cadaveri feroci e deformanti creano atmosfere espressionistiche nuove e palesi. ²

La recente uscita di una nuova edizione di Disjecta, grazie all'editore Carabba³, oggi consente di rivalutare l'opera poetica di Tarchetti che, per quanto esigua, possiede delle qualità non indifferenti, e in parte anticipa futuri e importanti sviluppi della poesia italiana, compresa quella dei primi anni del XX secolo. Allo stesso modo dei versi, andrebbero rivalutate le prose poetiche dei Canti del cuore, che furono pubblicate insieme alle poesie nel 1879, ma che non sono presenti nella nuova edizione. Chiudo riportando tre poesie di Iginio Ugo Tarchetti presenti nella nuova edizione di Disjecta.


NOTE
1) Da Secondo Ottocento, Zanichelli, Bologna 1969, p. 833.
2) Da Poeti della Scapigliatura, Argalìa, Urbino 1962, pp. 21-23.
3) Sto parlando di Disjecta. Frammenti lirici, edizione critica, introduzione e commento a cura di Roberto Mosena, Carabba, Lanciano 2017 (il piatto anteriore de libro si vede nella foto qui sotto). All'interno di questo libro è possibile leggere ulteriori sette poesie dello scrittore lombardo, rintracciate da poco tempo in riviste d'epoca.





SCENDON LE TENEBRE

Scendon le tenebre;
Soletti e muti
Miriam, sul margine
Del rio seduti
L’onda trascorrere
Che argin non ha:
- Guarda, essa dice,
Come è felice
L’acqua... lei va!

Poi tace e lacrima
La poveretta.
- Quale, io la interrogo,
Quale, o diletta,
Di noi l’incognito
Fato sarà? -
Piange essa, e dice:
- Come è felice
L’acqua... lei va!




M'AVEA DATO CONVEGNO AL CIMITERO

M'avea dato convegno al cimitero
A mezzanotte — ed io ci sono andato:
Urlava il vento ed il tempo era nero
Biancheggiavan le croci del sagrato;
E alla smorta fanciulla ho dimandato:
— Perchè darmi convegno al cimitero?

— Io son morta, rispose, e tu nol sai
Vuoi nella tomba mia giacermi allato?
Molti anni or sono che viva ti amai,
Che mi serra l'avello inesorato...
Fredda è la fossa o giovane adorato!
Io son morta, rispose, e tu nol sai.




DIMMI LA VIA CHE L'ASTRO IN CIEL PERCORRE

Dimmi la via che l'astro in ciel percorre,
Dimmi il corso dell'onda,
Dimmi l'obliquo scorrere del rio,
Dimmi il vol dell'augello e della fronda,
- Dimmi le fila del destino mio.

Non lascia solco in onda
Nave ch'ha il mar varcato,
Traccia l'augel non lascia
Nel cielo interminato,
Non orma nel tuo cuore
Ha l'amor mio lasciato!






domenica 19 gennaio 2020

I momenti magici nella poesia italiana decadente e simbolista


Sotto la dicitura "momenti magici", ho qui riunito una serie di componimenti poetici risalenti all'ultima decade dell'Ottocento e al primo ventennio del Novecento, in cui emergono in modo preponderante atmosfere, situazioni ed eventi che posseggono dei requisiti ultraterreni; i poeti si trovano di fronte a spettacoli della natura o comunque a visioni di vario genere, dove è presente qualcosa che va al di fuori della comprensione umana; in alcuni casi, si fa riferimento al passato, anche quello più remoto, pur rimanendo nell'ambito di descrizioni di eventi al di fuori del normale. Questi poeti non danno una spiegazione ai fatti di cui parlano, ma si lasciano ipnotizzare ed estasiare da essi; dimostrando così la loro simpatia verso l'irrazionalità, la magia, il misticismo e l'esoterismo. Passando ad alcuni esempi, nei versi di Giovanni Camerana e Cosimo Giorgieri Contri è la stagione autunnale che, coi suoi infiniti fascini, fa nascere sensazioni inaudite, pensieri eterei e ricordi malinconici; alla stessa maniera, pur con caratteristiche differenti, può essere la stagione primaverile (Sul Pincio di Corrado Govoni; Attimi di Yosto Randaccio) o quella estiva (Meriggio Estivo di Virgilio La Scola; Vagando... di Aldo Fumagalli) a suscitare stupori e sensazioni trascendenti. Nelle poesie di Enrico Cavacchioli e Mario Venditti alcuni oggetti improvvisamente si animano, si muovono e compiono azioni impossibili, riconducibili ad un mondo favoloso o comunque alquanto fantasioso. Nei versi di Gabriele D'Annunzio, Gino Borzaghi e Angiolo Orvieto, protagonisti sono esseri umani misteriosi, maschili o femminili, non bene identificabili, che a volte posseggono poteri occulti, impensabili e divini. Nella poesia di Adolfo De Bosis si assiste al ribaltamento di una serie di situazioni sfavorevoli che fa pensare ad un intervento divino, o per lo meno a qualcosa di soprannaturale, in grado di intervenire quando tutto sembra ormai perduto. Ci sono poi altre poesie come Fuga di treno lontano di Guglielmo Felice Damiani e Riflesso di Diego Garoglio, dove la visione di un treno che passa o soltanto il ricordo di un viso fanno scaturire una serie d'immagini e di sentimenti vivi e forti, che per la loro imprevedibilità posseggono anch'essi un che di magico. Ed è la stessa magia de L'ora divina descritta in modo superlativo da Luisa Giaconi, pur nella consapevolezza che l'incantesimo duri poco e sia del tutto falso. Anche due persone, particolarmente legate tra loro, possono vivere dei "momenti magici" comuni - siano essi dovuti all'inconscia attrazione amorosa o alla malinconica percezione della separazione imminente: così accade nei versi di Domenico Gnoli, Vincenzo Fago e Amalia Guglielminetti. In altre contestualità, è una base musicale particolarmente fascinosa a creare un'atmosfera sognante che fa pensare ad un mondo "altro" (si leggano, a tal proposito, le poesie di Diego Angeli e Enrico Panzacchi); ciò può accadere pure ascoltando il canto di una sirena - e quindi di un essere fantasioso - capace di ammaliare chiunque lo percepisca (Rimpianto di Gustavo Botta) o quello melodioso degli uccelli (Già declinava il giorno di Tito Marrone).



Poesie sull'argomento

Diego Angeli: "Mentre suonava un violino" e "Armonie di una notte d'agosto" in "L'Oratorio d'Amore. 1893-1903" (1904).
Peleo Bacci: "Sulla Tàzzera" in "Dai nostri poeti viventi" (1903).
Gino Borzaghi: "Andante e recitativo" in "Sinfonie luminose" (1893).
Gustavo Botta: "Rimpianto" in "Alcuni scritti" (1952).
Giovanni Camerana: "Capovolti si specchiano" e "Note morenti" in "Poesie" (1968).
Enrico Cavacchioli: "Le scope" in "Le ranocchie turchine" (1909).
Guglielmo Felice Damiani: "Fuga di treno lontano" in "Lira spezzata" (1912).
Gabriele D'Annunzio: "L'esempio" in "Poema paradisiaco" (1893).
Adolfo De Bosis: "La selva si sfronda..." in "Amori ac silentio e Le rime sparse" (1924).
Luigi Donati: "Poema Epico" e "Poema Lirico" in "Le ballate d'amore e di dolore" (1897).
Vincenzo Fago: "Chiostro di S. Giovanni" in "Discordanze" (1905).
Aldo Fumagalli: "Vagando" in "Arcate" (1913).
Diego Garoglio: "Riflesso" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).
Ugo Ghiron: "Momento" in "Poesie (1908-1930)" (1932).
Luisa Giaconi: "L'ora divina" e "Parole della solitudine" in "Tebaide" (1912).
Cosimo Giorgieri Contri: "Settembre antico" in "Il convegno dei cipressi e altre poesie" (1922).
Cosimo Giorgieri Contri: "L'ultima gioia" in "Primavere del desiderio e dell'oblio" (1903).
Domenico Gnoli: "Nel viale" in "Jacovella" (1905).
Corrado Govoni: "Sul Pincio" in "Le Fiale" (1903).
Amalia Guglielminetti: "Vortice" in "Le Seduzioni" (1909).
Virgilio La Scola: "Meriggio Estivo" in "La placida fonte" (1907).
Tito Marrone: "Già declinava il giorno" in "Le rime del commoato" (1901).
Arturo Onofri: "Leziosaggine" in "Poesie edite e inedite (1900-1914)" (1982).
Angiolo Orvieto: "L'abisso" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).
Nino Oxilia: "Nella foresta dove l'ombra appare" in "Canti brevi" (1909).
Nino Oxilia: "Io porto in me un'oasi di luce" in "Gli orti" (1918).
Enrico Panzacchi: "O prediletta!..." in "Poesie" (1908).
Giuseppe Piazza: "L'aurora" in "Le eumenidi" (1903).
Yosto Randaccio: "Attimi" in "Poemetti della convalescenza" (1909).
Antonio Rubino: "Aurora vedica" in "Versi e disegni" (1911).
Sebastiano Satta: "Meriggio" in "Canti barbaricini" (1910).
Diego Valeri: "Lenta pel cielo passa..." in "Umana" (1916).
Diego Valeri: "Risveglio" in "Crisalide" (1919).
Mario Venditti, "Gli infermieri dell'anima in esilio" in "Il cuore al trapezio" (1921).
Remigio Zena: "Rondò" in "Tutte le poesie" (1974).



Testi

L'ORA DIVINA
di Luisa Giaconi

Un'ora, fra le torbide e dolenti,
e quelle che l'amaro tedio annera,
e quelle che ti son gioghi possenti,

un'ora splende; ed è profonda e vera
tanto, che allora quando ella si schiude,
vivi tu, solo; - e tutto il resto è nera,

è sconfinata vanità che illude.

L'ora muta in cui tu lento cammini
lungo le solitudini pensose
de' sogni; e vedi lampeggiar destini

nuovi da lunge, e senti imperiose
gioie chiamarti; e senti che la vita
tu tieni e avvinci e da le luminose

labbra suggi la sua forza infinita...

Quest'ora è eterna. Lunghe, ebre, tenaci
(non forse il tuo fremito eterno, Amore?)
ti cerchian spire tepide di baci;

e, come canto in vastità sonore,
la giovinezza tua palpita e sale
a fiotti a fiotti dal tuo chiuso cuore,

con un ritmo che a te sembra immortale.

Bevi quest'ora. E non sii tu per nulla
credulo che al di là palpiti e viva
cosa alcuna; ma l'ombra, arida e nulla.

Che tu, quando su te scenda tal viva
Grazia, sei il mago eterno che profondi
l'ombra e la fiamma e al cui cenno s'avviva

tutta l'immensa voluttà dei mondi.

(da "Tebaide")




ATTIMI
di Yosto Randaccio

Che senso di cose lontane
nel cielo, stamane!

Il cielo è perlato;
il Tevere immoto,
senza ànsito di correntìa!
Che ascolto?
Non ò più coscienza
de l'anima mia: sono astratto.
Nel mondo non s'ode più nulla.
Silenzio profondo infinito:
ogni senso vivente è sopito:
è stupefatto.

È questo l'aprile ch'io sogno!
Lo presentivo nel male.
Questa infinita tristezza
che trema per ogni mia vena,
questa corrente d'oblio
che scende da vette lontane,
quest'ombre di fascinamento
che vengono forse da lei,
quest'ora fatale,
la vidi nel cuore!

Un'urna ne l'abbandono,
un rivo che scende senza suono,
un mare senza maretta,
una bocca senza parola,
possono esprimere, forse,
questa stupefazione,
questo solenne sopore,
quest'infinito ristagno, questo morire
d'ogni senso di vita
nel cuore del mondo!

(da "Poemetti della convalescenza")


Odilon Redon, "Evocation"
(da questa pagina Web)


domenica 12 gennaio 2020

"La rondine sotto l'arco" di Renzo Pezzani


Quando Renzo Pezzani (Parma 1898 - Castiglione Torinese 1951), nel 1927, pubblicò una delle sue opere poetiche più importanti: La rondine sotto l'arco, aveva già dato alle stampe altri due volumetti di versi, che, malgrado evidenziassero già alcune qualità del poeta parmense, non furono prese in considerazione più di tanto, cadendo nell'anonimato. Ma questo libro, uscito grazie alla Società Editrice Internazionale di Torino (la seconda edizione fu stampata due anni dopo dall'editore Le Muse, sempre nel capoluogo piemontese), ebbe un certo risalto, e fu lodato da molti critici, tra i quali, vi fu anche Pietro Mignosi (1895-1937), che nel suo saggio antologico La poesia italiana di questo secolo, ne parlò in modo entusiastico, come si può leggere dal frammento che riporto di seguito, tratto dal libro citato:

Ricco di fantasia e di sentimento (quante affinità, ma non letterarie intendiamoci, col Betti!¹) il Pezzani pur mantenendo i vecchi schemi metrici ha saputo snodarli ed arricchirli in una soavità di pause, si sospensioni di allungamenti pieni di una incantata potenza evocatrice. Religioso in quel chiudere nel velo della pietà fraterna il peccato e l'errore degli uomini, sa, talvolta, levarsi dal suo piccolo mondo primaverile e claustrale alla contemplazione delle cose eterne: Dio e la morte².

Il critico siciliano aveva colto nel segno: Pezzani in questa raccolta mette in luce quelle caratteristiche che diverranno costanti anche nelle opere successive, sia nelle prose o nei versi destinati al pubblico infantile, che nelle altre. Certamente il suo fare poetico deve molto a Giovanni Pascoli, e certamente qualcos'altro prende da Angiolo Silvio Novaro, ma la sua scrittura in versi, da questo punto in poi, diverrà personalissima, riconoscibilissima e troverà un pubblico sempre più vasto, di tutte le età. Peccato che, da almeno un cinquantennio, questo poeta sia stato messo da parte, e i suoi versi ormai si possono leggere soltanto in qualche vecchia antologia scolastica.
La rondine sotto l'arco, nella sua 2° edizione, comprende 23 poesie divise nelle seguenti sezioni:
I. La rondine sotto l'arco; II. Le fiabe; III. Claustrale; IV. Cantilene sulla fisarmonica; V. I canti del reduce; VI. I canti del ritorno.
Per chiudere riporto, tratta da questa raccolta, una poesia molto bella, che ricorda il Pezzani più legato al mondo infantile, e che si paleserà in modo netto a partire dalla raccolta Sole, solicello, uscita nel 1933.





LA LODOLETTA FERITA

O lodoletta dolce e sospesa,
come una fiamma nel sole accesa,

come un fiore senza stelo,
fiore di piume, fiorisci nel cielo.

Porti nel becco il mattino sereno
come il verdissimo filo di fieno...

C'è più rugiada nel tuo canto
che lagrime nel mio pianto.

È più fresco il tuo cuore d'uccello
che l'acqua che porta, trottando, il ruscello.

Ma l'uomo armato di freccia e d'arco,
o creatura, t'attende al varco;

e c'è del sangue nel tuo destino...
Passa una nube tra il sole e il giardino.

Cerca la freccia scagliata, il tuo cuore:
piccolo grano semente d'amore.

O lodoletta! il tuo corpo esangue
ha tutto macchiato gli spini di sangue.

Ora ogni goccia una spina feconda,
da ogni spina germoglia una fronda,

da ogni fronda germoglia un fiore:
tutto di rose era pieno il tuo cuore,

o lodoletta, fior senza stelo,
fiore di piume caduto dal cielo.

(da "La rondine sotto l'arco", Le Muse, Torino 1928, pp. 92-94)



NOTE
1) Si tratta di Ugo Betti (1892-1953), autore di ottimi volumi di versi come Il Re silenzioso (1922) e Canzonette. La Morte (1932).
2) Frammento tratto da La poesia italiana di questo secolo di Pietro Mignosi, Edizioni del Ciclope, Palermo 1929.

domenica 5 gennaio 2020

Antologie: "La Riviera Ligure"


La Riviera Ligure è il titolo di un'antologia curata da Edoardo Villa e Pino Boero, pubblicata dalle Edizioni Canova in Treviso nel 1975. Purtroppo, da quello che so, è l'unica che si occupi di una rivista fondamentale, che accolse nelle sue pagine nomi importantissimi della nostra letteratura d'inizio Novecento. La Riviera Ligure nacque nel 1895, con l'intento di pubblicizzare l'industria olearia Sasso. Diretta inizialmente da Angiolo Silvio Novaro, uscì con cadenza trimestrale fino al 1899, quando la direzione passò al fratello di Angiolo Silvio: Mario Novaro, che decise di pubblicarla ogni due mesi; dal 1903 La Riviera Ligure divenne una rivista mensile, e ciò rimase fino al 1919: anno limite della sua vita. Ho detto dell'importanza che ricopre questa rivista, tra le migliori d'inizio secolo, e aggiungo che tale discorso è ancor più valido se si parla di poesia, visto che in queste pagine si possono ritrovare diversi capolavori della lirica italiana: alcuni tra i migliori versi di Giovanni Pascoli, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Guido Gozzano, Umberto Saba, Dino Campana, Clemente Rebora, Camillo Sbarbaro, Giuseppe Ungaretti e, non da meno, i due fratelli Novaro, anch'essi eccellenti poeti. Qui nacque la cosiddetta "Linea ligure", ovvero quel modo particolare d'intendere e di fare poesia che fu proprio di determinati poeti liguri, da Ceccardo Roccatagliata Ceccardi a Eugenio Montale. In questa rivista, grazie alla perspicacia e all'intuito di Mario Novaro, trovarono spazio un po' tutte le correnti poetiche italiane dei primi vent'anni del XX secolo; ci sono i decadenti, i simbolisti, i crepuscolari, i vociani e perfino i futuristi. Nessuno ha mai pensato di dedicare alla Riviera Ligure un volume più comprensivo e corposo di questo, che possa offrire una maggior quantità di scritti presenti nelle tante pagine interessanti e, direi, basilari di questa rivista. Chiudo con l'elenco degli scrittori antologizzati nel citato volume, segnando con un asterisco quelli che qui sono presenti soltanto con i loro versi.


LA RIVIERA LIGURE



Adolfo Albertazzi, Corrado Alvaro, Salvatore Ernesto Arbocò, Ugo Bernasconi, Giovanni Boine, Dino Campana*, Luigi Capuana, Grazia Deledda, Salvatore Di Giacomo, Francesco Gaeta*, Giulio Gianelli, Cosimo Giorgieri Contri*, Corrado Govoni*, Guido Gozzano*, Piero Jahier, Tito Marrone*, Mario Novaro*, Giovanni Papini, Giovanni Pascoli*, Luigi Pirandello*, Clemente Rebora*, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi*, Salvatore Ruju, Umberto Saba*, Camillo Sbarbaro*, Scipio Slataper, Ardengo Soffici, Giuseppe Ungaretti*, Mario Vugliano.