domenica 29 agosto 2021

Antologie: "Scrittrici d'Italia"

 

Pur ritenendo che non abbia alcun senso distinguere tra sesso maschile e femminile quando si parla di poesia, eccomi di nuovo a parlare di un'antologia in cui compaiono soltanto donne. Scrittrici d'Italia è il titolo di un libro pubblicato dalla Newton Compton di Roma nel 1991; la selezione antologica di brani letterari in prosa o in versi, scritti esclusivamente da donne nate in Italia, è stata curata da Alma Forlani e Marta Savini. È un lungo viaggio attraverso la migliore letteratura italiana al femminile, che parte dal XIII secolo e giunge fino al Novecento; quest'ultimo, però, risulta assai penalizzato, poiché l'ultima scrittrice presa in considerazione è Lina Galli: nata nell'ultimo anno del secolo XIX. Detto ciò, mi sembra utile riportare un brano relativo alla presentazione di quest'opera antologica, che si trova sul risvolto della sovra copertina:

 

Questo volume è un'antologia delle scrittrici italiane, organizzata in modo storicamente ordinato, in grado di offrire del fenomeno un panorama completo. La scelta effettuata dalle curatrici consente una lettura di grande interesse, suggestiva, appassionante, che documenta, anche col sussidio di agili ed esaurienti profili biografici, le variegate dinamiche di una molteplice vocazione alla scrittura: da chi intendeva emulare amici letterati a chi perseguiva un successo professionale o un mezzo di elevazione sociale; da chi si abbandonava all'improvvisazione a chi cercava la disciplina di un'accorta ricerca stilistica; da chi affidava alla pagina i più segreti moti del cuore, senza prevederne la pubblicazione, a chi, magari analfabeta, vergava faticosamente il foglio per ordine del confessore.

 

Devo infine constatare che il lavoro delle curatrici è stato veramente encomiabile, e grazie a questo volume è possibile conoscere - anche se soltanto parzialmente - personaggi femminili di indubbio valore, forse trascurati dai critici letterari del passato e del presente, che sarebbe opportuno studiare e approfondire maggiormente. Il mio discorso vale soprattutto per l'ambito poetico, che certamente è ben rappresentato nelle 265 pagine di questo volume. A tal proposito - e qui chiudo - riporto i nomi di tutte le 54 scrittrici presenti nell'antologia, aggiungendo un asterisco a coloro che figurano come poetesse.

 


 


Compiuta Donzella*, Caterina da Siena, Alessandra Macinghi Strozzi, Antonia Giannotti Pulci*, Lucrezia Tornabuoni*, Camilla Battista Varano, Veronica Gambara*, Vittoria Colonna*, Tullia d'Aragona, Chiara Matraini*, Laura Terracina*, Isabella di Morra*, Gaspara Stampa*, Laura Battiferri Ammannati*, Veronica Franco*, Francesca Turrini Bufalini*, Maria Maddalena de' Pazzi, Veronica Giuliani, Petronilla Paolini Massimi*, Faustina Maratti Zappi*, Maria Cecilia Baij, Maddalena Morelli*, Elisabetta Caminèr Turra*, Eleonora de Fonseca Pimentel, Maria Luisa Cicci*, Isabella Teotochi Albrizzi, Teresa Bandettini Landucci*, Diodata Saluzzo Roero*, Costanza Monti Perticari, Amalia Solla Nizzoli, Maria Giuseppina Guacci Nobile*, Cristina Trivulzio Belgiojoso, Caterina Percoto, Luigia Codemo, Erminia Fuà Fusinato*, Maria Alinda Bonacci Brunamonti*, Neera, Contessa Lara*, Emma Perodi, Vittoria Aganoor Pompilj*, Matilde Serao, Carolina Invernizio, Enrichetta Capecelatro*, Annie Vivanti, Luisa Giaconi*, Ada Negri*, Grazia Deledda, Sibilla Aleramo*, Amalia Guglielminetti*, Anna Banti, Gianna Manzini, Lina Galli*.

 

domenica 22 agosto 2021

La poesia di Trilussa

 

Pur non essendo un appassionato di poesia dialettale, da quando leggo libri di versi, a volte mi sono imbattuto in pagine di antologie che riportavano versi in dialetto. Essendo io romano, è naturale che andassi a cercare prevalentemente i poeti nati nella capitale; tra costoro, colui che mi ha attratto di più è senz'altro Trilussa (pseudonimo di Carlo Alberto Salustri, Roma 1871 - ivi 1950). In verità, alcuni suoi versi, li avevo già letti fin da bambino, trovandosi essi nei testi scolastici per una evidente semplicità che ne consentiva la comprensione anche ad un pubblico infantile. Trilussa è stato, tra l'altro, uno dei primi poeti che ho letto, proprio perché il suo dialetto romanesco non era "puro", ma contaminato dalla lingua italiana, e quindi tutt'altro che complicato. Se è vero che - parlando di poeti dialettali romani - Giuseppe Gioacchino Belli rimane e forse rimarrà sempre il numero uno in assoluto, è altrettanto vero che Trilussa, in popolarità, superò e tutt'ora supera quest'ultimo. La sua poesia, come giustamente affermarono molti critici, ebbe larga fortuna grazie ad alcuni elementi base che la contraddistinguono: l'ironia, l'umorismo, la satira e il sentimentalismo. Altro elemento che ha permesso al Trilussa di affascinare una larga fascia di pubblico, è stato quello favolistico; la favola, con gli animali che parlano e che rispecchiano i pensieri e le azioni degli esseri umani, si ritrova molto spesso nei componimenti del poeta romano, il quale certamente ebbe ben presenti favolisti famosi come Esopo e La Fontaine. Ma le favole del Trilussa non hanno alcunché di moraleggiante; al contrario, tendono a far emergere tutti i lati peggiori dell'umanità; poiché, se determinati comportamenti animaleschi sono dettati soltanto dall'istinto, nei personaggi trilussiani vengono fuori parecchi difetti prettamente umani, che vanno dall'egoismo al menefreghismo, dall'avarizia all'invidia, dalla cattiveria alla spietatezza. Qualcuno, inoltre, ha notato in determinati versi, una certa amarezza mista a malinconia, elementi questi che possono perfino avvicinarlo ai crepuscolari; d'altronde, egli visse a Roma nei primissimi anni del XX secolo, proprio quando nacque il gruppo romano che aveva come punto di riferimento Sergio Corazzini; i poeti di questo cenacolo, sicuramente dovettero conoscerlo (se non di persona, almeno dalle tante sue poesie che in quel tempo venivano pubblicate sui giornali e sulle riviste più popolari), e forse più di qualcuno lo imitò¹. Chiudo riportando dapprima tutte le opere poetiche pubblicate dal Trilussa, quindi tre fra le sue poesie che più mi piacquero, leggendo l'unico libro di versi del poeta romano che acquistai quasi trent'anni or sono.

 

NOTE

1) Da ricordare che Sergio Corazzini, giovanissimo, pubblicò su alcune riviste romane, diverse poesie in romanesco che avevano alla base una buona dose di satira.

 

 

Opere poetiche

 

"Stelle de Roma", Cerroni & Solaro, 1889.

"Er mago de Borgo", Cicerone, 1890.

"Quaranta sonetti romaneschi", Voghera, 1895.

"Altri sonetti", Folchetto, 1898.

"Favole romanesche", Voghera, 1901.

"Caffè-concerto", Voghera, 1901.

"Er serajo", Voghera, 1903.

"Le favole", Voghera, 1908.

"I sonetti", Voghera, 1909.

"Nuove poesie", Voghera, 1910.

"Le storie", Voghera, 1912.

"Omini e bestie", Voghera, 1914.

"Le finzioni della vita", Cappelli, Rocca S. Casciano 1918.

"Lupi e agnelli", Voghera, 1919.

"Le favole", Modernissima, 1920.

"La gente", Mondadori, 1927.

"Libro n. 9", Mondadori, 1929.

"Giove e le bestie", Mondadori, 1932.

"Libro muto", Mondadori, 1935.

"Acqua e vino", Mondadori", 1945.

"Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1951.

 

 


 

 

Testi

 

 

 

LA MASCHERA

 

Vent'anni fa m'ammascherai pur'io!

E ancora tengo er grugno de cartone

che servì p'annisconne quello mio.

Sta da vent'anni sopra un credenzone

quella Maschera buffa, ch'è restata

sempre co' la medesima espressione,

sempre co' la medesima risata.

Una vorta je chiesi: - E come fai

a conservà lo stesso bon umore

puro ne li momenti der dolore,

puro quanno me trovo fra li guai?

Felice te, che nun te cambi mai!

Felice te, che vivi senza core! -

La Maschera rispose: - E tu che piagni

che ce guadagni? Gnente! Ce guadagni

che la gente dirà: Povero diavolo,

te compatisco... me dispiace assai...

Ma, in fonno, credi, nun j'importa un cavolo!

Fa' invece come me, ch'ho sempre riso:

e se te pija la malinconia

coprete er viso co' la faccia mia

così la gente nun se scoccerà... -

D'allora in poi nascónno li dolori

de dietro a un'allegria de cartapista

e passo per un celebre egoista

che se ne frega de l'umanità!

 

 (da "Poesie scelte", volume primo, Mondadori, Milano 1993, p. 151)

 

 

 

 

AVARIZZIA

 

Ho conosciuto un vecchio

ricco, ma avaro: avaro a un punto tale

che guarda li quattrini ne lo specchio

pe' vede raddoppiato er capitale.

 

Allora dice: - Quelli li do via

perché ce faccio la beneficenza;

ma questi me li tengo pe' prudenza... -

E li ripone ne la scrivania.

 

(da "Poesie scelte", volume secondo, Mondadori, Milano 1993, p. 109)


 

 

  

FELICITÀ

 

C'è un'Ape che se posa

su un bottone de rosa:

lo succhia e se ne va...

Tutto sommato, la felicità

è una piccola cosa.

 

(da "Poesie scelte", volume secondo, Mondadori, Milano 1993, p. 278)

 

 

 

lunedì 16 agosto 2021

Domanda vana

 

Tu guardi taciturnamente il mare che dorme

che chiedi alla fuggente onda che mai non sta?

Ecco: e in alto, nel bacio lunare, a torme a torme,

valicano leggere nubi l'immensità.

 

Chiedi anche a loro, o donna, perché si viva: e quanto

resti eterno nel mondo, come chiedesti al mar...

Dorme alla notte immensa l'immenso camposanto:

chiedi qual legge ha il mondo. Ei ti risponde: Andar.

 

Dove? Non sa. Ma tutto tutto è moto. Che resta

delle cose che il flutto suo rispecchiava un dì?

Andare, andare, andare: è la legge funesta

e inutile del mondo. Dice il mare così.

 

Chiedi qual legge ha il mondo alle nuvole lente

che veleggiano il cielo ne l'insonnia lunar.

Noi pellegrine eterne passiamo eternamente:

legge triste ed inutile: ma legge unica, andar.

 

Tu dai pensosi e tristi occhi sognanti, o bianca

donna, chiedi al poeta perché si viva: ohimè,

l'anima del poeta non è che un'onda stanca,

che una passante nuvola l'anima sua non è.

 

 


 

Domanda vana è il titolo di una poesia di Cosimo Giorgieri Contri (Lucca, 16 agosto 1870 - Viareggio, 14 febbraio 1943), presente nella raccolta La donna del velo, pubblicata in Torino da S. Lattes & C. Editori, nel 1905. Più esattamente si trova alle pagine 89 e 90 di detto volume (vedi foto in alto). L'autore è un poeta che fu tenuto in grande considerazione, almeno da alcuni poeti crepuscolari (mi riferisco in particolare al gruppo torinese); d'altronde le tematiche, le atmosfere e gli stati d'animo trasfusi in versi dallo scrittore toscano, già dalle primissime raccolte pubblicate nell'ultimo quindicennio del XIX secolo, avevano molti elementi che si avvicinavano a quelli di Gozzano, Corazzini e sodali. Qui si riporta una poesia emblematica, che tende a dimostrare l'inutilità della vita, paragonata alle onde del mare che s'infrangono di continuo sulla riva senza un motivo plausibile, o simile alle nuvole che attraversano di continuo il cielo, e passano e ripassano all'infinito, senza un perché, se non quello di un insensato andare perpetuo. Come è usuale nei versi del Giorgieri Contri, in questo contesto c'è una presenza femminile, che è poi colei che formula la fatidica domanda del titolo: "Perché si vive?". A questo dilemma il poeta sa rispondere semplicemente e con sicurezza: non esiste un perché alla vita, ma è anche inutile farsi queste domande: bisogna soltanto andare avanti, perché questa è l'unica "legge funesta del mondo", e anche l'anima del poeta è simile all'onda stanca che muore sulla riva, anch'essa somiglia ad una qualsiasi nuvola che attraversa il cielo sereno, per finalmente scomparire, consapevole della propria inutilità.

domenica 15 agosto 2021

Le piccole cose

 

Talvolta

(la notte è scesa

con la paura

e il vipistrello sventola

l’ali sue di spettro

che non fanno strepito)

dentro la nostra casa solitaria

sentiamo brevi rumori nell’aria...

 

Sono le piccole cose che tremano.

 

Talvolta

(entrando nella stanza

dove l’ombra ha dormito in una bara)

sentiamo una lima

lontanissima limare,

stridere un tarlo...

 

Sono le piccole cose che gemono.

 

Talvolta

(l'anima nostra è in pace

e l'occhio svaria

dalla finestra aperta

su la campagna che giace

quieta e solitaria

sotto la luna deserta)

sentiamo nell'aria...

 

Sono le piccole cose che cantano.

 


 


Le piccole cose è il titolo di una poesia di Tito Marrone (pseud. di Amedeo Marrone, Trapani 1882 - Roma 1967), che fu pubblicata per la prima volta nella rivista La Vita Letteraria del 1° di giugno del 1905. In seguito ricomparve in varie antologie, per essere poi inclusa nel volume: Tito Marrone, Antologia poetica a cura di Donatella Breschi, Guida Napoli 1974; qui la si trova alla pagina 128 (vedi foto in alto), come sesta poesia della sezione Poemi provinciali (1903-1907). Questi versi hanno ben poca attinenza con la poesia delle "piccole cose" di pascoliana memoria; nemmeno hanno a che vedere con le famose "cose di pessimo gusto" decantate da Guido Gozzano. Il poeta che più si avvicina, per tematica e per modus operandi, alla lirica del Marrone, è senz'altro Sergio Corazzini, che in una prosa lirica intitolata Soliloquio delle cose, fa un'operazione molto simile a quella del poeta siciliano: entrambi danno vita agli oggetti - piccoli e insignificanti - che si trovano all'interno della loro casa; questi ultimi quindi si animano, pensano, parlano, a volte si muovono e di conseguenza emettono dei rumori. A mio personale parere, è anche una sorta di reazione che nasce da un'esistenza costretta alla solitudine - magari limitata e confinata alle mura di un appartamento -, da cui la mente cerca di evadere immaginando che gli oggetti domestici (unici compagni presenti) possano in qualche modo possedere dei requisiti inerenti alla vita, così come le piante. Da questo presupposto nascono le fantasticherie raccontate dal Marrone, che percepisce dei rumori insoliti e misteriosi, e li spiega col fatto che gli oggetti siano in grado di far avvertire la loro essenza vitale soltanto in quel modo, e che il poeta sia il solo (o uno dei pochi) a poterlo testimoniare.   

sabato 14 agosto 2021

Nubila

 

                                  Je porte en moi le tombeau de moi même

                                          et suis plus mort que ne sont bien de morts

                                                                       Th. Gautier.

 

 

Le gocce cadevano rare...

qual sangue che sgorghi tepente

le intesi sul volto colare:

 

e l'afa era greve, opprimente

in quell'estuare precoce

di un livido cielo inclemente.

 

Ne 'l core mi tacque ogni voce:

il cuore mi fu un utensile

inutile, sordo e veloce.

 

La stupida mente servile

pur senza sentiero, sentiva

null'altro che d'esser vile...

 

Ne 'l sonno che lento sfiniva

le membra pesanti mi parve

la stessa mia vita non viva.

 

Venivano intorno le larve

di un sogno che con l'oscurare

del sole più non comparve:

 

le gocce cadevano rare...

 

 


 

Nubila è il titolo di una poesia di Guido Ruberti (Roma 1885 - ivi 1955), che fa parte della raccolta Fiaccole, pubblicata nel 1905 dalla Casa Editrice Nazionale Roux & Viarengo, che aveva sede sia a Roma che a Torino. Più precisamente, Nubila (titolo in lingua latina che significa "Nuvole"), si trova alle pagine 16 e 17 di detto volume (vedi foto in alto), come terzo componimento poetico della prima sezione intitolata: Libro I (1903-04). L'epigrafe riporta due versi di Théophile Gautier, che fanno parte della lirica Le trou du serpent (in italiano si possono tradurre così: Porto in me la tomba di me stesso / e sono più morto di molti morti). Dopo molti anni dalla sua prima pubblicazione in volume, Nubila fu recuperata dal critico letterario Nino Tripodi, che la inserì nell'antologia I crepuscolari (Il Borghese, Milano 1966); qui la si legge a pag. 399. Il tema trattato da questi versi è comune a molti poeti crepuscolari, e riguarda sostanzialmente il sentirsi svanire, in una giornata caldissima, sia a livello cerebrale che corporale. Da notare che Ruberti parla di qualcosa già avvenuto, come dimostra l'uso dell'imperfetto. Mentre l'afa imperversa spietata, il poeta sente le gocce di sudore che scorrono lungo il suo volto e poi cadono; nello stesso tempo egli prova una sorta di torpore, un senso di debolezza ed una soverchiante sonnolenza che lo spingono a lasciarsi andare, quasi stesse per morire, abbandonandosi alle larve di un sogno che, col finire della giornata, si dilegua, scompare così come la sensazione di vivere, lasciando prevalere soltanto il presentimento di una imminente e dolce morte.

domenica 8 agosto 2021

Poeti dimenticati: Vincenzo Riccardi di Lantosca

 

Nacque a Rio de Janerio nel 1829 e morì a Ravenna nel 1887. Dal Brasile, dove suo padre era esule, ben presto si spostò in Italia, dove potè iniziare gli studi. Dopo aver frequentato l'università, divenne insegnante; fu provveditore agli studi in molte località italiane, tra le quali Siena, Bari e Ravenna. In quest'ultima città si spense non ancora sessantenne, a causa delle precarie condizioni di salute che il Riccardi si portava dietro già da parecchi anni. Come poeta, inizialmente seguì le orme del Tommaseo e del Prati; poi, si dimostrò un anticipatore di tendenze letterarie come il realismo e la scapigliatura.

 

Vincenzo Riccardi di Lantosca


 

Opere poetiche

 

"Dall'Alpi all'Adriatico. Ritornelli italiani", Tip. Letteraria, Torino 1860.

"Viaggio nell'ombra. Mille versi", Galatola, Catania 1869.

"Le isole deserte. Memorie", Loescher, Torino 1877.

"Poesie scelte", Barbèra, Torino 1900.

 

 

Presenze in antologie

 

"I Poeti Italiani del secolo XIX", a cura di Raffaello Barbiera, Treves, Milano 1913 (pp. 1050-1052).

"Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 107-117).

"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (vol. III, pp. 115-121).

"Poeti minori dell'Ottocento", a cura di Luigi Baldacci, Ricciardi, Napoli 1958 (pp. 943-956).

"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp. 383-394).

"Poesia dell'Ottocento", a cura di Carlo Muscetta ed Elsa Sormani, Einaudi, Torino 1968, Volume secondo, pp. 1332-1373).

"Secondo Ottocento", a cura di Luigi Baldacci, Zanichelli, Bologna 1969 (pp. 1123-1130).

"Poesia italiana dell'Ottocento", a cura di Maurizio Cucchi, Garzanti, Milano 1978 (pp. 284-291).

 

 

Testi

 

 

 

SUNT LACRYMAE RERUM

 

È un mattin di Febbraio

Scialbo, increscioso, tetro;

Piange fra l'asse e il vetro

Della finestra il tremulo rovajo.

 

Ed io le rime appajo,

Che, obbedienti al metro,

Corrono innanzi, indietro,

Come la navicella sul telajo.

 

Così tessendo vado

Il mio sudario, grado

A grado; e penso all'opera compita,

 

Con una stretta al core,

Povero tessitore,

Che odio la morte senza amar la vita!

 

(da "Poesie scelte", Barbèra, Torino 1900, p. 7)

 

 

 

 

NOX

 

Come i panni del tuo letto eri bianca,

       Quando affermò il dottore

       Ch'eri morta, e il pretore

Che t'eri uccisa. A niun dicesti «addio»,

E niun «addio» ti disse. Anima stanca,

Riposa. Non temer; tutto è compiuto.

       Ché se in fiero desio

Vagheggiasti la Notte, or che hai potuto

Abbracciarla, di nulla ti rimembra,

O il tuo presto partir tardi ti sembra.

 

(da "Poesie scelte", Barbera, Firenze 1900, pp. 12-13)

 

 

 

 

IN CAMPO SANTO

 

Taci; la morta gente

Non si risvégli, o cara;

Congiunti nella bara,

Noi dormirem così:

E pregherem, che alcuno

Non susciti, importuno,

Il cor che finalmente

Nel sonno irrigidì.

 

(da "Poesie scelte", Barbera, Firenze 1900, p. 14)