lunedì 26 luglio 2021

La pietà

 

Mio Dio, se tu veramente

fossi per noi come un padre,

se il Dio che mia madre

chiamava buono e clemente,

se invece di esser l’eterna

vicenda di quello che è,

tu fossi per noi come un re

che benignamente governa,

quale io t’immagino ancora

a volte, con semplicità,

vorrei domandarti pietà

per tutto ciò che dolora:

per l’anima mia che si sente

a un tempo grande ed inane:

umile innanzi ad un cane,

superba innanzi al saccente;

per gli uomini cupi e corrosi,

provati da tutte le prove;

pei poveri senza ricovero

che chiedono un po’ di elemosina;

per la donna a cui nello specchio

il segno del tempo già appare;

per chi deve ancor lavorare

essendo già stanco e già vecchio;

pel piccolo insetto modesto

che s’affanna e che non si vede

e ch’io, camminando, col piede

inconsciamente calpesto;

per tutte le anime buone

di cui s’ignorano i nomi;

per gli asini senza diplomi

che soffrono sotto il bastone;

per gli uomini a cui non somigli,

perché sono gobbi o storpiati;

pei ciechi; per gl’impiegati

che mettono al mondo dei figli:

per tutto ciò che si offre

all’offesa senza difesa;

pel male che non si palesa

da chi n’è colpito e ne soffre!

Per tanto eterno soffrire,

mio Dio, ti chiedo pietà:

ma più ti chiedo pietà

per me, che non so piú soffrire!

 

Stanchezza di questi miei

giorni ch’io vivo a ogni costo!

Un poco d’aria al mio posto

ed io non esisterei.

Per chi vive, chi non esiste

è come se stesse nascosto:

un altro gli occupa il posto

vuotandogli il calice triste.

Il calice: poiché la vita

è come una mensa imbandita,

su cui, da perfetto villano,

il prossimo è lesto di mano.

A volte però gli va male:

il dolce è un impasto di sale,

e un servo bizzarro, il Destino,

gli ha reso imbevibile il vino:

ma l’uomo per ciò non s’arresta,

finché un giramento di testa

lo smemora da tutti i mali

fra il gaudio dei commensali.

La storia un po’ matta e un po’ seria

ha questa morale: miseria.

 

L’uomo era un po’ di materia

che nulla vedeva e sentiva:

un soffio improvviso l’avviva

ed eccoti l’Uomo-Miseria:

s’abbranca - il perché non lo sa -

a un lembo rotondo d’ignoto,

e via che parte nel vuoto

a tutta velocità:

il tempo di dire: - Son qui -

senza capir ciò che dice

e di gridar ch’è infelice...

poi, zitto. Tutto finì.

Stupore di me, senza fine!

Io stesso che vedo e che sento

mi trovo in quel dato momento

che sta tra il principio e la fine!

Mio Dio, se tu mi prometti

di esistere veramente,

ti prego d’esser clemente

con tutti noi poveretti;

ma se per caso ti sbrachi

per noi d’un gran riso beffardo,

usaci questo riguardo:

di crederci tutti ubriachi.

 



 

La pietà è il titolo del settimo capitolo del poemetto Il giorno, di Carlo Vallini (Milano 1885 - ivi 1920). Tale poemetto fu pubblicato in un esiguo volume dall'editore Streglio di Torino nel 1907. Lo stesso, entrò a far parte, con il resto delle poesie di Vallini, nel volume Un giorno e altre poesie, pubblicato da Einaudi in Torino nel 1969. Infine, nel 2010 il poemetto è stato di nuovo stampato nel libro Un giorno e La rinunzia, uscito grazie all'editore San Marco dei Giustiniani di Genova. Io ebbi modo di leggere quest'opera poetica interessantissima, all'interno dell'antologia Gozzano e i crepuscolari (Garzanti, Milano 1983); qui, fortunatamente, viene riportata per intero (La pietà si trova alla pagina 652 e seguenti, come dimostra anche la foto sopra). Devo dire che mi piacque immediatamente, e la ritengo tutt'ora uno dei risultati più significativi e affascinanti della poesia crepuscolare. Questo capitolo - come del resto quasi tutti gli altri - di Un giorno, è direttamente collegato con quello che lo precede; dopo aver parlato dell'amore in modo disincantato, il poeta si rivolge a Dio da non credente (e quindi il tutto appare una farsa), chiedendogli di avere un senso di pietà per gli esseri viventi che provano dolore; da qui Vallini cita una serie di categorie - umane e non - che per qualche motivo soffrono (e una volta di più vengono fuori dei versi estremamente ironici), per giungere ad un discorso esclusivamente personale, che rivela una stanchezza di vivere giunta ormai al colmo. Poi, Vallini esterna altre considerazioni che hanno a che vedere con l'assurdità della vita e con un giudizio impietoso verso l'umanità intera, descritta in questo caso come è, senza alcun velo pietoso. Qui, come in altri punti del poemetto, emerge il pessimismo, se non il nichilismo del poeta piemontese: modus operandi che proseguirà in forma ancor più palese in alcune famose liriche dell'amico Guido Gozzano. Nella parte finale di questo capitolo, ritorna di nuovo quell'ironia amara che aveva caratterizzato l'inizio dello stesso, e che è alla base di questo poemetto indimenticabile. Veramente un peccato che, dopo Un giorno, Vallini non pubblicò più nulla, a parte qualche rara poesia su riviste dell'epoca; infine, a causa delle gravi ferite riportate durante la Grande Guerra, morì a soli trentacinque anni.

 

domenica 25 luglio 2021

Per organo di Barberia

 

Pagina 713 del volume: "I problemi", D'Anna, Messina-Firenze 1975


I.

Elemosina triste

di vecchie arie sperdute,

vanità di un’offerta

che nessuno raccoglie!

Primavera di foglie

in una via diserta!

Poveri ritornelli

che passano e ripassano

e sono come uccelli

di un cielo musicale!

Ariette d’ospedale

che ci sembra domandino

un’eco in elemosina.

 

II.

Vedi: nessuno ascolta.

Sfogli la tua tristezza

monotona davanti

alla piccola casa

provinciale che dorme;

singhiozzi quel tuo brindisi

folle di agonizzanti

una seconda volta,

ritorni su` tuoi pianti

ostinati di povero

fanciullo incontentato,

e nessuno ti ascolta.

 

 

Questa è, insieme a Desolazione del povero poeta sentimentale, la poesia più famosa di Sergio Corazzini (Roma 1886 - ivi 1907). Fu pubblicata per la prima volta nel volumetto intitolato Piccolo libro inutile, stampato nella Tipografia Operaia di Roma nel 1906. Questo libriccino, oltre alle poesie di Corazzini, contiene anche i versi di Alberto Tarchiani (Roma 1885 - ivi 1964): un amico di Sergio che in seguito abbandonò la poesia per intraprendere la carriera diplomatica. Io lessi questa lirica tanti anni fa, in un libro scolastico dei tempi del liceo da cui ho tratto la foto che apre questo post; per la verità, non la lessi sui banchi di scuola, perché il programma di allora non includeva i poeti crepuscolari. Soltanto alcuni anni dopo, recuperai chissà come alcuni libri di scuola finiti nello sgabuzzino della mia casa; così, quasi in modo casuale, ebbi la ventura di leggere questa bellissima poesia. Già il titolo mi lasciò perplesso, poiché non sapevo cosa fosse un organo di Barberia; immediatamente m'informai: trattasi di uno strumento musicale simile ad un piccolo organo, montato su ruote e suonato utilizzando una manovella; era spesso usato più di un secolo fa, dai suonatori ambulanti; era facile allora, soprattutto nelle piazze delle città, incontrarne qualcuno che lo suonasse, affinché il pubblico dei passanti apprezzasse la musica emessa, e donasse qualche moneta al suonatore. Forse inutile aggiungere - poiché mi pare fin troppo evidente - che il poeta in questi versi si paragona allo strumento musicale; i suoi versi sono inutili e inascoltati, così come la musica monotona e obsoleta che proviene dall'organetto; il ripetersi, l'ostinarsi del poeta a scrivere versi che nessuno legge, è uguale al replicarsi delle ariette musicali dell'organo di Barberia, che vibrano nell'aria tra la completa indifferenza della gente che passa da quelle parti. Ricordo infine che la raccolta di Corazzini e Tarchiani è stata ristampata in tempi piuttosto recenti (con una interessante presentazione e introduzione), dall'editore San Marco dei Giustiniani di Genova (vedi foto sottostante).  


Frontespizio del volume: Sergio Corazzini e Alberto Tarchiani, "Piccolo libro inutile", introduzione di Stefania Iannella, San Marco dei Giustiniani, Genova 2013 


giovedì 22 luglio 2021

Le cetonie dorate in una poesia di Guido Gozzano

 



Questa mattina, nel mio giardino, ho trovato una cetonia dorata morta. Non so come sia finita qui, visto che ora, questo piccolo spazio verde che confina con la mia casa, è praticamente privo di piante. Ricordo, quando una volta possedevo delle piante di rose, che mi successe di notare delle cetonie all'interno dei fiori, e la cosa mi scocciò alquanto. Eppure sono veramente belli questi animaletti; sono dei coleotteri piuttosto grandi, col dorso di un colore verde intenso. Io li vidi per la prima volta su un vecchio libro che mi regalarono. Pochissime volte invece, mi è capitato di vederli direttamente. Insomma, questi piccoli, splendidi insetti, mi hanno fatto venire in mente una bella poesia di Guido Gozzano, in cui vengono citati; il poeta, nei versi finali, esprime il desiderio di essere ricordato dagli amici quale fu ai tempi della giovinezza, quando gli accadeva, tra le altre cose, di soccorrere proprio delle cetonie disperate, perché in seguito ad una caduta, si erano ritrovate capovolte. Eccola qui.

 

I COLLOQUI

I.

«I colloqui»... Rifatto agile e sano

aduna i versi, rimaneggia, lima,

bilancia il manoscritto nella mano...

 

– Pochi giochi di sillaba e di rima:

questo rimane dell'età fugace?

È tutta qui la giovinezza prima?

 

Meglio tacere, dileguare in pace

or che fiorito ancora è il mio giardino,

or che non punta ancora invidia tace.

 

Meglio sostare a mezzo del cammino

or che il mondo alla mia Musa maldestra.

quasi a mima che canta il suo mattino,

 

soccorrevole ancor porge la destra.

 

 

II.

Ma la mia Musa non sarà l'attrice

annosa che si trucca e pargoleggia,

e la folla deride l'infelice;

 

giovine tacerà nella sua reggia,

come quella Contessa Castiglione

bellissima, di cui si favoleggia.

 

Allo sfiorire della sua stagione,

disparve al mondo, sigillò le porte

della dimora, e ne restò prigione.

 

Sola col Tempo, tra le stoffe smorte,

attese gli anni, senz'amici, senza

specchi, celando al Popolo, alla Corte

 

l'onta suprema della decadenza.

 

 

III.

L'immagine di me voglio che sia

sempre ventenne, come in un ritratto;

amici miei, non mi vedrete in via,

 

curvo dagli anni, tremulo, e disfatto!

Col mio silenzio resterò l'amico

che vi fu caro, un poco mentecatto;

 

il fanciullo sarò tenero e antico

che sospirava al raggio delle stelle,

che meditava Arturo e Federico,

 

ma lasciava la pagina ribelle

per seppellir le rondini insepolte,

per dare un'erba alle zampine delle

 

disperate cetonie capovolte...


(da "Poesie", Rizzoli, Milano 1993, pp. 240-242)


domenica 18 luglio 2021

Le nuvole nella poesia italiana decadente e simbolista

 

Non pochi sono i simbolismi relativi alle nuvole. Iniziando dall'antichità, e in particolare, dalle credenze religiose, molti popoli vedevano le nuvole come simbolo di fertilità poiché portatrici d'acqua. Nella religione islamica invece, assurgono a simbolo di strumento divino, infatti è Allah che le muove, le accumula e fa scendere la pioggia; anche nella religione ebraica la presenza di Dio si manifesta con una nuvola. Passando all'antica Grecia, nella commedia di Aristofane intitolata appunto Le nuvole, il coro della suddetta è rappresentato dalle "Nuvole", ovvero divinità potenti che, dice Socrate: «ci rendono capaci di pensare, di parlare, di riflettere e di incantare e raggirare». Ma vi sono anche altri significati che sono stati attribuiti alle nuvole, per esempio, in quanto transitorie, possono simboleggiare la precarietà e la fuggevolezza della vita; oppure, soprattutto se portatrici di temporali, bufere ed altre precipitazioni di forte intensità, sono sinonimo di negatività, di sventura, di minaccia e di distruzione. Certo è che i poeti simbolisti hanno spesso parlato di nuvole, come dimostra il lungo elenco di poesie che segue questa breve presentazione.

 

 

Poesie sull'argomento

 

Diego Angeli: "Assonanze" in "L'Oratorio d'Amore" (1904).

Antonino Anile: "Le nubi" in "I Sonetti dell'Anima" (1907).

Giovanni Camerana: "Gloria in excelsis" in "Poesie" (1968).

Enrico Cavacchioli: "Sdegno di nuvole" in "L'Incubo Velato" (1906).

Decio Cinti: "La nuvola" in "Domenica letteraria", novembre 1896.

Guglielmo Felice Damiani: "Nuvole di settembre" in "Lira spezzata" (1912).

Marcus De Rubris: "Nubi pe'l cielo" in "Anima nova" (1906).

Augusto Ferrero: "Nubi fuggenti" in "Nuova Antologia, settembre 1906.

Emilio Girardini: "Nube solitaria" in "Chordae cordis" (1920).

Diego Garoglio: "Squarcio di nuvole" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).

Augusto Garsia: "O nube odorosa di fresco" e "Nuvola bianca" in "Opposte voci" (1921).

Augusto Garsia: "Nuvola bianca" in "Voci del mio silenzio" (1927).

Alessandro Giribaldi: "Varcava l'impero del sole" in "Canti del prigioniero e altre liriche" (1940).

Arturo Graf: "Nuvole notturne" in "Morgana" (1901).

Arturo Graf: "Guardando in cielo" in "Le Danaidi" (1905).

Arturo Graf: "La nuvola" in "Rime della selva" (1906).

Giuseppe Lipparini: "La nuvola" in "L'ansia" (1913).

Gian Pietro Lucini: "Le Nubi" in "Il Libro delle Imagini terrene" (1898).

Gian Pietro Lucini: "Nuvola d'oro all'alba" in "Le Antitesi e le Perversità" (1971).

Tito Marrone: "Nuvole" in «Riviera Ligure», novembre 1905.

Pietro Mastri: "Le pecorelle" in "La fronda oscillante" (1923).

Arturo Onofri: "Mi parvero nubi nere..." in "Canti delle oasi" (1909).

Luigi Orsini: "Cavalcata di nuvole" Da "Canti delle stagioni" (1905).

Ernesto Ragazzoni: "Nuvole" in "Poesie" (1927).

Raffaele Salustri: "Dalla via Nomentana" in "Poesie" (1891).

Agostino John Sinadinò: "Le nuvole" in "melodie" (1900).

Alessandro Varaldo: "Una nube: sogno cupo" in "Marine liguri" (1898).

Giorgio Vigolo: "Bosco di nuvole" in "Canto fermo" (1931).

 

 

Testi

 

LA NUVOLA

MOMENTO D'INVERNO

di Decio Cinti

 

Una nuvola passa; il giorno langue.

Langue il dì in una eguale

scialba luce diffusa.

Oggi il sole pallente

soffre... Par che un mortale

tedio, un'ansia confusa

lo vincan lentamente

nel suo corso fatale.

 

Una nuvola passa; il giorno langue.

Passa una nube. Bianca,

lieve come un velo

sottil di neve, sfiora

l'immensa calma stanca

del cinerino cielo.

Giungerà a 'l sole? L'ora

scorre, lena le manca.

 

Una nuvola passa; il giorno langue.

Giungerà? par che tenda

la nube al sole, ansiosa

di avvolgerlo nel lieve

suo manto, e si difenda

l'astro sfuggendo: - Posa,

fredda nube di neve,

posa; lascia ch'io splenda!...

 

(da «Domenica Letteraria», novembre 1896)

 

 

 

 

LE NUVOLE

di Agostino John Sinadinò

 

  Un'orchestra di rose

rompe su da i cipressi

di San Miniato (fasci

di gridi ardui, inespressi).

 

  Una quadriga barbara

fingono ver' lo specchio

biondo lascivo; irrùe

fin sopra il Ponte Vecchio.

 

  Si sfanno. Indi uno stanco

figurano asfodèlio

vòlto d'adolescente

velenato d'aromi.

 

(da "Melodie", Lugano 1900)



John Constable, "Cloud Study"
(da questa pagina web)


giovedì 8 luglio 2021

Voci

 

Ideali amate voci

di coloro che sono morti o come i morti

sono per noi perduti.

 

A volte ci parlano in sogno

a volte esse vibrano dentro.

 

E con il suono, per un istante l'eco fa ritorno

della prima poesia di nostra vita -

come lontana nella notte una musica che dilegua.

 

(da "La poesia salva la vita", Mondadori, Milano 1998, p. 168)

 




Come si può notare, il grande poeta greco Costantinos Kavafis (Alessandria d'Egitto 1863 - ivi 1933) usa in questa stupenda poesia la prima persona plurale, e il motivo è semplicissimo: parla per tutti coloro che hanno una persona cara che è scomparsa e gli è rimasta nel cuore, così tanto che spesso ritornano a discorrervi nei sogni; così intensamente che a volte, pensando ad essa e alle sue parole, sentono delle strane vibrazioni dentro di loro, provano un'emozione e una commozione indicibili. La stessa cosa succede a tutti coloro che, avendo vissuto dei momenti poetici irripetibili, a volte gli capita di ripensarci. L'ultimo verso, di una bellezza rara, indica il lento svanire dei ricordi più cari di ognuno, a mano a mano che la vita prosegue ed essi divengono più lontani: nella notte della nostra esistenza, la musica meravigliosa delle nostre memorie si fa sempre più lontana e, a poco a poco, ci sfugge per sempre.

domenica 4 luglio 2021

"Primavere del Desiderio e dell'Oblio" di Cosimo Giorgieri Contri

 

Il terzo volume di versi pubblicato dallo scrittore Cosimo Giorgieri Contri (Lucca 1870 - Viareggio 1943), s'intitola Primavere del desiderio e dell'oblio; uscito nel 1903 presso l'editore Lattes di Torino, il libro, di 220 pagine, contiene complessivamente 60 poesie, e si pone sulla scia del precedente Il convegno dei cipressi, che comparve nove anni prima, e che fece certamente clamore, anche se oggi si può affermare che sia stato completamente obliato. Come già avevo detto parlando, appunto della sua opera poetica precedente (e più importante), il Giorgieri Contri fu uno dei primi poeti  a trasferire in Italia le suadenti atmosfere presenti nei versi di alcuni poeti tardo-simbolisti, come i belgi Georges Rodenbach e Maurice Maeterlinck, o come i francesi Jules Lafourge e Francis Jammes; se è vero che nell'ultimo decennio del XIX secolo, da noi, poesie del genere rappresentavano una assoluta e interessante novità, è altrettanto vero che, all'inizio del Novecento, questa strada era già stata percorsa da parecchie voci poetiche nostrane, e il fatto che Giorgieri Contri riproponesse, seppur con qualche variante, le identiche tematiche, non destava certamente molto entusiasmo da parte dei lettori e dei critici. Personalmente però, malgrado la sua poesia risulti spesso ripetitiva, rimango affascinato anche da questa come dalle successive opere poetiche dello scrittore toscano, soprattutto perché gli riconosco una rara capacità nella descrizione di stati d'animo e di paesaggi melanconici, che, come già accennato, diverranno i temi principali di diversi poeti crepuscolari già attivi in quel preciso anno. Chiudo riportando, come è mio solito, un paio di poesie tra quelle che ritengo le migliori di questa raccolta poetica, estratte da una riedizione anastatica del libro, piuttosto recente.

 

 


 

BIANCA PASSEGGIATRICE

 

I.

«Autunno spegne li ultimi rossori»

 

Autunno spegne li ultimi rossori:

i viali che seppero la state

taciono ora tra lor siepi sfrondate

cui già Settembre vendemiò di fiori.

 

La terra un odor vago esala. Pare

come un odore di disfacimento:

anche esala un vapore umido e lento

che dilegua e ritoma. Il piano è un mare.

 

Mar senza rive, senza flutti; oblìo.

Nuvole or sì or no passan lontano

sul mare irremeabile del piano

e il lor passaggio è come un lento addio.

 

Nereggian pini tra 'l pallor delli orti,

soli. Nel mar del piano qualche punta

par testimoni un'isola defunta,

i morti alberi di vascelli morti.

 

Mai non vedemmo desolazione

più soave e più triste. Una infinita

quietudine senza ombra di vita

sta sulle cose e in calma le compone:

 

una stanchezza tacita corrose

questa fine d'Autunno, in terra e in cielo:

il piano è un mare, il cielo è un velo. E velo

e mar copron di sé tutte le cose.

 

II.

«Mai non vedemmo così calmo il giorno»

 

Mai non vedemmo così calmo il giorno

scender sui neri culmini delli orti;

sembra un vel che si adagii; un vel di morti

sogni che Autunno ne diffonda intorno.

 

Or chi sei tu? Per questi orti, tra bussi

cupi procedi. Anche sei morta. Torni

tu dalla solitudine di giorni

antichi, e con la man tremula bussi

 

ecco alle porte del mio cuor. Le porte

del mio cuore si aprono. Sorella

di dolore, che vuoi? Chi mi favella

così, con voce che velò la Morte?

 

Povera cara Giovinezza! Io

già ti vidi in questi orti, or non è grande

tempo: e cingevi allor di tue ghirlande

l'Erme del luogo e i sogni del cuor mio.

 

Or le ghirlande di quel tempo sono

vizze. Tu movi in bianca veste ancora

ma verso un'urna mortuale. È l'ora

questa per te de l'ultimo abbandono.

 

III.

«Ed ella cerca la sua tomba muta»

 

Ed ella cerca la sua tomba muta

in qualche solitudine remota

del parco: e sia quella sua tomba ignota

a tutti, nella gran selva perduta.

 

Sia la sua tomba sotto i vecchi pini

che videro la bianca adolescente

ebra di qualche suo sogno innocente

ivi sostare a' ceruli mattini;

 

che videro la donna omai già schiva,

omai disciolta d'ogni illusione,

ghirlandar l'Erme d'aride corone

come una mortuale ara votiva.

 

Ed ella dorma in quello che compose

sonno al suo sogno la pineta nera:

e non oda cantar di primavera

nidi sui rami: e rifiorir le rose

 

ella non veda. Ella è stanca di tante

imagini di bene e di promessa

ella che camminò sempre lungh'essa

un'onda triste a piagge aride errante.

 

Ella che seppe tutto il pianto umano

e ne raccolse con tacita calma

l'amarissimo flutto entro la palma,

come in un'urna, della bianca mano.

 

Altro non pensa ella, altro non chiede,

che dormire alla gran selva custode:

ove nessun romore ode: e non ode

che crosciar pine omai sotto il suo piede;

 

ove anche il Giorno è come un passeggero

tacito che non osa indugiare,

e la Notte e profonda come un mare

d'ombra: un mar d'ombra sopra un cimitero.

 

(da "Primavere del desiderio e dell'oblio", Bibliolife, Charleston 2010, pp. 37-41)

 

 

 

 

AMORI DEFUNTI

 

Defunti amori che siete

come un aroma soavi;

e come un incubo gravi

sull'anima vi assidete:

 

amori defunti, cose

morte in sentieri già corsi,

vigili come rimorsi,

come rimpianti pensose;

 

donne cui seguì nell'ombra

amara la mia gioventù

— questa io già guardo laggiù

svanir nella notte ingombra;

 

amori, non tutti forse io

vi rivedrò, quando muoia,

crescendo l'ultima gioia

accanto all'ultimo oblìo?

 

Presso ad entrar nel silenzio

ove non sonan parole

ai campi che non viole

ma odora il fior de l'assenzio,

 

presso a mescer la mia

polve alla polvere immensa

che infaticabile adensa

il Tempo sull'umana via;

 

sentirò io sulla faccia

una carezza passare,

una fragranza di care

labbra, di tepide braccia,

 

teneramente, come

in vita forse non era

e un fiato di Primavera

respirerò tra le chiome?

 

Ah ma fra tutte, non forse

una più d'altre leggera,

— chioma che forse fu nera,

man che fu bianca, forse —

 

io sentirò? Sarà quella

che non conobbi, che amai

senza trovarla, né mai

cercarla: come sorella

 

ignota; quella raggiante

forma di donna, che all'ore

in cui si annuncia l'amore

rise nel cuor de l'infante:

 

quella per cui m'era caro

slanciarmi verso la vita,

per cui di averla compita

meno sarebbemi amaro.

 

(da "Primavere del desiderio e dell'oblio", Bibliolife, Charleston 2010, pp. 101-103)