venerdì 30 settembre 2022

Ritorno

 

  Sono tornato là

dove non ero mai stato.

Nulla, da come non fu, è mutato.

Sul tavolo (sull'incerato

a quadretti) ammezzato

ho ritrovato il bicchiere

mai riempito. Tutto

è ancora rimasto quale

mai l'avevo lasciato.

 

 


 

COMMENTO

Ritorno è il titolo di una poesia di Giorgio Caproni (Livorno 1912 – Roma 1990). La si può leggere nella raccolta Il muro della terra, che il poeta ligure pubblicò presso Garzanti editore, a Milano nel 1975. É la seconda poesia della sezione Feuilleton, che si trova all’interno della medesima raccolta. Io l’ho trascritta dal volume Poesie 1932-1986 (Garzanti, Milano 1993); qui sono presenti tutti i versi che Caproni pubblicò in vita; è assente invece Res amissa, pubblicata postuma nel 1991. Ritorno ben rappresenta l’ultima fase poetica di Caproni, che iniziò proprio con Il muro della terra; questa fase si caratterizza per una scarificazione del testo, e con una totale differenziazione di luoghi, argomenti e pensieri, rispetto alle raccolte precedenti. Ciò che colpisce, in questi versi, è un profondo pessimismo, esternato dal poeta tramite paesaggi desolati, domande esistenziali prive di risposta, ed una certezza: l’assenza, nel mondo, di qualunque tipo di divinità; ciò rende la vita come qualcosa di completamente insensato, e oscuro. In Ritorno, Caproni dice di essere arrivato in un luogo che, come recita il titolo, dovrebbe essere familiare e riconoscibile, ma in verità non lo è; tutto quello che il poeta trova in tale luogo è nello stesso tempo reale e irreale; la sua stessa presenza, è tutt’altro che certa. Probabilmente, in questi versi Caproni vuole porre in risalto la totale insensatezza, così come l’assurdità della vita; e il “ritorno”, rappresentato dalla morte, è in quel luogo dove ognuno di noi si trovava prima di nascere; perché tutti gli esseri viventi provengono dal nulla, e nel nulla dovranno, una volta morti, ritornare.

domenica 25 settembre 2022

"Panem nostrum..." di Fausto Maria Martini

 

Panem nostrum… è il titolo della seconda raccolta poetica di Fausto Maria Martini (Roma 1886 - ivi 1931), uscita nel 1907. Fu preceduta da Le piccole morte - pubblicata l'anno precedente - che sancì l'esordio poetico del ventenne scrittore romano. Questo libriccino, che contiene 15 liriche, fa parte della collana dei cosiddetti “piccoli libri inutili” pubblicati, a spese degli autori, dalla Cromo-tipografia Commerciale che si trovava a Roma (esattamente in via Tomacelli), nei primissimi anni del XX secolo. Panem nostrum… è il terzo della serie. La raccolta si apre con una dedica al padre del poeta, seguita una breve citazione in francese, tratta da Les trésor des humbles di Maurice Maeterlinck. Quasi tutte le poesie sono dedicate agli amici dello scrittore romano, ovvero a molti di coloro che formarono un vero e proprio cenacolo poetico, al cui centro si trovava Sergio Corazzini; questo che in seguito venne chiamato “gruppo romano”, pose le fondamenta della corrente poetica che, a partire dal 1910, fu identificata col nome di crepuscolarismo. Tornando alla raccolta, la prima poesia: La sfinge, è ispirata ad un disegno di Dante Gabriel Rosseti (probabilmente The question, del 1875); la terza poesia: Invito francescano, fu riproposta dal Martini in Poesie provinciali - terza e più famosa raccolta del 1910 – leggermente tagliata e modificata; la quarta lirica, è una libera traduzione di un testo dello scrittore francese Henri Barbusse. Sfogliando ancora il libro, ci si imbatte in Il rosario dell’anima, che porta la dedica: per Sergio Corazzini; in questi versi Martini raggiunge uno dei livelli più alti della sua poesia, raffigurando il poeta-bambino immerso in un atmosfera notturna e misteriosa, che via via si arricchisce di personaggi inerenti alla religione cristiana, osservati malinconicamente dal fanciullo malato, già presago della sua imminente morte. Altra poesia di grande valore, è La canzonetta; qui, una musica da pianoforte (probabilmente lo strumento è suonato da un bambino) che giunge nella stanza di una casa dove si trova il poeta, suggerisce una serie di sensazioni particolarmente tristi, dovute all’assenza della donna amata; il poeta ripensa al giorno in cui, accompagnata da un pianoforte, essa intonava una canzonetta il cui ritornello è rimasto nell’aria della stanza, così come il profumo della donna. Concludo con la trascrizione di queste due ultime poesie, che sono, a mio avviso, le migliori di Panem nostrum…

 

 

Frontespizio di Panem nostrum...

 

 

IL ROSARIO DELL'ANIMA

 

                                                         Per Sergio Corazzini

 

Sanguina, fra le tegole, la sera.

 

Anima, non guardare:

   la vita, oggi, è vestita di giaggiolo.

   Ripensa quel che fu: tu leggerai

   il tuo passato nei messali d'oro!

 

I mobili più lunghe ombre protendono...

 

Anima, non guardare:

   per consolazione

   hai Sant'Anna che prega con Maria,

   e i piccoli re magi di cartone...

 

Il tarlo inizia l'opera notturna.

 

Tu resti sempre solo,

   romantico poeta, ammalerai!

   Anima, non udire, se ti chiama

   la Vita, ch'è vestita di giaggiolo.

 

Il bambino malato è a la finestra.

 

Anima, non guardare:

   fra gli alberi, sereni sacerdoti

   dell'ombra, leggerai, con la sorella,

   il tuo passato nei messali d'oro!

 

Sul bambino malato un pipistrello...

 

Anima, poverella,

   io so perché rimpiangi la mattina...

   era candida come tortorella:

   Anima, il tuo passato è il tuo destino!

 

La notte, senza palpebre, ti guarda!

 

Ma nell'ombra, Sant'Anna

   ora non prega più...

   con i doni regali, in processione,

   partirono i re magi di cartone.

 

Una lampada accesa s'è già spenta.

 

Verso un altro presepe

   partirono i re magi di cartone:

   con Maria non c'è più

   Anna, Sant'Anna, la nonna di Gesù...

 

(da Panem nostrum..., pp. 35-37)

 

 

 

 

LA CANZONETTA

 

                                           Per Alberto Tarchiani

 

Una mano ha toccato il pianoforte:

   il suono, nel meriggio sonnolento

   domandava l'accordo e s'è già spento...

   quale mano ha toccato il pianoforte?

 

Certo, un bambino che non arrivava,

   anche dritto sui piedi, ai tasti neri:

   suonò, perché fra gli altri suoi pensieri,

   uno, forse, dolcissimo passava...

 

Nella tua stanza, Dio! quanto squallore!

   che desiderio di dimenticare!

   appena cade, per non ridestare

   i mobili, la cenere dell'ore...

 

Ho mosso, sul divano, i due cuscini;

   oh! come gravi! E pieni mi parevano

   dell'oblio di colei che prometteva

   di ritornare... poveri cuscini!

 

La canzonetta che dalla tua bocca

   sull'anima mi scese ultimamente,

   è rimasta profumo tra le mente

   della finestra e con la violacciocca...

 

Se tu ritorni (e tu non tornerai!)

   apri la stanza con la chiave d'oro:

   se rechi la mia vita, nel canoro

   piccolo tempio tu risuonerai!

 

Ma se invece tu rechi la mia morte

   nel ritornello d'una canzonetta,

   oh! vieni ancora! Per la canzonetta

   della mia morte è pronto il pianoforte!


(da Panem nostrum..., pp. 49-51)

 

 

domenica 18 settembre 2022

Poeti dimenticati: Giuseppe Steiner

 

Nacque ad Urbino nel 1898 e morì a Torino nel 1964. Partecipò, ancora giovanissimo, alla Prima Guerra Mondiale, uscendone mutilato. Laureatosi in Giurisprudenza, divenne avvocato per poi entrare in parlamento come deputato tra il 1929 ed il 1943. Molto presto entrò a far parte del gruppo degli scrittori futuristi; pubblicò opere poetiche in versi liberi e in disegni (stile futurista), che spiccano per la chiarezza concettuale unita ad una non comune ironia.

 

 

 

Opere poetiche

 

"La chitarra del fante", Porta, Piacenza 1920.

"Stati d'animo disegnati", Edizioni Futuriste di Poesia, Milano 1923.

"Nostalgie del profondo", Tipografia del Senato, Roma 1939.

 

 

 

Presenze in antologie

 

"La poesia italiana di questo secolo", a cura di Pietro Mignosi, Edizioni del Ciclope, Palermo 1929 (pp. 165-166).

"I poeti del Futurismo 1909-1944" a cura di Glauco Viazzi, Longanesi & C., Milano 1978 (pp. 427-437).

 

 

Testi

 

LA CANZONE DEL MORTO DEL CARSO

 

Io sono il morto del Carso.

Ero naturalmente di fanteria.

Ora me ne sto in fondo a questa dolina

sotto un mucchietto di sassi.

 

E tu che passi non torcere il naso

se puzzo!

Anch'io una volta ero come te.

Fumavo la mia pipetta nera,

parlavo male del sergente

e non pensavo che dovesse toccare proprio a me.

 

(da "La chitarra del fante")

 

 

 

 

ALTRUISMO ED EGOISMO



(da “Stati d'animo disegnati”)

 

 

 

 

TENTAZIONE

 

Ho visto una Sirena,

simbolo di beltà

fallace e lusinghiera.

 

Ho pensato, ho sognato:

essere forte o buttarsi

tra le sue bianche braccia?

 

Fui virtuoso anche perché

non avrei potuto nemmeno

baciarle la mano.


(da "Nostalgie del profondo")

 

domenica 11 settembre 2022

Riviste: «La Voce»

 

La Voce è il titolo di una rivista che nacque a Firenze nel 1908, e che fu di fondamentale importanza, non soltanto nell’ambito della letteratura italiana, poiché, nelle sue pagine, si possono leggere articoli firmati da notissimi personaggi del primo Novecento, che vanno dalla politica alla filosofia, dall’economia all’arte. Tra i collaboratori della Voce, infatti, si citano i nomi di Benedetto Croce, Giuseppe Lombardo Radice, Giovanni Amendola, Gaetano Salvemini, Ildebrando Pizzetti, Luigi Einaudi, Renato Serra ecc. Tenendo però in considerazione soltanto la letteratura, e in particolare la poesia, si può affermare che questa rivista, per gran parte del secondo decennio del Novecento, fece tendenza, e fu grazie alla Voce che si affermò il cosiddetto “frammentismo poetico”; questo possedeva, quale requisito di spicco, un espressionismo di valore e tutto italiano, ed era rappresentato da scrittori come Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Clemente Rebora, Piero Jahier, Camillo Sbarbaro, Scipio Slataper, Giovanni Boine, Dino Campana, Arturo Onofri, Giuseppe Ungaretti, Umberto Saba, Vincenzo Cardarelli, Aldo Palazzeschi e Corrado Govoni (gli ultimi due già notevoli esponenti di precedenti avanguardie poetiche: crepuscolarismo e futurismo). Il primo numero della Voce, uscì il 20 dicembre del 1908; l’ultimo, fu pubblicato il 31 dicembre del 1916. La rivista fiorentina, durante la sua esistenza, attraversò diverse fasi; la prima, in cui fu diretta da Giuseppe Prezzolini, e che durò dall’anno della nascita all’ottobre del 1914, ebbe un orientamento nettamente politico; una seconda fase, brevissima e assai meno felice, perché vide l’allontanamento di due eminenti personalità come Papini e Soffici, può essere identificata nel periodo che va dal novembre 1914 al dicembre dello stesso anno. La terza ed ultima fase invece, ebbe la durata di due anni (dicembre 1914 – dicembre 1916) e fu caratterizzata dalla direzione di Giuseppe De Robertis, il quale le diede un indirizzo prettamente letterario; durante codesta fase, la rivista venne definita “Voce bianca”, in riferimento al colore della sua copertina. Parlando soltanto di poesia italiana, si può affermare che La Voce rivesta un’importanza particolare, non paragonabile ad altre riviste dell’epoca, poiché, ospitando i versi di giovani poeti dotati di un talento eccezionale, pose le basi per quella che sarebbe stata definita la “poesia pura”, e che, a sua volta, avrebbe ispirato i poeti delle successive generazioni (Quasimodo, Gatto, Sinisgalli, Luzi, Bigongiari ecc.) che furono chiamati “ermetici”.  Chiudo riportando tre testi poetici famosi, i cui autori sono rispettivamente: Umberto Saba, Corrado Govoni e Vincenzo Cardarelli; la poesia iniziale appartiene alla prima fase della rivista fiorentina, mentre le altre due fanno parte della terza.

 

 


 

 

TRE VIE

di Umberto Saba

 

C’è a Trieste una via dove mi specchio

nei lunghi giorni di chiusa tristezza:

si chiama Via del Lazzaretto Vecchio.

Tra case come ospizi antiche uguali,

à una nota, una sola, d’allegrezza:

il mare in fondo alle sue laterali.

Odorata di droghe e di catrame

dai magazzini desolati a fronte,

fa commercio di reti, di cordame

per le navi: un negozio à per insegna

una bandiera; nell’interno, volte

contro il passante, che raro le degna

d’uno sguardo, coi volti esangui e proni

sui colori di tutte le nazioni,

le lavoranti scontano la pena

della vita, innocenti prigioniere,

cuciono tetre le allegre bandiere.

 

A Trieste ove son tristezze molte,

e bellezze di cielo e di contrada,

c’è un’erta che si chiama Via del monte.

Incomincia con una sinagoga,

e termina ad un chiostro; a mezza strada

ha una cappella; indi la nera foga

della vita ammirare puoi da un prato,

e il mare con le navi e il promontorio,

e la folla e le tende del mercato.

Pure a fianco dell’erta è un camposanto

abbandonato, ove nessun mortorio

entra; non si sotterra più, per quanto

io mi ricordi; il vecchio cimitero

degli Ebrei, così caro al mio pensiero,

se vi penso ai miei vecchi, dopo tanto

penare e mercatare, là sepolti;

simili tutti d’animo e di volti.

 

Via del monte è la via dei santi affetti,

ma la via della gioia e dell’amore

è sempre Via Domenico Rossetti.

Questa verde contrada suburbana,

che perde dì per dì del suo colore,

che è sempre più città, meno campagna,

serba il fascino ancora dei suoi belli

anni, delle sue prime ville, sperse,

dei suoi radi filari d’alberelli.

Chi la passeggia in queste ultime sere

d’estate, quando tutte sono aperte

le finestre, e ciascuna è un belvedere,

dove agucchiando o leggendo si aspetta;

pensa che forse qui la sua diletta

rifiorirebbe all’antico piacere

di vivere, di amare lui, lui solo;

e a più rosea salute il suo figliolo.

 

(da «La Voce», 7 novembre 1912)

 

 

 

 

LA PRIMAVERA DEL MARE

di Corrado Govoni

 

Anche il mare ha la sua primavera:

rondini all’alba, lucciole alla sera.

Ha i suoi meravigliosi prati

di rosa e di viola

che qualcuno invisibile là falcia

e ammucchia il fieno

in cumuli di fresche nuvole.

Si perdon le correnti

come le pallide strade

tra le siepi dei venti

da cui sembra venire nella pioggia

come un amaro odore

di biancospino in fiore.

E certo nella valle più lontana

un pastore instancabil tonde

il suo gregge infinito d'onde

tanta è la lana

che viene a spumeggiare sulla riva.

Verdognolo e lillastro come l’arcobaleno

gemmeo elastico refrigerante,

d’accordo con il cielo

profondo arioso concavo specchiante

come il cristallo con il fiore,

tutto abbandoni e improvvise malinconie

come il primo amore.

Così fresco ed azzurro

come se trasparissero

dalla sua limpidità

le sue tacite foreste

sottomarine

avvinghiate di alghe serpentine

quest’edera senza foglie,

scorse dai freddi scivolii

di pesci di maiolica e d’argento

alati come uccelli muti,

tra i coralli irrigiditi

questi peschi sempre fioriti.

Son le rondini fisse le conchiglie.

E le lucciole enormi son le seppie morte,

lanterne sorde

di palombari annegati

fari di naufraghi pericolati.

Una barca con un’immensa vela

sembra qualche straccione

fermo in un crocevia sotto l’ombrello,

in attesa che passi l’acquazzone.

 

(da «La Voce», 15 marzo 1915)

 

 

 

 

RITRATTO

di Vincenzo Cardarelli

 

Esiste una bocca scolpita,

un volto d’angiolo chiaro e ambiguo,

una opulenta creatura esangue

dai denti di perla,

dal passo spedito,

esiste il suo sorriso,

aereo, dubbio, lampante,

come un indicibile evento di luce.

 

(da «La Voce», 30 giugno 1916)

 

domenica 4 settembre 2022

L'orrido nella poesia italiana decadente e simbolista

 

Ereditato dai poeti scapigliati - che evidentemente avevano diversi elementi in comune coi decadenti ed i simbolisti - il gusto per l'orrido ed il macabro si manifesta in molti versi di questi poeti; alcuni di essi, come il Cavacchioli ed il Rubino, lo adottano in modo costante, in versi pubblicati nel primo decennio del Novecento. Ma è Arturo Graf il primo a seguire l'esempio di Praga, Tarchetti e sodali; il poeta ateniese lo fa in modo del tutto personale, poiché gli scheletri, i fantasmi e le numerosissime, orrende visioni che descrive nei suoi versi, assurgono a simbolo della vita, visibile nella sua totale assurdità, inutilità e terribilità. Buoni ultimi, i crepuscolari, sebbene in rare occasioni, descrivono personaggi sinistri, libidinosi e violenti, così come visioni inquietanti, con paesaggi tenebrosi o luoghi chiusi in cui domina una misteriosa atmosfera, che vorrebbe trasmettere al lettore una sensazione di angoscia o di ansia estrema.

 


Poesie sull’argomento

 

Vittoria Aganoor: "Visione" in "Nuove liriche" (1908).

Gustavo Botta: "A tregenda" in "Alcuni scritti" (1952).

Enrico Cavacchioli: "La Febbre" e "Io Saturnalia!" in "L'Incubo Velato" (1906).

Enrico Cavacchioli: "La processione grottesca", "Il diavolo" e "Lo sgomento" in "Le ranocchie turchine" (1909).

Giovanni Cena: "L'edificio" in "In umbra" (1899).

Giovanni Alfredo Cesareo: "L'ultimo convegno" in "Poesie" (1912).

Sergio Corazzini: "Leone XIII" in «Marforio», luglio 1903.

Auro D'Alba: "Il furto" in "Baionette" (1915).

Italo Dalmatico: "Io levo il capo con nova fermezza" e "Il sogno" in "Juvenilia" (1903).

Giuliano Donati Pétteni: "All'orizzonte, là, nella pianura..." in "Intimità" (1926).

Guglielmo Felice Damiani: "Il pastore" in "Lira spezzata" (1912).

Adolfo De Bosis: "Rombano acque correnti entro la tenebra" in "Amori ac Silentio e Le rime sparse" (1914).

Riccardo Forster: "Una carogna" in "La Fiorita" (1905).

Corrado Govoni "I veleni" e "La paura" in "Gli aborti" (1907).

Arturo Graf: "Esercito" in "Medusa" (1990).

Gesualdo Manzella Frontini: "Sala anatomica" in "I Poeti Futuristi" (1912).

Enzo Marcellusi: "Crimen" in "Intensità" (1920).

Pietro Mastri: "La carogna" in "Lo specchio e la falce" (1907).

Marino Moretti: "La favola dell'orco" in "La serenata delle zanzare" (1908).

Nicola Moscardelli: "In nero" e "Naufragio" in "Abbeveratoio" (1915).

Ettore Moschino: "Il delitto" in "I Lauri" (1908).

Domenico Oliva: "Nella densa tenebra" in "Poesie" (1889).

Angiolo Orvieto: "L'ascaro mutilato" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).

Nino Oxilia: "Strani disegni sono dipinti..." in "Canti brevi" (1909).

Aldo Palazzeschi: "Il campo dell'odio" in "I cavalli bianchi" (1905).

Antonio Rubino: "Il viandante magro" in «Poesia», ottobre 1908.

Antonio Rubino: "Peste regina" in "Versi e disegni" (1911).

Domenico Tumiati: "L'invisibile" in "Liriche" (1937).

Mario Zarlatti: "Tor sanguigna" in «Gran Mondo», giugno 1908.

Giuseppe Zucca: "Brividi" in "Io" (1921).

 

 

 

Testi

 

 

ESERCITO

di Arturo Graf

 

Contro all’obliquo sol, nell’aer crasso,

Nere dall’aste pendon le bandiere;

Sottesso il ciel, silenzïose e nere,

Le falangi s’incalzano al trapasso.

 

— Compagni, avanti; accelerate il passo!

Compagni avanti; serrate le schiere!

Per monti e valli, per lande e riviere,

Procedete ordinati, a capo basso.

 

Un infinito popolo s’accalca

A noi da tergo, e migra ai regni bui,

Dove tutto sarà sconfitto e rotto.

 

A noi davanti il Capitan cavalca,

Il negro Capitan che accenna altrui

Con la scarnata man senza far motto.

 

(da "Medusa", Mucchi, Modena 1990, p. 157)

 

 

 

 

IL VIANDANTE MAGRO

di Antonio Rubino

 

Grigie nel violaceo mattino

traggon le nubi ad una ridda folle:

per l'erta solitaria del colle

s'affretta un singolare pellegrino.

 

Porta una cappa di candido lino

e intorno a lui su rei càlami estolle

tasso barbasso le fetenti ampolle:

funghi immondi gl'infiorano il cammino.

 

Or sì or no l'accidia d'un vento

con un trito gridìo di spiriti egri

garrisce tra gli stecchi un suo lamento;

 

e il peplo balla tentenna e svolazza,

scoprendo l'ossa degli stinchi allegri

e l'atroce mascella, che sghignazza.

 

(da «Poesia», ottobre 1908, p. 6)



Illustrazione di Antonio Rubino, dalla pagina 80 della sua raccolta poetica: Versi e disegni, Selga, Milano MCMXI