domenica 29 gennaio 2023

La poesia di Adriano Grande

 

Adriano Grande (Genova 1897 - Roma 1972), così come Giorgio Vigolo e Diego Valeri, è uno dei migliori poeti italiani del Novecento che, per motivi a me sconosciuti, è stato troppo spesso trascurato dai curatori di antologie e dagli editori della nostra penisola. Questi ultimi, in particolare – a parte rare eccezioni – hanno finito per dimenticare il poeta ligure; tant’è vero che, nel giorno in cui pubblico questo post, ancora non esiste un volume che raccolga l’intera opera poetica di Grande. Ricordo, che, nei primi anni dell’ultima decade del XX secolo, lessi alcuni versi di Grande all’interno di un’antologia dove, in verità, si trovavano ben poche pagine dedicategli; ciò mi bastò per “scoprirlo”, ovvero per identificare la sua grandezza; da allora non smisi mai di cercare, negli scaffali delle librerie romane, almeno un libro di versi da lui pubblicato (fosse anche una ristampa); mai mi riuscì di trovarne alcuno. Ora, nella mia biblioteca ci sono sette volumi con le poesie di Grande, che con gli anni acquistai e che vado a leggere e rileggere spesso, poiché ancora oggi la sua poesia mi piace moltissimo.

Per meglio comprendere il fare poetico di Grande, mi pare sia il caso di riportare una sua frase, presente nell’antologia Lirici nuovi (1941), che è anche una dichiarazione di poetica:

 

 «Poetare, infondo, significa sempre affidarsi in qualche modo all’ineffabile, ma con gli strumenti e l’umiltà di un artigiano»

 

Quindi, secondo Grande, la poesia nasce da qualcosa d’indefinibile e d’inesprimibile, e la sua struttura si deve costruire umilmente, così come fa l’artigiano quando crea un oggetto. Questa opinione, si rispecchia in tutto il percorso poetico di Grande: sempre fedele ad una ben definita linea, che non ha mai preso in considerazione mode o tendenze. Certo, anche Grande fu influenzato dai nostri migliori poeti del Novecento e della fine dell’Ottocento, come D’Annunzio, Sbarbaro Novaro, Cardarelli e Montale; senza dubbi può essere facilmente associato alla cosiddetta “Linea ligure”, a cui dedicai un altro post qualche tempo fa, e ciò è evidente soprattutto per il fatto che Grande predilige la descrizione di paesaggi della sua regione natale. Eppure, l’unicità poetica di Grande rimane ben rintracciabile dalla raccolta d’esordio, intitolata Avventure (1927) agli ultimissimi versi che compaiono nell’unica antologia poetica che lo riguardi, pubblicata qualche anno prima della sua scomparsa. Da non dimenticare, infine, che Grande ebbe il merito di fondare e dirigere due riviste letterarie della massima importanza, quali furono Circoli e Maestrale. Chiudo, riportando i titoli di tutte le opere poetiche di Grande, a cui seguono tre fra le sue migliori poesie.

 


Opere poetiche

 

“Avventure”, Edizioni del «Baretti», Torino 1927.

“La tomba verde”, Buratti, Torino 1929.

“Nuvole sul greto”, Edizioni di «Circoli», Genova 1933 (2° ed. 1938).

“Alla pioggia e al sole, Carabba, Lanciano 1935.

“Poesie in Africa”, Vallecchi, Firenze 1938.

“Strada al mare”, Vallecchi, Firenze 1943.

“Fuoco bianco”, Edizioni della Meridiana, Torino 1950.

“Preghiere di primo inverno”, Ubaldini, Roma 1951.

“Canto a due voci”, Maia, Siena 1954.

"Consolazioni", Edizioni del Fuoco, Roma 1955.

“Avventure e preghiere”, Ubaldini, roma 1955.

“Su sponde amiche”, Rebellato, Padova 1958.

“Stagioni a Roma”, Rebellato, Padova 1959.

“Acquivento”, Carpena, Sarzana 1962.

"La tomba verde e Avventure", Mondadori, Milano 1966.

“Poesie (1929-1969)”, Mursia, Milano 1970.

 

 


 

 

Testi


NEL GRETO

 

Ombra vorrei su me di piante e d'erbe,

in me vivente trovare una pace

di tomba: o dove nacque

riconoscere l'onda

del canto.

 

Assai stagioni nel brusio del bosco

l'anima tacque, fonte

di breve corso. Accanto,

fresco di capelvenere, un crepaccio

pauroso l'inghiottiva: umido e verde,

la memoria ne serba il singhiozzare

come un rimorso.

 

Scampo non c'è, violata

esistenza: quel che un tempo

amavi a te ripetere nel fresco

silenzio, si distende

in torbida corrente

che troppo spesso stagna

lungo una frequentata

e rumorosa riva: l'accompagna

la polvere dei greti

che vorresti bagnare e non potrai.

 

Segreti più non hai

per me: su le tue sponde

nessuna minuziosa

e folta meraviglia

di felci e fronde impiglia i miei pensieri,

né delle fratte l'irsuto vigore

il tuo tremare a chi passa nasconde:

solo chi non ha sete

nel fondo del tuo corso può contare

le pietre.

 

Ombra vorrei su me di piante e d'erbe,

tornare al mio geloso

segreto.

All'orlo di un crepaccio

nel mio fuggir le voci di natura

piangerei di vergogna:

ma tornerebbe un'acqua

la vita, trasparente nel silenzio.

 

Una rampogna m'ha sospinto a valle:

ascoltandola ho vinto la paura

ma ho lasciato il mio meglio alle spalle.

Ora vorrei che fosse la mia tomba

quella del mare, solenne: nel rombo

delle tempeste s'odono gridare

presso gli scogli i monti e le foreste.

 

(da "Nuvole sul greto", 2° Edizione, Edizioni di «Circoli», Genova 1938, pp. 35-37)

 

 

 

 

PARADISO PERDUTO

 

O Paradiso, il mio pensier dirupa,

nebbia di falda in falda

riscende,

sol ch'io l'alzi a toccar nella memoria

quella che un tempo, calda di puerile

speranza,

immagine di te mi componevo.

 

Io non so più quel che allora sapevo,

vanamente m'arrampico ai ricordi,

non ho più lena, istante non m'avanza

che la vile esistenza non s'appanni:

cresciuti

ormai già troppo, gli anni

m'affondan nella terra, come pioggia

e vento affondano tra l'erba i sassi.

 

Pure, la terra è bella, or che mi presta

occhi la fanciulletta

mia gaia per guardarla

come di primavera

guardano i fiori che sembran stupire

del tornare dell'alba

dopo la sera.

 

Ed ella, che per vivere s'appoggia

a me quasi alberello a una muraglia,

beve dalle parole di sua madre,

acqua di mattutino

cielo, la meraviglia delle fiabe:

ma dormendo si perde

in strade ove seguirla non possiamo.

 

Destandosi, ritorna a noi più verde

di foglie; e il suo giocare

incessante riprende; e non rivela

il Paradiso che dormendo ha visto:

e il suo segreto rende ancor più triste

il mio segreto.

 

(da "Alla pioggia e al sole", Carbba, Lanciano 1935, pp. 29-31)

 

 

 

 

VILLERECCIA

 

Din don dan delle campane

mentre il sole sui castagni

nella valle dell'infanzia

scende a fiotti.

 

Vetturale, figurina

così viva nel ricordo

coi tuoi schiocchi,

pe' miei occhi

troppo liscia è questa strada

ch'era un tempo polverosa.

 

Tanta pace

ricordata

ora è falsa: fischia il treno,

stride il freno

senza posa sull'asfalto

che al villaggio mi conduce.

 

Din don dan delle campane

nel mio viaggio

di ritorno,

nella luce che trapela

dai castagni dell'infanzia,

solo il musco

lungo i viottoli gentili

cheto accoglie come al tempo

ch'io ti vidi, o vetturale,

la giornata.

 

1948

 

(da "Acquivento", Carpena, Sarzana 1962, pp. 72-73)

 

 

 

 

venerdì 27 gennaio 2023

Shemà

 

Voi che vivete sicuri

Nelle vostre tiepide case,

Voi che trovate tornando a sera

Il cibo caldo e visi amici:

 

          Considerate se questo è un uomo

          Che lavora nel fango

          Che non conosce pace

          Che lotta per mezzo pane

          Che muore per un sì o per un no .

          Considerate se questa è una donna,

          Senza capelli e senza nome

          Senza più forza di ricordare

          Vuoti gli occhi e freddo il grembo

          Come una rana d'inverno.

 

Meditate che questo è stato:

Vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

Stando in casa e andando per via,

Coricandovi alzandovi;

Ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

La malattia vi impedisca,

I vostri nati torcano il viso da voi.


10 gennaio 1946

 

 

COMMENTO

Nel “Giorno della Memoria” che, a quanto si dice, sta perdendo sempre più d’interesse in tempi in cui si riscontra un allarmante, generalizzato ritorno agli armamenti e un sempre più alto numero di conflitti bellici che coinvolgono anche paesi europei; e, contemporaneamente, ci si accorge che il razzismo è divenuto un male cronico, ineliminabile e pericolosissimo, mi pare più che mai opportuno pubblicare un post in cui si possano di nuovo leggere dei versi scritti da Primo Levi, e che compaiono sia all’inizio del suo romanzo autobiografico più famoso: Se questo è un uomo; sia nella sua raccolta poetica più significativa: Ad ora incerta. Sono versi molto crudi, che spesso si possono anche leggere nelle pagine delle antologie scolastiche vecchie e nuove; ecco, a tal proposito, come vengono brevemente presentati da una di queste, che fu anche il mio testo di Lettere del primo biennio di Liceo Scientifico (1979-1981):

 

[…] Le parole sono le più semplici, le più quotidiane, senza un’eco dei sapientissimi moduli verbali realizzati dagli uomini di lettere nei decenni precedenti; - ma l’intonazione è quella delle invettive dantesche, e la maledizione lanciata dal poeta contro chi vorrà dimenticare, e lasciar cadere il ricordo delle infamie compiute, quella stessa dei versetti più duri, implacabili, martellati dell’Antico testamento.¹

 

Il titolo della poesia: Shemà, in lingua ebraica significa Ascolta, ma è anche il nome di una delle preghiere più famose della liturgia ebraica.

Primo Levi (Torino 1919 – ivi 1987), che nella vita svolse il mestiere di chimico, fu deportato dai tedeschi e quindi internato nel campo di concentramento di Auschwitz, all’inizio del 1944. In quel contesto infernale, quasi miracolosamente riuscì a sopravvivere fino all’arrivo dei russi, nel 1945. In due romanzi che rientrano nella migliore letteratura italiana del Novecento: Se questo è un uomo (1947) e La tregua (1963), ha raccontato la sua esperienza nel famigerato campo di sterminio e il suo travagliato ritorno in patria dopo la liberazione.

La poesia Shemà, l’ho trascritta dalla pagina 15 del volume Ad ora incerta, Garzanti, Milano 1984; gli stessi versi, senza titolo, si leggono anche a mo’ di epigrafe, nel citato volume Se questo è un uomo (nella foto qui sotto si può vedere la pagina 1 dello stesso, ripubblicato dallo Stabilimento Nuova Stampa Mondadori, Cles 1997).

 



 

NOTE


1)     Da I problemi - antologia italiana per il biennio delle scuole superiori, Casa Editrice D’Anna, Messina-Firenze 1974, p. 787.

domenica 22 gennaio 2023

Antologie: "Guida al Novecento"

 

Guida al Novecento è il titolo di un'antologia letteraria curata da Salvatore Guglielmino (1926-2001), pubblicata per la prima volta da Principato Editore di Milano nel 1971. L'edizione che posseggo e di cui voglio brevemente parlare, è la quarta e fu pubblicata nel 1986. Questo volume, composto da 1311 pagine (escludendo le tavole fuori testo), era destinato agli studenti delle scuole medie superiori e, come spiega bene il titolo, intendeva guidare questi ultimi allo studio della letteratura italiana ed europea compresa in un periodo storico che prende avvio dall'ultima parte dell'Ottocento e si conclude all'inizio dell'ottavo decennio del Novecento. La struttura di questa antologia è certamente anomala e, direi, originale; come spiega lo stesso curatore nella Presentazione, il libro si compone di due parti: un profilo letterario dalla fine dell'Ottocento ad oggi, e una parte antologica dedicata a suddetto periodo. Sempre nella stessa sezione, Guglielmino, dopo aver avvertito che il linguaggio dell'opera antologica non si avvale di alcun compiacimento linguistico, precisa il fatto che ogni periodo storico preso in considerazione, è preceduto da una premessa inerente il contesto politico-sociale dello stesso; con questo procedimento, il curatore intendeva facilitare il compito dell'insegnante, il quale poteva usufruire del testo già pronto, senza dover aggiungere nulla di personale. Tralascio il resto della Presentazione e riproduco soltanto l'elenco delle cinque parti di cui si compone l'antologia:

 

1. La crisi di fine Ottocento

2. Le inquietudini del primo Novecento

3. Tra le due guerre

4. La parabola del neorealismo

5. Revisioni, neo-avanguardia, mercato

 

Parlando ora della sola parte dedicata alla poesia, posso dire che questa antologia scolastica non si discosta dalle altre uscite su per giù negli stessi anni; non è la sola, infatti, che giustamente include poeti determinanti per le future generazioni, pure se da alcuni considerati ottocenteschi, quali furono Pascoli e D'Annunzio; e altrettanto giustamente non esclude alcuni poeti francesi d'estrema importanza, così come gl'italiani, nella sezione dedicata alla nascita della nuova poesia nostrana sviluppatasi nel primo decennio del XX secolo. Per tutto il resto, il libro segue uno schema ben preciso, di cui ho già parlato, tenendo sempre presenti i migliori scrittori europei e non, che in varie circostanze sicuramente suggestionarono l'operato degli italiani. Chiudono l'antologia i poeti della cosiddetta "Quarta generazione", insieme ai collaboratori della rivista Officina ed ai Novissimi. Non mancano le esclusioni, sorprendenti e a volte clamorose; tra i dialettali il curatore salva soltanto Biagio Marin e Franco Loi. Ecco infine l'elenco dei poeti italiani presenti in questa antologia.

 

 



GUIDA AL NOVECENTO

 

Giovanni Pascoli, Gabriele D'Annunzio, Sergio Corazzini, Marino Moretti, Guido Gozzano, Filippo Tommaso Marinetti, Aldo Palazzeschi, Gian Pietro Lucini, Corrado Govoni, Dino Campana, Clemente Rebora, Vincenzo Cardarelli, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Umberto Saba, Salvatore Quasimodo, Vittorio Sereni, Sandro Penna, Mario Luzi, Cesare Pavese, Pier Paolo Pasolini, Biagio Marin, Franco Fortini, Andrea Zanzotto, Elio Pagliarani, Roberto Roversi, Giovanni Giudici, Edoardo Sanguineti, Franco Loi.  

 

 

domenica 15 gennaio 2023

L'Angelus in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 

L’Angelus o Ave Maria, è una preghiera della religione cristiana, in onore dell’Incarnazione. Il nome latino, deriva dalla parola iniziale. Caratteristico di questa orazione, è il suono della campana, che rintocca tre volte al dì - al mattino, al mezzogiorno e alla sera – per indicare ai fedeli l’ora in cui si recita la preghiera. Quest’ultima, è composta da tre versetti, ognuno seguito da un’Ave Maria (per questo è chiamata anche in tal modo); segue, a mo’ di chiusura, un’ altra orazione. Pare che l’Angelus, divenne una consuetudine per il popolo cristiano della penisola italiana, a partire dal XIII secolo; fu probabilmente il re Luigi XI, a far sì che venisse recitata in modo tradizionale (ossia tre volte al giorno) anche a Parigi. Col tempo, questa preghiera assunse un’importanza particolare, divenendo qualcosa di fondamentale per i credenti e non solo. Nel secolo XIX, e all’inizio di quello successivo, l’Ave Maria era ancora imprescindibile, e scandiva le principali fasi delle giornate del popolo italiano. Poi, col tempo, perse d’importanza, tant’è vero che io non ho alcun ricordo di questo rito, così come del suono caratteristico della campana della chiesa che non era (e non è) molto lontana dalla mia abitazione. C’è da dire che, sempre attraverso gli anni, l’Angelus della sera divenne - dei tre tradizionali - quello più rappresentativo; ciò lo si deduce anche dalle poesie che ho trascritto di seguito a questa introduzione, alcune delle quali ben trasmettono quell’atmosfera mistica e particolarmente affascinante che aveva il suono delle campane, sia per coloro che si trovavano nei luoghi d’appartenenza, sia per tutti gli altri, che avevano l’occasione di unirsi mentalmente, grazie alla comune preghiera, alle persone care, fossero anche molto lontane.

 

 L'ANGELUS IN 1O POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO

 

L'AVE

di Vittoria Aganoor (1855-1910)

 

Alfine, alfine! ecco tutte

le cose tacciono; il mondo

tace. Regina o schiava

qual mi vuoi abbimi! è questo

il momento, per questo

l'universo aspettava.

 

Certo aspettava da cento

secoli, e tutti chiedeano:

— Che attende? E perchè questa

tenace estasi, e tanto

accendersi di stelle

come faci a una festa?

 

Ecco la febbre dell'ora,

scote di palpiti novi

le Pleiadi e nel vento

passa l'annuncio... O mio amore,

unico amore, udisti

l'Ave del firmamento?

 

(da "Leggenda eterna", Roux & Viarengo, Torino 1903, p. 16)

 

 

 

 

AVE MARIA

di Guglielmo Felice Damiani (1875-1904)

 

Fatemi un po' di sito, o gente pia,

qui sulla soglia: anch'io la fronte chino,

anch'io tra caprifoglio e gelsomino

torno fanciullo a riverir Maria.

 

E voi fratelli siete qua venuti

mossi dalla pietà d'un cuore afflitto;

io qua giunsi ramingo e derelitto

seguendo certi miei sogni perduti

 

di giustizia e di gloria. Onde mi giova

pregar con voi per quanti han già patito

o patiranno un dì: lunghesso il lito

dura il singulto e l'onda si rinnova.

 

(da "Lira spezzata", Zanichelli, Bologna 1912, vol. I, p. 73)

 

 

 

 

ALL'AVEMARIA

di Diego Garoglio (1866-1933)

 

Mite settembre, nella calma sera

dolce tornar con l'anima tranquilla

quando argentina dalla chiesa squilla

l'invito alla preghiera;

 

e l'invito alla famigliare cena

mentre già l'ombra chiude l'orizzonte,

e come un'ostia d'oro sopra il monte

spunta la luna piena.

 

Il passo affretti sulla bianca via

per quelli che t'aspettano al ritorno,

rimormorando nel morir del giorno

l'antica "Ave, Maria!":

 

il saluto virgineo della Fede,

che da millenni mormoraron gli avi,

che t'insegnò con pie labbra soavi

la mamma in cui si crede.

 

E come in notte il dì si trascolora

teneramente, già presso le porte,

nel pensiero congiungi vita e morte

senza tremar dell'Ora.

 

Tacitamente, prossimi e lontani

nell'intima preghiera benedici,

ansio che Dio sorrida agli infelici

col nuovo sol domani.

 

I tocchi estremi dell'Avemaria

oscillan nel ricordo... Fuori tace

la vita, e ferve entro le case... Pace

al mondo! Così sia.

 

Tassello (Monferrato) agosto 1925

 

(da «La Festa», 6 settembre 1925)

 

 

 

 

L'ANGELUS

di Corrado Govoni (1884-1965)

 

Come deve essere grande quella campana,

che riempie tutto il cielo della sua sonorità!

Si dondola lassù, placida e lenta,

si ferma, va e viene.

Ed io vedo e non vedo, nell' oscurità

dèlia stanza terrena,

il chierichetto, metà nero e metà bianco,

che suona con il piede,

in una languida posa sonnolenta,

ed è portato su nell'aria

poi scende adagio adagio, quando cessa di suonare,

distintissimo e piccolino: come uno di quei razzi spenti

che vagano sulla campagna

con, in coda, il loro dondolante lumicino.

 

(da "Il quaderno dei sogni e delle stelle", Mondadori, Milano 1924, p. 29)

 

 

 

 

ANGELUS

di Augusto Garsia (1889-1956)

 

Dalle eteree vetrate

filtra nel tempio del mondo

l'estremo sole profondo,

o soavissima estate:

 

filtra la tremula prima

luce di luna nel sole,

sbiancando cupe viole

sciolte nell'oro; e la lima

 

fine dei grilli ancor s'ode

dal vagabondo che giunge

dall'ombra in alto e da lunge

recando un canto di lode.

 

             *

 

L'Angelus dice: È finita!

Scendere a valle bisogna:

tornare. E l'anima sogna,

nell'ombra, vasta fiorita

 

di fiordalisi e gerani,

dove si snoda, s'affonda

il canto tacito, l'onda

del canto, incontro al domani:

 

l'onda del canto che s'erge

incontro all'eternità

dopo un sol attimo e tra

fiori di cielo s'immerge.

 

(da «Il Giornale di Politica e di Letteratura», luglio 1926)

 

 

 

 

L’AVE

di Marino Marin (1860-1951)

 

Il cielo, ne la mesta ora de l’ave,

sembra, là verso occaso, un miel sereno,

che si riversi, per le nubi cave,

su l'orizzonte dove il dì vien meno:

 

un miel che, traboccando ampio e soave

dal lucid’orlo d'un gran vase pieno,

coli pel cupo verde e l’acqua grave

sovra ogni eccelsa cima entro ogni seno.

 

O incanto de la mesta ora! Par quasi

che tutte le recondite viole

morte esalando una sottile ebbrezza,

 

tutti i fiori non colti, i fiori rasi

da la stridente falce arsi dal sole,

sian lì dentro quel fiume di dolcezza.

 

(da "Luci e ombre", Zanichelli, Bologna 1904, p. 96)

 

 

 

 

ANGELUS

di Gino Novelli (1899-1975)

 

La luce blanda s'addensa nel mare,

le ombre azzurre scendono sulla terra.

 

Il giorno si confonde con la sera.

 

I campanili neri e diritti

s'innalzano verso il cielo

e parlano con gli Angeli.

 

Tutti, a capo scoperto, salutano la Madonna.

 

Io non riesco a muovere le labbra.

 

Guardo oltre il mare

e odo lo squittire delle ultime rondini

che hanno paura delle stelle nascenti.

 

Non ricordo le preghiere, ma le ho nel cuore

serrate come gemme, e mi fanno male.

 

Ad un tratto il petto mi si allarga d'innocenza e di ricordi

come se il cuore delle cose volesse

entrare nel mio cuore

e il mio cuore volesse raggiungere le stelle.

 

Ora qualcuno è con me,

dentro di me

e mi parla e mi conforta.

 

(da "Migliore stella", La Tradizione, Palermo 1931, pp. 43-44)

 

 


 

L'ANGELUS

di Raffaele Sabelli (?-?)

 

O Signore, chi suona

le campane dell'Angelus?

Invisibili mani

le destano dal sonno,

le fanno ondoleggiare,

cantilenare,

cullarsi nel cielo;

ma non sei Tu che le chiami?

che le fai palpitare

e vivere di gioia

dell'andare e venire

ora di qua, ora di là

dal campanile,

per salutare ogni lato

del creato?

Non è la Tua voce,

che fa risollevare

la mano accidiosa

d'ogni creatura

incontro a Te,

nel segno de la Croce?

 

(da «Quaderni di poesia», 6 agosto 1935)

 

 

 

 

AVE MARIA!

di Giuseppe Urbani (1877-1946)

 

Vengon di lungi murmuri uniformi

come di tenui zampillìi di fonti;

e, punti neri de l'azzurro, a stormi

vanno gli augelli. È l'ora dei tramonti!

 

Intorno, intorno ai limpidi orizzonti,

come le gobbe di camelli enormi,

emergono le cime alte dei monti

illuminate e tra di lor difformi.

 

Da la pieve lontana in cima al colle,

come una voce di malanconìa

si spande il suono dell'avemaria;

 

lascia la vanga sulle patrie zolle

il bifolco e si scopre, e a me si svela

la dolce di Millet fulgida tela.

 

(da "Il rosario del cuore", Edizioni de "La Vita Letteraria", Roma 1907, p. 51)

 

 

 

 

L'AVE

di Diego Valeri (1887-1976)

 

La campana ha chiamato,

e l’angelo è venuto.

Lieve lieve ha sfiorato

con l’ala di velluto

il povero paese;

v’ha sparso un tenue lume

di perla e di turchese

e un palpito di piume;

ha posato i dolci occhi

sulle più oscure soglie...

Poi, con gli ultimi tocchi,

cullati come foglie

dal vento della sera,

se n’è volato via:

a portar la preghiera

degli umili a Maria.

 

(da "Poesie piccole", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1969, p. 9)

 


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