venerdì 31 ottobre 2014

Ognissanti in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Oggi è iniziato novembre: è il giorno di Ognissanti. Dopo essermi alzato, ho tirato su la serranda della mia stanza ed un bel sole mi è apparso. Probabilmente oggi non pioverà, e non mi pare che faccia tanto freddo. Uscirò allora, per fare una passeggiata in campagna. Mi piacciono i paesaggi autunnali, soprattutto dove domina la natura. Amo anche i colori delicati dell’autunno, e adoro il mese di novembre. Non mi ricordo un novembre triste nella mia vita: l’undicesimo mese dell’anno si è sempre rivelato tranquillo, in tutti o quasi i suoi trenta giorni. Della festa di Ognissanti ho pochissimi ricordi, quasi tutti risalenti ai tempi della scuola elementare, quando, il giorno prima, la suora-maestra ci parlava dei santi italiani più famosi, e in particolare di San Francesco. Sì, oggi uscirò per fare una lunga passeggiata, perché novembre, quest’anno, è iniziato proprio bene.




PRIMO NOVEMBRE

di Jacopo Bocchialini (1878-1965)

Pioggia dei Santi, fortuna dei morti,
anche se ai vivi dispetto tu porti!
Men calpestate le povere aiuole,
meno eleganza a la luce del sole.
Ceri bagnati, angustia repressa;
fiori sgualciti, preghiera sommessa.
Pianti in silenzio, occhiaie profonde,
ombre fugaci e anime monde.
Chi passa? Un vecchio che cerca sotterra
l'ultimo figlio che gli è morto in guerra.
Galleria scura: che pena cercare,
guardar dovunque, e invano guardare!
Un corpo a terra: un velo, un affanno...
Quella è una mamma... Così tutto l'anno.
Tutti in silenzio, tutti raccolti:
stanche le spalle, maceri i volti.
Un sol legame: dolore e preghiera,
cuore che spera, cor che dispera.
Così su tutto la pioggia dei Santi,
su vane gioie e su animi infranti.

(Da "Nido nella siepe", 1921)





ET OMNIBUS SANCTIS TUIS
di Giovanna Fozzer (1932)

Risalire
per i rami di quell'albero
che si affolla di
fisionomie antiche

Ignazio Alessandro Marcellino Perpetua
Agata Lucia Agnese
Cecilia Anastasia
Luciano Camilla Paolina Luigi
Mariapia Clementina Giovanni

volti coraggiosi
fatiche generose
fino al martirio.

(Da "Un tuffo al cuore", 1998)





OGNISSANTI
di Corrado Govoni (1884-1965)

Ognissanti! Domenica! La pioggia 
sembra che tessa de le funebri ghirlande... 
Sul marciapiede tra la noia roggia 
s'affretta una chiassosa squadra d'educande. 

Soffia il vento. Domenica! Ognissanti! 
giorno de gli ineffabili preparativi 
e dei pellegrinaggi ai camposanti 
coi cuscini di verdi e rossi semprevivi! 

Lo stellato del vecchio gelsomino 
odora nel testo dal fodero di vaio. 
Tra il fruscìo de le foglie, nel giardino 
bagnato (è il pomeriggio) ferve il passeraio. 

I vetri de la stanza a gli insistenti 
sbruffi raggrinzano i loro pomelli smorti; 
e le campane da tutti i conventi 
recitano l'ufficio a lutto per i morti. 

(Da "Armonia in grigio et in silenzio", 1903)





GIORNO DEI SANTI E IL CIELO DI NOVEMBRE
di Margherita Guidacci (1921-1992)

Giorno dei Santi e il cielo di Novembre
Riflesso nell'asfalto delle vie
Inondate di pioggia, due grigiori
Paralleli ad opprimere lo sguardo
Dovunque cerchi fuga. La città
Sembra di piombo e cenere, ed il crudo
Lampo dei fari rende più spettrali
I visi dei passanti. Lente scorrono
Le ore in questo scroscio
D'acqua, tra schizzi brevi
Di fango e il volteggiare
Di foglie marce dai giardini. È arduo
Oggi pensare al Paradiso: tutto
Ci riconduce e prostra sulla terra.
Occorre troppa fede a superare
L'alta barriera di tristezza. Facile
Sarà invece domani, nella scia
D'una stagione di disfacimento,
Ricordare la fine d'ogni carne.

(Da "Le poesie", 1999)





OGNISSANTI
di Nicola Moscardelli (1894-1943)

La prima neve ingemma la terra ma non riesce ad acchiarire l'aria.
Di là dal velo che ci infrena la vista le legioni invisibili degli Angeli esultano e paiono costellazioni improvvisamente alate.
La cima dell'ala dell'uno tocca la cima dell'ala dell'altro.
Nemmeno la neve del monte che solo la luna sfiora col suo lume è candida come quell'ala.
È un fuoco circolare che arde senza consumarsi.
Nemmeno il più puro pensiero è puro come quel fuoco.
Odono in sonno i fanciulli un gran trascorrere d'ali e l'anima loro è presa nel vortice e attorta a somiglianza d'un fiore.

(Da "Le grazie della terra", 1928)





OGNISSANTI DEL 1906 (A MARIA)
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

Son tutti i Santi, e in cielo è la tempesta.
È la tua festa, ma il tuo viso è smorto.

Dolce sorella, non piegar la testa
come gli smorti fiori del nostro orto!

Sorella pia, non esser così mesta
come son mesti i fiori che ti porto!

Suonano, senti, le campane a festa!
Suonano un poco, e poi... suonano a morto!

(Da "Poesie varie", 1912)





SANTI
di Mario Rivosecchi (1894-1981)

Nivee le spume
nell'impeto opaco dell'onda;
nel fragore, silenziose, lievi;
fra le rupi, un mito.

Santità, azzurro stelo
dai contorti rami,
tremule foglie e fiori;
sopra la terra scura
vaste carezze di spighe.

Santità, umano fiore
grappoli di stelle
sui mondi neri.
Dalle impervie catene,
fluido polle e fiumi.
Santità, sorgente viva
pargoli, cielo
luce entro le case.
Santi di povertà,
santi di umiltà,
santi di carità,
figli dell'uomo,
creature di Dio, Santi
tornate alla terra.

(Da "Foglie sul mare", 1948)





I SANTI
di Roberto Rebora (1910-1992)

La cattedrale si piega nell'aria magica
dove ombre s'innervano nel gioco
consueto del cuore: un moto naturale
nel rapido chiarore dell'avvento.
Maturano gl'animi una foresta ondosa
di figure distanti accanto alla perenne
morte dell'ora.
Oggi l'albero lascia le foglie, mansueto.

(Da "Della voce umana e poesie inedite", 1998)





PREGHIERA PER IL GIORNO D'OGNISSANTI
di Brunello Rondi (1924-1989)

Mai la luce del mondo è stata tanto
bianca come in questo giorno
d'inverno. Le campane
pur ora in questo tenero
acclamare parevano non l'ombra
delle sagrestie ma il suono
stesso della maturità del mondo, il gesto
che romperà il suggello delle messi al giorno
pieno d'estate. I ragazzi
col sangue in questo rombo odo parlare
sulla strada come se una nuova
stagion battesse chiara nei pensieri o il cielo
monumentale come albero mostrasse
i frutti. Vieni a casa
dico piano al mio Dio guardando in petto
me stesso e in questa luce
frequentaci come sale al profondo
cielo degli uomini un volo altissimo
di gru confuse con le nuvole o il rombo puro
del tuono annuncia un movimento
del cielo e della luce che saprà venire in pioggia
sulla terra. Visitaci, come risale dall'Oriente
il sole o ritorna sulla donna
lo sposo, e questi uomini (ch'io,
sono) illumina e nutrisci tu con la luce
ch'è grano, e governa con l'amore
ch'è semenza e caldo soffio dei venti. Ti cerco dove
i popoli si pongono in antiche
e soprattutto nuove posizioni
di giustizia come il vegetale
si accomoda alla luce per mostrare
la propria faccia e alla foresta
far posto. Ti cerco nella pace
dei pastori col loro gregge ma soprattutto in fondo
alle assise degli uomini che fanno
regole per i propri simili. La legge
matura, se vuoi, nel vulcano di sapienza
del tuo azzurro, ove ti vedono segreto
i fanciulli, ma tempera nel muto
equilibrio d'ogni giorno i legami che nascono
agli acuti profili delle ore tra uomo e uomo e insegna
con la fiamma del sole che si spande identica
in tutti i meandri del cielo come l'uomo
è uguale al proprio simile e quei bracieri
che in sé trattengono cupide fiamme mentono
il tuo nome. Non amare i nuovi
traditori della tua prima patria
originaria ch'è il corpo dell'uomo, il tuo Cristo, se dicono
che il suo avvento è dei cieli e in questa magra
meraviglia del mondo non ti ospitano, profondo
come se tu abitassi per Noi e nelle intime
camere della terra nostro amico dei giorni migliori.
E non mi tolgo agli umili
dialoghi della sera quando intorno
alla cena del giorno diventato
pane gli uomini si dicono
le parole più calme se ti parlo
così: «Dio mio fratello e padre
meraviglia dei credenti ma del tutto
domestico come alla grande solitudine
amorosa degli sposi il lor tetto od il mare
ai marinai, dialogo dei labbri
più intimi, parola detta al caldo
dell'orecchio e più lenta di quante mai parole
han detto gli uomini, mio infinito
amico sempre eguale e pur così
nuovo, Dio di fedeltà, d'origine
dolorosa e di memoria, Dio di passione
espressiva e Dio di musica, se i suoni
il Crocifisso indovinano nelle
braccia aperte del suo silenzio, Dio della cenere
e del ritrovamento e dunque Dio del focolare
e del fuoco, Amico degli amori e anche
Primo amante, sorveglia, ravvedi
tempera, correggi
e custodisci, spaventa, rasserena
illumina metti spegni abbandona
governa traduci dimetti
assalisci trasporta tramuta».

(Da "La giovane poesia", 1957)




TUTTI I SANTI
di Antonello Satta Centanin (1967)

Se fossero davvero tutti, Ilario
Fidanza, noto barman di Viggiù,
avrebbe il posto suo nel calendario,
e lo si stimerebbe un po' di più

Di adesso che ogni volta che abbandona
il bar per espletare le funzioni
qualcuno lo deruba. «Vai in mona!»,
è quello che gli dicono. Ragioni

Che valgano la canonizzazione?
Il rassegnato scuotere la testa
nel preparare un'altra colazione,

nel traghettare con anima mesta
sua discendente anodina legione
degli avventori dentro la foresta.

(Da "Poesia contemporanea. Quarto quaderno italiano", 1993)

martedì 28 ottobre 2014

I cimiteri in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo

Tombe su tombe, ve ne sono dappertutto qui, in questo luogo che ispira una calma ineguagliabile. I morti, in realtà, non sono qui, né in un altro luogo. I morti sono scomparsi per sempre, o sono tornati dove erano prima che nascessero: nel nulla. Allora io, quando visito un cimitero, mi diletto a guardare le foto presenti sulle tombe, con le date di nascita e di morte. Ovviamente, rimango colpito quando scopro qualcuno che è deceduto prematuramente, e mi chiedo quale possa esserne stato il motivo. Guardo con curiosità anche i fiori sulle tombe: grandi, piccoli, finti, secchi… E poi i lumini rossi, i pupazzetti, le statuine e chissà quali altri oggetti che qualche parente ha voluto aggiungere nei pressi della tomba di un caro venuto a mancare. Ci sono anche delle frasi, che naturalmente leggo, rimanendo, a volte, perplesso. Amo i cimiteri, perché sono luoghi tranquilli, silenziosi, ordinati, puliti e spesso semideserti. La compagnia dei morti (che se non ci sono) è di gran lunga preferibile alla compagnia dei vivi.




DOLCE DORMIR COSÌ

di Vittorio Betteloni (1840-1910)

A me grato è il pensier, che sotto queste
zolle solinghe avrò riposo un giorno,
ne 'l camposanto umile, a 'l quale agreste
ride Natura sì benigna intorno;

ne 'l camposanto de 'l villaggio, appresso
a 'l padre mio, che qui spontaneo scese,
e de le pene, onde fu in vita oppresso,
a quest'amica terra il termin chiese;

qui accanto a 'l padre dormir voglio anch'io:
né lunge Pietro a riposar qui venne,
il buon fattor, che sotto il tetto mio
già nacque, e vi morì più ch'ottantenne.

Dolce dormir così! Sorgon là dietro
densi i colli di viti e d'uliveti,
dinanzi il lago, come terso vetro,
brilla del sole a i caldi raggi e lieti.

Ultimo asilo d'un poeta è questo
degno davver, fra tanto di Natura
almo sorriso, e degno d'uom modesto,
che oscuro visse, ed avrà morte oscura.

Dolce dormir così, tra l'umil gente,
tra pescatori e tra coloni: io molti
conobbi e amai di questi; e di frequente
stavo con essi intorno a me raccolti,

a ragionar de 'l più e de 'l men; d'amene
oppur di gravi cose: e perché peggio
di me vestiano, e discorrean men bene,
non usavo io però porli in dileggio,

né disprezzarli. Oh! non pensate; allora
che anch'io discenda sotto il verde suolo,
io, come voi, ne l'ultima dimora,
vestito non sarò che d'un lenzuolo,

e non de 'l bel parlare avrò il vantaggio,
che tanto, in vita, sopra voi mi tenne:
qui tutti parleremo egual linguaggio,
de 'l silenzio il linguaggio alto e solenne:

che rotto sol sarà una volta a l'anno,
ma non da noi, quando co i primi algori
de 'l vicin verno, a qui pregar verranno,
e qui i nostri congiunti a sparger fiori.

Dolce dormir così, ne la secura
pace de' campi, in grembo a l'ubertosa
terra, che il vino e il mite olio matura,
lungi da la necropoli fastosa,

lunge da i marmi e da le sculte moli,
fra l'umil gente pria di me qui scesa,
non obbliato, in morte, da que' soli
pochi per cui fu la mia vita spesa.

(Da "Poesie edite e inedite", 1946 )





PAX
di Giovanni Camerana (1845-1905)

L’anima triste dice al corpo affranto:
“Meglio è lasciarci, o misero!”
E una voce laggiù dal camposanto
“Vieni!” par che mi mormori.

Sento attirarmi nella sua malìa
Quella chiostra funerea,
Come se intenta la pupilla mia
Guardasse una voragine.

Sento alle nari ascendermi soavi
Gli effluvi sotterranei;
Sento il tumulto degli istinti pravi
Dileguare in quel balsamo.

Al fastidio del sole, alla stanchezza
Che l’azzurra vertigine
Mi spiove, sento sottentrar l’ebbrezza
Strana del fuoco fatuo.

Un poco d’erba, un po’ di terra smossa,
Un cataletto squallido;
E sull’ospite immoto de la fossa
Un tranquillo sudario;

In eterno svaniti e gaudii, e ardenti
Baci, occhi bruni e ceruli;
Ma svaniti in eterno anche i tormenti
Dell’affanno e del tedio;

In quel gelido oblìo soli compagni
Aver gli orrendi lòmbrici;
Ma non più nelle viscere i grifagni
Strazi patir dell’odio;

A poco a poco diventar l’informe
Orgia de la putredine;
Perdermi a poco a poco nell’enorme
Caligine degli atomi...

È questo il sogno mio; questo il pensiero
Che un sorriso mi suscita
Allor ch’io veggo uno scheletro nero
Apparirmi al crepuscolo.

Dunque schiudasi l’urna. E tu m’appresta,
Sorella, amica ed angelo,
Coi fiori che orneran la bara a festa,
L’amplesso tuo più splendido.

Voglio morire come il sol si muore
In braccio dell’ocèano;
Voglio morir nell’ocèano d’amore,
Morire in braccio all’estasi!...

Al mio frale talvolta il cor ti guidi.
E là, se il duol ti soffoca,
Muta commedia, e sul mio capo ridi;
Io nol saprò, quel ridere!...

(Da "Poesie", 1968)





AL CIMITERO DI GHEVIO
di Felice Cavallotti (1842-1898)

Biancheggia tra ’l verde sul culmine
Il picciol recinto sagrato...
Appare, scompare tra gli alberi,
Qual bianco fantasma appiattato...

— Sorella, non senti pel calle
Che lungo di frondi stormir?
E lenti quassù da la valle
I canti del vespro salir?

Sorella, già fresca è di vespero
La brezza... già l’ama s’oscura...
A valle, giù a valle ne aspettano...
De’ morti non hai qui paura?

Se ad essi qui dài la preghiera,
La nonna non chiede di più...
Tu soffri... e già fredda è la sera...
È l’ora di scendere giù. —

— Oh, l’ombre che a valle si stendono
A me son cortesi e son pie:
M’è cara la brezza di vespero,
Mi porta sì dolci armonie!

Un canto di fiori sì mesto
La nonna qui or or mi narrò...
Discendi, fratello... io qui resto...
Dei morti paura non ho.

Te triste! che a valle t’aspettano
I giorni di cantici privi!
Oh, no, non dai morti che t’amano,
Ti guarda, fratello, dai vivi!

Non dalle memorie che pia
La terra per sempre coprì:
Da l’altre, da l’altre ti svia
Che vive passeggiano al dì!

Te triste! non ora di requie
Per te non è l’ombra che cade!
Non dolce a te farmaco piovono
Le molli notturne rugiade!

Nell’ora che il piangere è bello,
Nell’ora che è dolce obliar,
Tu torni, tu torni, o fratello,
Sul labbro lo scherno, a lottar!

Pur io te l’ho vista la lagrima
Che lenta dal cor ti salìa:
Io sola t’ho visto nell’anima
La fitta che il riso mentìa!

Oh dolce, fra il nulla de’ giorni,
Non rider, non fingere più!
Te triste, che al mondo ritorni,
Che a fingere torni laggiù!

Ma quando la tacita lagrima
Laggiù, fra le pugne, dia schianto,
E rompa all’eterno fantasima
Ch’è teco, le fonti del canto,

Qua, in vetta, alla margine bella
Non giunge di tristi rumor!
Qua riedi, alla morta sorella
Che dorme tranquilla tra i fior! —

Biancheggia tra ’l verde sul culmine
Il picciol recinto sagrato...
Appare, scompare tra gli alberi,
Qual bianco fantasma appiattato...

Scompare nell’ombra... Gemendo
Fa il vento le frodi stormir...
Addio, mia sorella! io discendo
Il triste mio fato a compir.

(Da "Il libro dei versi", 1921)





UMILI CROCI DI LEGNO
di Giovanni Cena (1870-1917)

Umili croci di legno,
brune recenti, grige antiche, segno
di dolori obliati nei riposi perenni,
errai tra voi come in calvario antico.
Un giorno dell'autunno qui riverente venni,
un giorno bianco al pari di canizie giuliva,
in cui Natura assume l'aspetto virgineo, pudico,
quasi d'una rinascita. Veniva
il padre accanto faticosamente.
Non era ancor la croce di lei. Sostò repente,
chinossi e ricordando impallidì:
«È qui...»

Egli si pose a ginocchi.
Radi fili ingiallivano sopra la terra nera.
Mi si velaron gli occhi;
ma non dissi, com'egli, la preghiera
consueta. S'udiva tristissimo dal rio
vicino un mormorio
qual d'umane parole.
Ma il cielo era sì bello, sì prodigioso il sole!
Guardai intorno i campi sterminati,
e le foreste gialle che sul fiume sonoro
parevan tutte d'oro, e i tersi monti,
che già nevosi, tra nubi di fiamma
splendeano quali fronti
alto levate in un'apoteosi:
e dal soggetto borgo sùbiti scampanii
ruppero. Trasalii:
«O MAMMA,»

sclamai: «A TE FIN CH'IO VIVA
LA FESTA DELLA VITA CH'HAI DONATA
CON DOLORE E PERDUTA TROPPO IMMATURAMENTE
E QUESTA VOCE UMANA DI GIOIE E DI SPASIMI VIVA
E IL PALPITO ROMPENTE FUOR DELL'ABISSO ENORME
E I COLORI E LE FORME
E QUEL CHE VIVE NELLA VITA E FUOR DELLA VITA
E QUEST'ANIMA MIA, QUEST'ANIMA MIA CHE S'ACCENDE
COME UN ASTRO ED ASCENDE
VERSO I CIELI SERENI DELLA LUCE INFINITA
PER SEMPRE».

(Da "Poesie", 1922)





AL CIMITERO
di Augusto Ferrero (1866-1924)

Sempre ch'io ti costeggio, o camposanto,
ove i miei nonni giacciono sotterra,
nel pensier della morte il cor si serra.
Dormir laggiù, sotto le zolle ignote,
che la bufera oltraggia e il sol percote,
né dei vivi ascoltare altro che il pianto...

Non più sentir gli uccelli a primavera
e l'infrondarsi de' novelli maî
tutta la mite fragranza de' rosai;
né intenerirsi alla calante sera,
quando sui colli ottobre impallidisce,
e si colora il bosco a varie strisce...

Il bacio di mia madre la mattina
più l'augurio pel dì non mi darebbe,
onde il collegio agli anni verdi increbbe;
né, come oggi, d'un palpito segreto
tremante mi farei, mi farei lieto,
per una fronte a salutarmi inchina...

No! Vo' vivere ancor! Sole ed amore,
gloria ed amor vogl'io sul mio sentiero,
sempre bramati al fervido pensiero.
Voglio vivere ancor. Voglio agitarmi
nella lotta dell'opere e dei carmi,
dovesse infranto rimanervi il core!...

Così, s'io ti costeggio, o camposanto,
o ai mesti giorni varco le tue porte,
non mi parla desìo vile di morte.
Penso degli avi la virtù, la gloria,
ond'ei vivono ancor nella memoria
e di noi nel durevole compianto.

Virtù, gloria vo' anch'io. Tenera faccia
di mia madre, sorridimi lunghi anni,
confortatrice ne' stringenti affanni.
Tu sorridimi ancor, pallida imago,
occhi limpidi come acqua di lago,
che in me lasciaste incancellabil traccia.

Meglio viver così, voi ripensando,
degne di voi serbando opre e pensiero,
o miei nonni giacenti al cimitero,
che questa nostra età, piagnucolando
seguir nei dubbi e nella brama imbelle,
maledicendo alle inimiche stelle.

(Da "Nostalgie d'amore", 1893)





NEL CIMITERO DI PADOVA
di Antonio Fogazzaro (1842-1911)

I.
Seguii dentro le arcate al mondo ascose
D'una lanterna spenzolata il lampo.
Vi sapea di putredine e di rose;
Fuori piovea sul tenebroso campo.

Era freddo, era scuro e la pensai
Adagiata nel torrido fulgor
Del suo salotto, porger la mirai
La sigaretta in alto e il suo vapor,

Lieve lieve blandirsi il negro fiume
Della chioma possente in se ritorta,
Abbandonar al molle boa di piume
Lenta la mano come spoglia morta.

Mirai cangiar i grandi occhi sinceri
Col vento che nel cuore or viene or va,
Dolci dolersi ed oscurarsi austeri,
Dar vampe ora di orgoglio or di umiltà.

Con subito la vidi impeto onesto
Levarmi incontro il volto acceso e scuro,
Pria di parlar con disdegnoso gesto
Significando il suo pensier sicuro;

E la viril parola udii vibrata
Che mai non scese basso né mentì.
Si arrestô la lanterna spenzolata,
Disse una voce indifférente: «è qui.»


II.
Davanti una piramide di fiori
Ginocchion sul funereo pavimento,
Acceso nel pregar parvi di fuori;
Dentro ero tutto un gelo di sgomento

Perché attraverso i sigillati marmi
Ella veniva lentamente in me
E la sentivo attonita guardarmi
Nel più occulto dell'anima; perché

Troppo indegno a me stesso si scoverse
Nello sguardo di lei l'occulto mio,
L'occulto che il mio labbro non le aperse,
Ch'ella non seppe, che sol vede Iddio.

Si rigirava torbida, inquieta,
Amara la Invisibile laggiù
Senza voce dicendo: ecco il poeta,
Ecco l'altezza ed ecco la virtù!

Allora le parlai: o fiera, o forte
Anima che ti offendi, abbimi a sdegno!
Ma poi che nella notte della morte
Mi dai del viver tuo sicuro segno,

Di' se quando lo spirito e l'Eterno
lo confessai veemente illusa t'ho.
Mi rispose la triste dall'interno:
So che soffro e che spero, altro non so.


III.
Ritornai alle tenebre piangenti;
Vi sapea di putredine e di rose.
Per chiarori e clamor di vie frequenti
Camminai dentro arcate al mondo ascose.

Nel treno in fuga ella salì, si assise
A me di fronte, lenta disvelò
Il volto, lagrimando mi sorrise:
So che soffro e che spero, altro non so.

(Da "Le poesie", 1908)





QUIETE LUNARE
di Arturo Graf (1848-1913)

Nel gemmeo seren del firmamento
La luna tersa, radïosa, brilla,
E gli ermi campi innonda e la tranquilla
Immensità del suo lume d’argento.

Fronda non trema, e non trafiata il vento,
Muto fra l’erbe il picciol rio sfavilla;
Un usignuolo innamorato trilla
Sopra una rama il suo dolce lamento.

In fondo al ciel due nuvolette stanche
Vanno insieme alïando, e d’un leggero
Sogno in balia mutan l’aeree forme.

Laggiù laggiù, con le sue croci bianche,
Co’ suoi negri cipressi il cimitero
Nella quiete luminosa dorme.

(Da "Le poesie", 1922)





UNA VOCE 
di Luigi Gualdo (1847-1898)

Era deserto il vasto cimitero, 
Nella pace suprema silenzioso; 
Qua e là pel verde prato, maestoso 
S'alzava un monumento alto e severo. 

E tra una fila di cipressi tristi 
Stavan gli umili avelli al par sacrati; 
Molti che qui passarono obliati 
Alfin dormivan là cheti e non visti. 

Pendean dal tempo scolorite e storte 
Le antiche croci in legno nero - rotte 
E infracidile ognor dalle dirotte 
Pioggie inondanti il campo della morte.

Qualcuna si vedea su cui d'affetto 
Ultimo pegno stava ancor posata 
Una ghirlanda misera e sfiorata 
Che la mestizia ne risveglia in petto. 

Coperte di mal erbe e insiem d'oblio 
Altre vedeansi ove taceano i lai: 
Stavano là da niun compiante mai, 
Con le due nere braccia aperte a Dio. 

E nel vento spirante intesi voce 
Lugùbre e fioca da una tomba uscita: 
Era suon che venìa dall'altra vita: 
Mi piegai per udir sovra la croce. 

- «O voi felici cui riscalda il sole!... 
Dimmi, mortal, che fate ancor tra i vivi? 
O voi che avete il cielo, il mare, i rivi, 
La terra, i fior, le piante, e le parole, 

«Sospirate? Piangete ancor? Sperate? 
Che fate là? V'amate ognor? Gioite? 
Ancor chiedete al tempo le infinite 
Gioie fuggenti già in dolor mutate? 

«Ai raggi incantatori della luna 
Sentite ancor le bramosìe nascose? 
Sonvi le selve ancor? Sonvi le rose 
Ch'esalano l'amore ad una ad una? 

«Ti parlo qui, mortal, dall'altra riva, 
Dalla riva ove il vero è senza velo. 
Mi appar chiara la terra e aperto il cielo, 
Benchè giaccia quaggiù di luce priva. 

«Son qui da sola, in questo avel, gelata 
Ultima stanza ove s'attende Iddio, 
- Verrà l'anime a scioglier dall'oblìo 
Dell'angelo divino la chiamata? 

«Ma fino allora, oh! quanto è questa cella 
Gelido albergo per il corpo stanco! 
 -Rigida sta nel suo lenzuolo bianco 
Colei che un giorno fu chiamata bella.» 

Gorgheggiavano intanto gli augelletti 
Smentendo tutte le tristezze umane. 
Splendeva il sol sulle iscrizioni vane, 
Sui nomi già scordati - o benedetti. 

Mormoravan le piante all'aura estiva, 
E volsi il guardo al calmo firmamento, 
Limpido come il ver, pien di contento, 
Eterno sulla vita fuggitiva. 

E dissi allor: Sognai. La tomba tace. 
La tomba è vuota. In tutto il cimitero 
Compie natura il suo vital mistero; 
Sorgono fiori dal terren ferace. 

È lieto il cimiter, natura è lieta, 
Il dolore è nell'uomo e nella vita. 
Il resto è pien della gioia infinita, 
Della gioia immortale a noi segreta, 

O voce ch'io credeva udir dal suolo 
Sorger vêr me con un mesto susurro, 
Piomba dall'alto invece e per l'azzurro 
Fino quaggiù discendi ratta a volo!

Volsi lo sguardo al ciel - l'orecchio invano 
Tesi aspettando l'implorata voce. 
Scordavo il duol della vicina croce, 
Ma il verbo non venìa dal ciel lontano. 

(Da "Le nostalgie", 1883)





IL PESCO 
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

Penso a Livorno, a un vecchio cimitero 
di vecchi morti; ove a dormir con essi 
niuno più scende; sempre chiuso; nero 
              d’alti cipressi. 

Tra i loro tronchi che mai niuno vede, 
di là dell’erto muro e delle porte 
ch’hanno obliato i cardini, si crede 
              morta la Morte, 

anch’essa. Eppure, in un bel dì d’Aprile, 
sopra quel nero vidi, roseo, fresco, 
vivo, dal muro sporgere un sottile 
              ramo di pesco. 

Figlio d’ignoto nòcciolo, d’allora 
sei tu cresciuto tra gli ignoti morti? 
ed ora invidii i mandorli che indora 
              l’alba negli orti? 

od i cipressi, gracile e selvaggio, 
dimenticàti, col tuo riso allieti, 
tu trovatello in un eremitaggio 
              d’anacoreti?

(Da "Myricae", 1900)





AMORE MORTO
di Remigio Zena (Gaspare Invrea, 1850-1917)

Lisa, se è ver che i morti a mezzanotte 
       Raccolti stinchi ed ossa 
       Escano dalla fossa, 

E vadan brancicando fra le rotte 
       Croci del Camposanto 
       Non bagnate di pianto,

Che ogni morto scordato e solitario 
A cui mancan dei vivi le preghiere 
Debba dir per se stesso il Miserere,
Lisa, tu puoi restar nel tuo sudario, 
Perchè la mamma tua tutte le sere 
Dormicchiando ti brontola il rosario 
E al Curato io fui lesto a provvedere 
Quattro scudi pel primo anniversario.

(Da "Poesie grigie", 1880)

domenica 26 ottobre 2014

I cimiteri in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Mi ricordo che, bambino, una sera d’autunno andai al cimitero di Ostia Antica con mia zia. Lei portò con sé dei fiori da mettere sulle tombe di alcuni suoi cari estinti. Io, mentre lei si apprestava a fare ciò per cui era venuta, mi guardavo intorno; ad un certo punto vidi una tomba quasi staccata da tutte le altre, in un angolo del cimitero, era di pietra grigia e consunta, e non c’erano fiori su di essa, ma soltanto foglie secche mosse dal vento autunnale. Chiesi allora a mia zia perché quella tomba si trovasse in tali condizioni; la zia rispose: «Non lo so perché, forse i parenti di quel defunto sono già tutti scomparsi, o forse lo hanno dimenticato». Fu una delle prime volte in cui provai una tristezza profonda, dovuta a quella tomba desolata, abbandonata… E ancora oggi, con tutto che è passato mezzo secolo, me la ricordo perfettamente.




CAMPOSANTO SUL MARE

di Mario Alessandrini

Un muricciolo mezzo diroccato
tiene in grembo sul greto
il camposanto vecchio:
quattro croci fiorite
fra l'erba alta battuta dal vento.
Il mare mugghia sotto la scogliera,
drizza l'onde squamate sulle rocce.
È tutto irsuto: si dibatte e squassa
e di rabbia s'imbava e vane schiume.
I morti han pace e gli elementi guerra.

(Dalla rivista «Maestrale», febbraio/marzo 1941)





DAI CIMITERI
di Paolo Buzzi (1874-1956)

Noi siamo i più reclusi dei reclusi, noi.
Non ci han voluto neppure più sulla terra.
Potevano gettarci capofitti nel mare
appenderci ad un aerostato senza ritorno.
Ci diedero la bolgia di Papa Bonifazio;
le sere, venite a vedere le fiamme se rampollano!
Siamo i più queti, non i più morti, credete!
Le nostre folle incubano i vostri letarghi.
Il terremoto, forse, è la nostra convulsione di noia.
Giorno verrà che dietro ogni porta, nelle vostre case,
a sera bassa, troverete uno scheletro di sentinella.
Allora darete tutte le salme alla pira!
Il mondo avrà più fiamma, più luce, più libertà.
Frattanto, noi ci gloriamo de' nostri fosfori freddi,
dei nostri fiori notturni pieni di lucciole bianche
e delle nostre lampade flebili
aspettando gl'incendi cadaverici dell'Avvenire!

(Da "Aeroplani", 1909)





IL CAMPOSANTO NUOVO
di Francesco Chiesa (1871-1973)

Un sol morto nella pallida deserta
vastità del camposanto... Quattro muri,
bianchi, nuovi, un cancel nero e un morto, solo...
Un giallognolo rialzo, e il verde magro
della zolla intorno intorno, qualche paglia...
Una croce, senza croci in compagnia...
L'ombra, in terra, d'una croce che s'allunga,
con l'aiuto della luna, a ricercare...
Una lampadina sola, nella notte
di novembre, che si dondola a far segno
di lontano, verso i vivi. Ma niun ode
ciò che grida a' suoi fratelli il derelitto.
- Perché - grida, mi lasciate così solo?
Pur, m'avete, coricandomi, cantato:
Dormi in pace!... Ma non è la pace, questa.
È il deserto con intorno quattro muri.
O fratelli, nessun viene? (Io ben verrei,
tanta gioia è star coi vivi): - Ohimè, venite -
grida l'uomo abbandonato. E scuote il suo
lumicino, quando già da ore ed ore
con un soffio gliel'ha spento il vento.

(Da "La stellata sera", 1933)





CAMPOSANTO DEGLI INGLESI
di Franco Fortini (1917-1994)

Ancora, quando fa sera, d'ottobre,
e pei viali ai platani la nebbia,
ma leggera, fa velo, come a quei nostri
tempi, fra i muri d'edera e i cipressi
del Camposanto degli Inglesi, i custodi
bruciano sterpi e lauri secchi.
                                               Verde
il fumo delle frasche
come quello dei carbonai nei boschi
di montagna.
                     Morivano
quelle sere con dolce strazio a noi
già un poco fredde. Allora m'era caro
cercarti il polso e accarezzarlo. Poi
erano i lumi incerti, le grandi ombre
dei giardini, la ghiaia, il tuo passo pieno e calmo
e lungo i muri delle cancellate
la pietra aveva, dicevi, odore d'ottobre e il fumo
sapeva di campagna e di vendemmia.
Si apriva la cara tua bocca rotonda nel buio
lenta e docile uva.
                   Ora è passato
molto tempo, non so dove sei, forse vedendoti
non riconoscerei la tua figura. Sei certo
viva e pensi talvolta a quanto amore
fu, quegli anni, tra noi, a quanta vita
è passata. E talvolta al ricordare
tuo, come al mio che ora ti parla, vana
ti geme, e insostenibile, una pena;
una pena di ritornare, quale
han forse i poveri morti, di vivere
là, ancora una volta, rivedere
quella che tu sei stata andare ancora
per quelle sere di un tempo che non esiste più
che non ha più alcun luogo
anche se io scendo a volte per questi viali
di Firenze ove ai platani la nebbia,
ma leggera, fa velo e nei giardini
bruciano i malinconici fuochi d'alloro.

(Da "Versi scelti", 1990)





CIMITERO
di Guido Marta (1882-?)

Presso la chiesa bianca, al limitare
del villaggio, la Morte un suo giardino
pien di croci s'è fatto, un suo giardino
con un muro, due pietre, un cancellino
sempre aperto per chi volesse entrare.

(Da "La neve in giardino", 1922)





PICCOLO CIMITERO LUNGO IL MARE
di Angiolo Silvio Novaro (1866-1938)

Piccolo cimitero lungo il mare
Stipato d'erbe amare
E di croci!
L'erbe non v'è chi le falci
E le croci aprono i tralci
Delle braccia tese al sole
Che le bacia come suole
E le fa nel bacio eguali.

Il recinto somiglia
Una chiara conchiglia.
Ombra non v'è che dentro vi si cali
Né moto d'aria o d'ali
Né sospiro o suono d'ore
Né vi fa l'onda rumore
Più del battito d'un cuore
Che nel sonno si assottiglia.

Sotto le croci i morti
Alleggeriti di beni e di mali
Ancoràti a sicuri porti
Posano in giusta pace
Aspettando come a Dio piace
Che un angelo spieghi le ali
E una tromba loro porti
L'annunzio che sono risorti.

(Da "Tempietto", 1939)





SORPRESA
di Luigi Pirandello (1867-1936)

Mi parea, sù da quei greppi scoscesi,
che fosser pannilini di bucato,
gli arredi, forse, d ’un bambino, stesi
su questo verde tenero del prato.

Lapidi! Un cimitero abbandonato...

(Da "Tutte le poesie", 1991)





LUCE BIANCA
di Antonia Pozzi (1912-1938)

All'alba entrai 
in un piccolo cimitero. 
Fu in un paese lontano 
ai piedi di una torre grigia 
senza più voce alcuna 
di campane – 
mentre ancora le nebbia 
inargentava 
le querce oscure, 
le siepi alte, 
l'erica 
viola – 

Nel piccolo cimitero 
le pietre 
volte all'Oriente 
come in un riso 
bianco 
parevano visi di ciechi 
che allineati marciassero 
incontro al sole. 

(Da "Parole", 1998)





NEL CIMITERO DI CHISWICK
di Salvatore Quasimodo (1901-1968)

Risonanze di mortelle
nel recinto verde di morti
antichi, dove Foscolo posò la testa
dentro un sarcofago in un tempo d'amore
per gli inglesi. La sua pietra
porta la data di nascita e di morte. Di fronte,
nella curva della strada si beve birra
forte in un pub di legno
a spiovente nordico. Una ruota gira,
un vecchio picchia con un martello su una tavola.
L'amore per le ombre foscoliane è più qui
che in Santa Croce, ancora nell'armatura
dell'esilio. I timidi carnefici lombardi
temperavano aste e scuri, misuravano
l'uomo sugli stipiti delle porte
come oggetto utile alle armi.

(Da "Tutte le poesie", 1995)





A GUARDARTI M'INDUGIO INTENERITO
di Camillo Sbarbaro (1888-1967)

A guardarti m’indugio intenerito,
d’oltre il muretto basso che ti cinta,
piccolo cimitero di campagna.
Aperto al celo, alla mercé del vento
della pioggia, vegliato dalle stelle,
tu ancora partecipi alla vita.
Soave come l’improvviso sonno
che chiude gli occhi al piccolo che piange,
l’erba qui addormenta le speranze
delle fanciulle, l’ansia delle madri
e tutto il nostro affaccendarci invano...

Qui la vita e la morte si dan mano
come sorelle...
                      Tutto ciò che è,
è un poco ciò che fu, un poco ciò
che sarà...
                Qui è facile pensare
che quella farfalletta che là alia,
chiusa la sua vicenda, rivivrà
nel geranio fiammante del balcone
o nei capelli d’una donna amata...

Piccolo cimitero di campagna,
in questo poco sole di settembre
è così dolce quel che insegni al cuore
ch’egli di gratitudine si gonfia.
E, uscendo da me stesso, mi vedo,
in altre forme in sempre nuove forme
essere eternamente come i cieli.

(Da "L'opera in versi e in prosa", 1985)

mercoledì 22 ottobre 2014

Le foglie in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo

LE FOGLIE
di Arrigo Boito (1842-1919)

Nascean le stelle; la lontana chiesa
Emanava armonie. Reprobamente
Vagolando pe’ campi io le sentivo;
        E una voce, repente,
Surta dall’ombra e che parea d’un vivo
Gridommi a lato: — «Tutto ciò che pesa,
        Uomo, ha peccato.»

Io tutto mi restrinsi per paura,
Nè corpo vidi che paresse accanto;
La notte s’avanzava e in bel celeste
        Cangiava l’amaranto.
Era l’ora che fa le cose meste,
Quando negli orti — fra le vecchie mura
        Errano i morti.

La sinistra parola m’avea scosse
Le radici del core e all’aura bruna
Vagavo al pari di corsier che aòmbra.
        Le foglie ad una, ad una,
Cadean dai rami lor, pagine d’ombra,
E in vol scosceso — parean carche e mosse
        Da un grave peso.

Se non è fatua visïon che illuda
La mente mia, pensai, qual è il peccato
Che sì vi fuga o foglie intorno, intorno?
        E allor la larva a lato
«Esse tremar di voluttà quel giorno,»
— Mi rispondeva — «che covrir la nuda
        Bellezza d’Eva.»

(Da "Il libro dei versi", 1902)





L'ULTIMA FOGLIA
di Contessa Lara (Evelina Cattermole, 1849-1896)

Dal ramo ischeletrito
L'ultima foglia pende:
E, come d'oro, splende
Al sol che, smorto, non ha fiamme più.

Esita, al freddo invito
Della caduta neve;
Poi, sospirando lieve,
Rassegnata si stacca e piomba giù.

(Da "Nuovi versi", 1897)





FOGLIE MORTE
di Giuseppe Deabate (1857-1928)

Dai rami sui quali poc'anzi l'ebbrezza 
Saliva esultando dei fulgidi dì, 
Cacciate dal primo rigor della brezza, 
Scendete, fogliuzze, scendete, così. 

Scendete sui campi lucenti di sole, 
Sui solchi bagnati di tanto sudor; 
Su gli ampii giardini, su l'umili aiuole, 
Sui mille del mondo ignoti dolor. 

Narrate ai felici, ai ricchi, ai potenti. 
Che tutto è una fuga di foglie quaggiù. 
Si sveglia l'aprile sui rami languenti...
L'april della vita non svegliasi più! 

Coprite gli amori dei giovani assorti 
Nei miti, autunnali tramonti del sol; 
Coprite le tombe dei poveri morti 
Dormienti nell'alto silenzio del suol. 

È questo il mio sogno: — Fogliuzza smarrita 
Sul margine ascoso d'un triste sentier, 
Fogliuzza sperduta nel mar della vita, 
Col giorno che muore anch'io cader; 

Col bacio dei sacri miei vecchi sul fronte, 
E un' ultima fede perduta nel cuor; 
Volgendo lo sguardo al mesto orizzonte, 
Sognando il mio primo, il mio ultimo amor! 

Quel giorno, o fogliuzze, che oscuro poeta 
L'estremo saluto al mondo darò; 
Se santa fu sempre del verso la mèta, 
Se all'umile canto un cuor palpitò, 

Quel giorno l'eterna parola mi dite, 
Che sola la fede nel mondo ci dà; 
Cingetemi il fronte, fogliuzze avvizzite... 
L'alloro sognato... il vostro sarà! 

(Da "Il canzoniere del villaggio", 1898)





FOGLIE SECCHE
di Arturo Graf (1848-1913)

Oh, come lugubre
Veder sull’arido
Suolo cinereo
Discolorite,
Tremule, tacite
Cader dagli alberi
Le foglie morte!

Oh, come lugubre
Veder da un’anima
Cader le povere
Fedi tradite
E i segni gracili
Cui franse l’invida
Man della sorte!

(Da "Le poesie", 1922)





IMITAZIONE
di Giacomo Leopardi (1798-1837)

Lungi dal proprio ramo,
Povera foglia frale,
Dove vai tu? — Dal faggio
Là dov'io nacqui, mi divise il vento.
Esso, tornando, a volo
Dal bosco alla campagna,
Dalla valle mi porta alla montagna.
Seco perpetuamente
Vo pellegrina, e tutto l'altro ignoro.
Vo dove ogni altra cosa,
Dove naturalmente
Va la foglia di rosa,
E la foglia d'alloro.

(Da "Canti", 1974)





CADUTA DI FOGLIE
di Giovanni Marradi (1852-1922)

Non più di trilli argute risonanze
per la montagna. In voce di lamento
geme la selva, cui rapisce il vento
le prime foglie e l' ultime fragranze.

Quando il pallido autunno d'improvvise
tristezze aduggia e scolorisce il mondo,
e piangono le pioggie alla campagna,
tutta l'alpestre via di fango intrise
copron le foglie, che stormìan giocondo
l'inno dell'albe in vetta alla montagna.
E al faticoso viator, cui bagna
di pianto gli occhi una stanchezza nova,
ad ogni passo che in quel fango ei muova,
sembra di calpestar sogni e speranze.

(Da "Poesie", 1907)





CADON LE FOGLIE
di Cesare Rossi (1852-1927)

Odi una flebile
come si lagna
nota di cembalo
per la campagna:
pian quella musica
l'anima accoglie.
Cadon le foglie.

Cantano l'ilari
vendemmiatrici
spiccando i grappoli
per le pendici,
poi meste lasciano
le viti spoglie -
Cadon le foglie.

Corre degli agili
vetri la muta
che i lepri timidi
vigile fiuta:
Ottobre in pallido
pianto si scioglie -
Cadon le foglie.

Rosseggia l'edera
pei casolari,
la fiamma crepita
su' focolari,
ma i vecchi guardano
tristi a le soglie -
Cadon le foglie.

Con occhi languidi,
senza parole,
saluta il tisico
l'ultimo sole.
Spera ma un brivido
sottil lo coglie -
Cadon le foglie.

(Da "Dai nostri poeti viventi", 1896)





FOGLIE
di Ulisse Tanganelli (1853-1931)

Al sospirar di maggio
Dal primaticcio mandorlo
Volano vie le bianche foglioline:
Le dànno il buon viaggio,
Col tremolìo dei calici
Dei peschi le fogliuzze carnicine:
Quindi al ramo natìo
Dicon pur esse addio.

O vaga pioggia, lieta
Di rosei spruzzi e candidi,
Che discende negli orti e li ricama.
Sottil, come di seta,
Presto germoglia e svolgesi,
Collo sviluppo della verde trama,
Una chioma abbondante
Sopra tutte le piante.

Allor corre una voce
Che i poeti comprendono
E i savi no, dai tronchi alla vermena!
Il melo, il fico, il noce
Un bel terzetto cantano
Del teatro campestre in su la scena:
Cantano i boschi in coro
Dal cipresso all'alloro.

Comprendon coi poeti
Quella voce ineffabile
La cingallegra, il merlo e la ghiandaia.
L'usignol sui roveti
E sui castagni il tortore
Gorgheggian, coaliscono, alla gaia
Prosperità dei nidi
Soavemente fidi.

Quanta molle verdezza
Velo alla immensa Cerere,
Chiara stormisce dalla valle ai monti,
Eterna giovinezza
Rinnovellando! Han gli alberi
Increspature e luccichìi di fonti
Nel gran frescheggiamento
Del pomeriggio al vento.

Ora sacra! Le capre
Le note balze tornano
Desiderose dello stabbio. Intanto
Alle memorie s'apre,
Come a notte un convolvolo,
L'anima vinta da un serale incanto,
E la tristezza sente
Accidiosamente!

Fischia la mandriana
Alle sbrancate; e intorbida
Forse di pianto le pupille e il cuore
Di ricordanza arcana!
L'acuto fischio scivola
Fra le dolcezze del giorno che muore,
Come squillo pugnace
In un inno di pace!

Ma poiché l'aria imbruna
Le verdi foglie perdono
La singolarità folta e smerlata.
E vanno, ad una ad una,
Gradatamente a fondersi,
Come fine cesello
Che torni nel fornello.

(Da "La buona dea", 1892)





IO VADO ERRANDO LONTANO DALLA MIA PATRIA
di Igino Ugo Tarchetti (1839-1969)

Io vado errando lontano dalla mia patria, e veggo aggirarsi per l’aria una foglia di cipresso trasportata dal vento. Dove te ne vai, o piccola foglia di cipresso, dove te ne vai? Noi ci faremo compagnia. Nello stesso modo che tu vieni trasportata pel cielo dal turbine impetuoso, io sono cacciato dal mio destino per terre non conosciute... Ohimé! tu non potrai piú ritornare al tuo albero! povera foglia! povera foglia!

Maledetta la mano che ti ha distaccata dal tuo ramo. Io sono pure allontanato dalla mia patria da una mano maledetta. Precedimi, o piccola foglia di cipresso nel cammino doloroso dell’esiglio: il mio destino non sarà mai diverso dal tuo; tu anzi sopravviverai forse a me stesso, e sbattuta dopo tanti anni dal vento, verrai un giorno a riposarti inconsapevole sul mio sepolcro. Precedimi dunque, o povera foglia, noi ci faremo compagnia. Giovine ancora senza affetti, e senza speranze, io vado errando sulla terra come una foglia trasportata dal vento.

(Da "Tutte le opere", 1967)





A UNA FOGLIA
di Niccolò Tommaseo (1802-1874)

Foglia, che lieve a la brezza cadesti 
sotto i miei piedi, con mite richiamo 
forse ti lagni perch’io ti calpesti. 

Mentr’eri viva sul verde tuo ramo, 
passai sovente, e di te non pensai; 
morta ti penso, e mi sento che t’amo.

Tu pur coll’aure, coll’ombre, co’ rai 
venivi amica nell’anima mia; 
con lor d’amore indistinto t’amai.

Conversa in loto ed in polvere, o pia, 
per vite nuove il perpetuo concento 
seguiterai della prima armonia. 

E io, che viva in me stesso ti sento, 
cadrò tra breve, e darò del mio frale 
al fiore, all’onda, all’elettrico, al vento. 

Ma te, de’ cieli nell’alto, sull’ale 
recherà grato lo spirito mio; 
e, pura idea, di sorriso immortale 

sorriderai nel sorriso di Dio. 

(Da "Poesie e prose", 1942)