venerdì 23 marzo 2018

I lumi nella poesia italiana decadente e simbolista


Le lampade, i lumi, i fanali e simili, così come la luce in generale, sono spesso collegati ad un discorso mistico. Per molti poeti ogni fonte di luminosità rappresenta, in qualche modo, l'ultraterreno (lo rappresentano le luci poste vicino alle tombe, alle immagini dei santi e, negli edifici religiosi, dovunque esse siano). Non mancano però le eccezioni; Buzzi, per esempio, guardando i lampioni posti su un viale alberato, di notte, si accorge di come essi rappresentino bene quell'idea futuristica che egli ha abbracciato di recente con entusiasmo. Corazzini invece, parla di un fanale posto all'esterno di un postribolo e lo fa divenire simbolo di sofferenza e di castità. Lo stesso discorso, seppure in modi e accentuazioni meno coinvolgenti, vale per la poesia Il lampione di Govoni. Nella poesia Il cembalo e la lampada, di Pietro Mastri, entrambi gli oggetti del titolo rappresentano la carità. Del tutto scherzosi sono poi i versi de La lanterna di Aldo Palazzeschi. In altri casi ancora le fonti di luce svolgono compiti prettamente utili oppure simboleggiano l'anima del poeta. Minore rilevanza ha invece la funzione che svolgeva la famosa "Lampada di Diogene", ovvero quella di illuminare chi va alla ricerca di qualcosa o di qualcuno. Vi sono infine dei componimenti del tutto indecifrabili.




Poesie sull'argomento

Fausto M. Bongioanni: "Lampada verde" in "Venti poesie" (1924).
Umberto Bottone: "Lumi d'argento" e "Le lampade votive" in "Lumi d'argento" (1906).
Paolo Buzzi: "Primi lampioni" in "Versi liberi" (1913).
Enrico Cavacchioli: "La lampada" in "L'Incubo Velato" (1906).
Francesco Cazzamini Mussi: "Fanale" in "Le allee solitarie" (1920).
Girolamo Comi: "Or mi bagno nei lumi tuoi sicuri" in "Lampadario" (1912).
Sergio Corazzini: "Il fanale" in "Le aureole" (1905).
Giovanni Croce: "La lampada" in "L'anima di Torino" (1911).
Diego Garoglio: "Il faro" e "I fanali" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).
Corrado Govoni: "Cereo pasquale" in "Le Fiale" (1903).
Corrado Govoni: "Il lampione" in "Armonia in grigio et in silenzio" (1903).
Corrado Govoni "La lampada di Psiche" e "I fanali" in "Gli aborti" (1907).
Pietro Mastri: "Il cembalo e la lampada" in "La Meridiana" (1920).
Marino Moretti: "Teda" in "Poesie di tutti i giorni" (1911).
Ettore Moschino: "La veglia" in "I Lauri" (1908).
Aldo Palazzeschi: "La lanterna" in "Poemi" (1909).
Francesco ed Emilio Scaglione: "A la mia lampada" in "Limen" (1910).
Emanuele Sella: "Trittico della luce siderale" in "Monteluce" (1909).
Emanuele Sella: "L'Empirea Sfera" in "L'Eterno Convito" (1918).
Mario Venditti, "Le due luci" in "Il cuore al trapezio" (1921).




Testi

LUMI D'ARGENTO
di Umberto Bottone

I.
Piccoli fari miei, lumi d'argento
a notte lacrimosi per la via,
pallidi e vani come il sentimento

del mio cuore, che mai fate? La mia
Musa non suona più La tiorba lene
dopo la squilla de l'Avemaria.

La Fata è tiste; piange un bene, un bene
che le spirò nel cor languidamente
ne le vostre serate più serene.

Lucciole belle, siete sonnolente,
vi manca il cuore, ahimè! Non lo vedete
che il cuor vi manca e siete quasi spente?

Oh, come siete tristi, oh, come siete
stanche! Mie vdgabonde lucciolelle,
voi mi fate pietà, voi mi farete

morire certo con le prime stelle.


II.
Il cielo è bruno e la mia fata dorme
ancora. Dite, ma non si potrebbe
scuotere un poco le sue bianche forme?

È molto tempo che la tiorba s'ebbe
l'ultimo bacio da sue mani pure:
oh, come lieta, faci, ella sarebbe

d'un pianto triste, lungo, de le cure
consuete; ravvolgerla in un velo
nero, più nero de le sepolture!

Il cuor mi trema come l,asfodelo
ammonitore; o mie dolci sorelle,
stanche come le suore del Carmelo!...

Se siete buone come siete belle,
se volete ogni notte spasimare,
o innamorate de le prime stelle,

andate la mia fata a risvegliare!...

(da "Lumi d'argento", 1906)




A LA MIA LAMPADA
di Francesco ed Emilio Scaglione

Io studio e tu piccola lampa affretti
a me il sonno, a te morte avida e piana;
stanca pur d'illuminar la vana
opra un estremo anelito mi getti.

E invano aizzo l'anima che china
agonizzando tra le mani sporte:
"Maledetto chi vuol fermar la morte
a chi muore, e la strada a chi cammina"

Avea chiuso nel sogno ultimo il mio
pensier di morte. Io vedea lieto ancora
in mezzo a l'ombre sorgere un'aurora
segnatami dal bianco de l'oblio.

Cedevo all'onda del pensier... perdona
lampa, stelo pur vivo ne la morte;
oh! quanta in te, ne le tue braccia corte
virtù, che poco vuole e tutto dona.

Io resto: tu ritornerai domani,
ilare e rossa a cinguettar su' vetri,
io ti domanderò come s'impetri
pace a la tomba con le sporte mani!

(da "Limen", 1910)




Georges de La Tour, "The Magdalen with the Smoking Flame" 

venerdì 16 marzo 2018

Discorso su un fiore


Il sole sul muro dischiude
per ogni finestra un sorriso,
e come ali di paradiso,
due candide mani ignude.

Le suore guardano nel mattino
il primo fiore che brilla
siccome una tenue favilla
che incendierà tutto il giardino.

Nell'ombra del pesco e del melo
è il pozzo con l'acqua che affiora
come un canestro di cielo
che v'abbia lasciato l'aurora.

Come rondini sul nido infecondo
discorrono piano le suore:
gran miracolo è quel fiore
nato fuori del mondo.

- È tempo di vigilia, sorelle. È l'ora
delle vergini cose:
quel piccolo fiore che odora
è l'araldo delle rose.

- Porta rugiada e colore...
- Io vado a sdraiarmi sull'erba per bere.
- Chissà che dolce sapore
ha il pianto delle primavere.

- Vedete? Un serpe lo tocca:
e con che tremante passione
lo bacia sulla tenera bocca.
- Gli ruba il sapor di stagione.

- Sorelle, è dolce ogni fiore?
- Sa di miele... poi di fieno.
- Ogni bocca ha un suo sapore...
- Ogni serpe un suo veleno.

- Un fiore avvelenato
non mettetelo nel mazzo dell'altare.
- Non ha colpa se un serpe lo ha toccato.
- Non doveva lasciarsi baciare.

- Poteva forse fuggire?
- Doveva morire.

Frontespizio del volume poetico di Renzo Pezzani: "Lusignolo nel claustro"


Questa poesia di Renzo Pezzani fa parte della raccolta L'usignolo nel claustro, pubblicata dall'editore Alpes di Milano nel 1930. La si trova a pagina 29, all'interno della sezione intitolata Clausura. Come in parte spiega il titolo, al centro del componimento in versi c'è la presenza di un fiore, sbocciato improvvisamente all'inizio della primavera, nel giardino di un convento di suore. Quest'ultime, una volta notato l'evento, si sono riunite per godersi quello spettacolo naturale. Eccole allora fare i primi commenti, ricordando che è il periodo particolare dell'anno in cui si assiste alla nascita di tutto ciò che è immacolato e puro (delle vergini cose); quel fiorellino, in tale contesto pre-primaverile, diviene un messaggero che annuncia l'imminente arrivo di nuove e più consistenti fioriture. Ma, mentre qualche suora già si allontana entusiasta per sdraiarsi sull'erba del giardino in modo da percepire tutta la freschezza ed il sapore della rugiada primaverile, ecco che un serpente si avvicina al fiore e, col muso, lo tocca quasi volesse baciarlo. Le suore, rimangono inizialmente sorprese e sconcertate dal nuovo fatto, quindi ricominciano a fare dei commenti; fino a che, qualcuna di loro, con dire accusatorio fa presente che il fiore è stato contaminato dal veleno di quell'orrido animale e quindi non deve essere còlto, né, tantomeno, inserito in un mazzo di altri fiori sull'altare del convento. Qui nasce una discussione sulla colpevolezza del fiore, come se quel vegetale fosse diventato un essere umano che avesse perduto la sua verginità. Alcune suore affermano l'innocenza del fiore, perché non poteva né fuggire né difendersi, altre, lo accusano per il semplice fatto che non è morto subito dopo il bacio del rettile. Quasi superfluo è aggiungere che il serpe rimanda alla Bibbia e, in particolare, al diavolo in veste di serpente che tentò Eva nell'Eden. Evidente mi sembra anche la simbologia del fiorellino, riferita alla purezza e al candore delle giovani suore. Questa poesia, infine, molto ne ricorda un'altra, più famosa, di Sergio Corazzini che s'intitola: Sonata in bianco minore. Anche lì l'ambientazione è offerta da un convento di suore, le quali, emozionate per la presenza del sole nel cielo, assente da molti giorni, accorrono nell'orto sottostante l'edificio e cominciano a fare un vero e proprio discorso che comprende commenti, speranze e sentenze esistenziali. È probabile perciò che Pezzani, nella stesura di Discorso su un fiore, si sia ispirato alla lirica del poeta romano.

lunedì 12 marzo 2018

Nella casa di N. compagna d'infanzia


Il vento è un aspro vento di quaresima,
geme dentro le crepe, sotto gli usci,
sibila nelle stanze invase, e fugge;
fuori lacera a brano a brano i nastri
delle stelle filanti, se qualcuna
impigliata nei fili fiotta e vibra,
l'incalza, la rapisce nella briga.

Io sono qui, persona in una stanza,
uomo nel fondo di una casa, ascolto
lo stridere che fa la fiamma, il cuore
che accelera i suoi moti, siedo, attendo.
Tu dove sei? sparita anche la traccia...
Se guardo qui la furia e se più oltre
l'erba, la povertà grigia dei monti.



Questa poesia di Mario Luzi (Firenze 1914 - ivi 2005) l'ho estratta dalla pagina 200 del libro del poeta toscano: Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1993; all'indice, il titolo è seguito, tra parentesi, dalla data di composizione: 1950. Uscì per la prima volta nella raccolta Primizie del deserto (Schwarz, Milano 1952). Rappresenta, insieme alle altre liriche del volume appena citato, una nuova fase della poesia di Luzi, che qui abbandona, almeno in parte, quell'ermeticità testuale che l'aveva profondamente caratterizzata in precedenza, a favore di una chiarezza che, però, mantiene una sorta di enigmaticità. Dal titolo si evince facilmente che Luzi, nel momento in cui scrisse questi versi, era all'interno dell'abitazione di una compagna dell'infanzia; quest'ultima, alla quale si rivolge, risulta però assente. Il poeta, che probabilmente si trova seduto davanti al caminetto, in una giornata ventosa e fredda di fine febbraio o d'inizio marzo (è il periodo della quaresima), sta attendendo qualcosa o qualcuno. Forse aspetta il ritorno improvviso della vecchia compagna, di cui, a parte l'assenza, non si sa molto di più (è nota soltanto la lettera iniziale del nome), o forse qualcos'altro non ben chiarito. Più di un critico ha detto, parlando di questi versi, che trattasi di un'amara constatazione del passare del tempo, di una triste meditazione su ciò che, cogli anni, svanisce per sempre; secondo questa tesi, il vento impetuoso rappresenta una forza implacabile che rende palese la transitorietà e l'instabilità dell'esistenza umana. Qualunque sia l'intenzione che ha spinto il poeta a scrivere questi versi, non si può negare che siano molto affascinanti, tra i migliori dell'intera opera poetica luziana.   

giovedì 8 marzo 2018

Antologie: "Gozzano e i crepuscolari"


Questo libro, curato da Cecilia Ghelli e pubblicato da Garzanti in Milano nel 1983, è stato il primo che abbia mai acquistato e consultato riguardante i poeti crepuscolari. Ricordo che lo trovai, a circa dieci anni dalla sua uscita, in una libreria di Roma, nel quartiere Prati. È senza dubbio una delle migliori antologie poetiche del crepuscolarismo. I poeti presenti sono soltanto undici, con la netta distinzione tra Guido Gozzano e gli altri dieci (come è noto, il poeta di Agliè, seppure possegga delle affinità evidenti coi crepuscolari, è sempre stato posto, dalla critica più accorta, un po' al di fuori del gruppo o della scuola, venendo etichettato come l'ultimo dei classici).
L'antologia si struttura nel seguente modo: un'ampia e interessantissima introduzione, scritta dalla curatrice, divisa in sezioni; una guida bibliografica generale ed una particolare, per ogni poeta selezionato; una scelta generosa di poesie di Gozzano, seguita da un breve saggio di Eugenio Montale, riguardante la poesia dello stesso, che già comparve in una vecchia edizione delle sue poesie; una scelta di poesie dei dieci poeti crepuscolari.
Molto interessante, come già detto, mi sembra la parte introduttiva dell'antologia, dove sono ben definite le tematiche più ricorrenti di questi poeti. Qualche perplessità può nascere dalla scelta dei testi antologizzati, come quelli di Corrado Govoni, di cui si riportano diverse liriche tratte da Le fiale e solamente due da Armonia in grigio et in silenzio (considerata quest'ultima, giustamente, quale prima raccolta veramente crepuscolare del poeta emiliano e, più in generale, della scuola suddetta). Altra perplessità è plausibile nell'osservare la presenza di Guelfo Civinini, definito dalla stessa curatrice un "minore" del crepuscolarismo, e non trovarvi quella di Tito Marrone: ben più inserito nel gruppo del toscano. Ma, al di là di queste marginali considerazioni, l'opera può definirsi ottima, ed ha rappresentato per me, il primo importante passo per conoscere e approfondire la poetica dei crepuscolari. Ecco infine gli undici poeti antologizzati.



GOZZANO E I CREPUSCOLARI

Guido Gozzano, Carlo Chiaves, Guelfo Civinini, Sergio Corazzini, Giulio Gianelli, Corrado Govoni, Fausto Maria Martini, Marino Moretti, Nino Oxilia, Aldo Palazzeschi, Carlo Vallini.

venerdì 2 marzo 2018

"Forse un viso tra mille" di Umberto Bellintani


La poesia di Umberto Bellintani (Gorgo di San Benedetto Po 1914 - San Benedetto Po 1999) rappresenta qualcosa di anomalo nel panorama novecentesco italiano. Non soltanto per il fatto che pubblicò la sua prima raccolta quando era quasi quarantenne, ma anche e soprattutto perché ben pochi, come lui seppero essere contemporaneamente meditativi e istintivi, teneri e rabbiosi, mistici e terragni; ebbe insomma la possibilità e la capacità di esprimersi in modi assai dissimili e contraddittori, pur mantenendo una personale e indiscutibile coerenza. Qualcuno lo definì poeta contadino, qualcun altro disse che i suoi versi erano naïve, ma la realtà dice che Bellintani è stato un grandissimo poeta e che la sua poesia non è classificabile in alcun modo. Altra anomalia fu il suo ritiro dalla scena poetica e letteraria, dal 1963 al 1998; ciò avvenne malgrado i molti elogi e riconoscimenti che, nel decennio in cui pubblicò dei libri, aveva ricevuto con pieno merito.
Personalmente rimasi impressionato favorevolmente dal suo modo di scrivere versi, già dalla prima poesia che lessi quasi per caso. Riconobbi immediatamente un talento straordinario e una spontaneità che difficilmente è riscontrabile nella poesia di oggi e di ieri.
Forse un viso tra mille uscì nel 1953, presso l'editore Vallecchi in Firenze. Recentemente la raccolta è stata ripubblicata da Passigli, ed è quindi possibile leggerla senza troppi problemi di reperibilità. Si sostanzia in 72 poesie divise in 7 sezioni. Pur non essendo ritenuta la migliore opera poetica di Bellintani, è, a mio parere, la più intensa e quella in cui il poeta lombardo dà più spazio ai ricordi dell'infanzia e della gioventù. Molti sono anche i versi che meditano sulla morte, così come non mancano certamente le poesie religiose. Gli altri argomenti qui trattati, sempre presenti nei libri del poeta lombardo, sono l'amore e la natura. Difficile dire quali siano le migliori poesie di questo volume, ma, comunque, ho voluto estrarne due "perle" che riporto di seguito. 





POESIA D'AMORE

Che mai ti conosca, amore. Sempre
tu sia l'ignota, il sogno
cui sempre aneli
il cuore che mira. Riva
bella tu sei,
dolce d'arcani - e arcana resti
questa riva che sfiora
il marinaio;

ma non celarti
                     tu
non celarti, apri
i tuoi sentieri verso i colli dell'interno
ond'io cammini ed ogni fiore
ogni frutto accarezzi;

ma nell'arcano,
nell'arcano, amore,
resti il tuo fondo cui m'avvio
in questo nuovo mattino.




STELE NEL DESERTO

Per anni orrendi, disperato, nel deserto
ho tanto grido gettato, tanto pianto,
che mai potrebbe la parola, dolce madre,
di quel dolore palesare più d'un giorno.

So del tuo volto arato dalle lacrime;
e tu sapevi di me, del mio gioire
in riva all'acque più verdi delle erbe,
allor che al sommo spaccato della canna
la prigioniera salamandra si torceva.

Ora nessuno saprà di quali dune
la sabbia rode la carne che m'hai dato.
Ma questa quiete mi riposa come in seno
posavo allora la mia guancia e tu cantavi
al tuo bambino.
Non piangere;
ma nel sorridere, se puoi, afferma il credo
del mio ritorno.