domenica 27 marzo 2022

Gli strumenti musicali in 10 poesie di 10 poeti italiani

 

Difficilissimo trovare una persona che non ami almeno un genere musicale, e chiunque ami la musica ha uno o più strumenti preferiti (io, ad esempio, amo il violino e gli strumenti ad arco in generale). C'è poi chi la musica preferisce ascoltarla solamente, e chi, invece, decide di suonarla o addirittura di comporla; questi ultimi, in genere, scelgono uno strumento musicale che più li aggrada, e lo utilizzano - sia per passatempo che per studio o professione - fino a diventare dei suonatori più o meno specializzati. In queste dieci poesie si parla, appunto, di strumenti musicali; ce ne sono di vario genere, compresi quelli che ormai non si usano più da secoli, come il liuto ed il clavicembalo, perché sostituiti da altri più moderni; ve ne sono a corda, ad archi ed a fiato; tra questi ultimi, in una poesia si parla dello "zufolo": strumento rustico che in tempi ormai lontani veniva suonato dai pastori e dai contadini. In pressoché tutti i componimenti, si respira un'aria di passato remoto, poiché, già da un po' di anni a questa parte, la musica - come altre discipline artistiche - ha perso d'importanza, e di conseguenza anche gli strumenti musicali, fondamentali insieme alla voce umana per la creazione di musica, risultano sempre più trascurati dalla poesia contemporanea, e questo, inutile forse dirlo, è un vero peccato.

 

 

 

 

GLI STRUMENTI MUSICALI IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI

 

 

 

IL PIANOFORTE

di Cosimo Giorgieri Contri (1870-1943)

 

Tutto qui parla del passato: ed io

son come una tornante ombra che vede

rifiorir sotto il suo tacito piede

fiori già vizzi in poggio solatio.

 

Dolce prodigio! E il cuor ne trema. Oh cose

non periture, ch'io ritrovo uguali!

Tu sol sapesti, o sogno, i funerali

e la tua tomba è qui, sotto le rose.

 

Valico lento l'atrio, composto

in quale antico suo ricordo ancora?

Ecco le stanze dove riodora

per me l'odore di quel morto Agosto.

 

Quella finestra oh non è chiusa? E viene

da quell'angolo un suon di pianoforte?

Ah! Le tue mani in altre opere assorte

qua l'obliato cembalo ritiene?

 

Furon quei giorni; e Giovinezza, come

eco di suono, dileguò con loro:

per l'aperta finestra il pallido oro

del sole invan ricerca le tue chiome:

 

come quel dì che sul leggìo chinasti

la bella fronte, interrompendo il canto...

Levo il coperchio. Un lor tacito pianto

piangon l'avorio e l'ebano dei tasti.

 

(dalla rivista «Nuova Antologia», marzo 1906)

 

 

 

  

IL LIUTO

di Arturo Graf (1848-1913)

 

Il suo nome perì; ma dura in terra

La gracil opra dell’audace ingegno,

L’opra che in poche corde e in picciol legno

Tante accese e frementi anime serra.

 

Spesi egli avea molt’anni già, tentando

E ritentando d’infrenar nei cavi

Lombi gli agili ritmi e le soavi

Note che in mente gli fiorian cantando.

 

Molti e molt’anni invan: sempre l’ignava,

Insensata materia al pazïente

Di sue mani artificio, al voto ardente

Dell’indomito cor si ribellava.

 

Stanco alla fine e disperato e fisso

In un pensier meraviglioso e scuro,

Una notte, con orrido scongiuro,

Satana svelse dal profondo abisso.

 

Fuor dalle zolle lacerate ed arse,

Fulminando schizzò nell’aer cieco

L’angiol d’inferno, e tracotante e bieco

Gridò: Che vuoi? sien le parole scarse.

 

Quegli prese a parlar: Di pompe e d’oro

E di piacer nulla vaghezza io sento;

Ma sol di questo picciolo strumento,

Solo di questo, o Satana, m’accoro.

 

Dell’anima che spera, ama, desia,

Piange e si cruccia, in queste lignee foci

Io sognai di raccor tutte le voci;

Ma non resse al voler l’industria mia.

 

Che deggio far? pace non ho dappoi

Che m’ingombra quel sogno; e mi consumo

Tutte veggendo dileguarsi in fumo

Le mie speranze. Ajutami, se puoi.

 

Com’ebbe udito, una ed un’altra volta

Il maledetto con pupille accese

Guatò ghignando il dilicato arnese,

Poi: Buon consiglio saprò darti: ascolta.

 

Una vergine uccidi, a cui, pur ora

Nato, nel core il primo amor s’annidi;

Un cavaliere innamorato uccidi,

A morir pronto per colei che adora.

 

Uccidi un trovator dalla cui bocca

Sgorghi soave e lusinghiero il canto;

E una pentita, che in preghiere e in pianto

L’anima versi dalla grazia tocca.

 

Uccidi un pellegrin che in duro esiglio

Chiami la patria straziata e cara;

E una madre, che steso entro la bara

Vegga il corpo dell’unico suo figlio.

 

Uccidi; e in nome mio, la croce infranta,

Oltraggiato colui cui più non servi,

Nel cavo legno e nei distesi nervi

Le fremebonde, ignude anime incanta.

 

Disse, sparì. L’artefice ossequente

Giusta il precetto uccise, e nelle sorde

Fibre del legno e nelle tese corde

L’anime imprigionò perfidamente.

 

Ed ecco ha vita e sentimento e umana

Voce il lïuto, e di sì dolci note

Susurreggiando l’anime percote

Che dalla terra le rapisce e strana.

 

Egli dannato fu, senza perdono;

Ma dal lïuto donne e trovatori,

E su nel cielo gli angeli canori,

Traggono accenti d’ineffabil suono.

 

(da "Dopo il tramonto", Treves, Milano 1893)

 

 

 

 

IL FLAUTO

di Giuseppe Lipparini (1877-1951)

 

Con la corteccia di un ramo di pioppo ho foggiato il mio flauto,

siccome un antico pastore.

 

Fremono i mandorli in fiore al soffio dei tepidi venti:

la terra si scioglie e si dà.

 

Lancio la melodia per i sette fori del flauto,

e l'aria n'è piena e stupisce.

 

Sale così la mia pena col canto di là da le vette,

compagna raminga a le nuvole

 

che su la fresca vallata si affacciano come le donne

nei chiari mattini ai balconi.

 

(da "L'ansia", Puccini, Ancona 1913)

 

 

 

 

FORSE...

di Tito Marrone (18812-1967)

 

Il clavicordo geme

ne l'ora taciturna.

 

Sì come chiude un'urna

tesori, l'onda freme

melodia fra le

corde. Malinconia.

 

E ne li arazzi sale

l'ignota melodia.

 

(da "Le Gemme e gli Spettri", Boheme, Palermo 1901)

 

 

 

 

VIOLONCELLI

di Eugenio Montale (1896-1981)

 

Ascolta il nostro canto che ti va nelle vene

e da queste nel cuore ti si accoglie,

che pare, angusto, frangersi: siamo l'Amore, ascoltaci!

Ascolta il rosso invito del mattino

che rapido trascorre come ombra d'ala in terra;

assurgi dal vivaio dei mortali

d'opaca terra, ignari d'ogni fiamma,

e seguici nel gurge dell'Iddio

che da sé ci disserra,

echi della sua voce, timbri della sua gamma!

Come l'esagitato animo allora

esprimerà scintille che giammai

avresti conosciute! La tua forma

più vera non capisce ormai nei limiti

della carne: t'è forza di confonderti

con altre vite e riplasmarti tutta

in un ritmo di gioia; la tua scorza

di un dì, non t'appartiene più. Sarai

rifatta dall'oblio, distrutta dal ricordo,

creatura d'un attimo. E saprai

i paradisi ambigui dove manca

ogni esistenza: seguici nel centro

delle parvenze: (ti rivuole il Niente!).

 

(dalla rivista «Primo Tempo», giugno 1922)

 

 

 

 

LA CORNAMUSA

di Angiolo Orvieto (1869-1967)

 

I

 

Suono di cornamusa lento lento

nell'aria solitaria e grigia io sento:

eco lontana, fievole lamento,

suono di cornamusa lento lento.

 

II

 

O lento suon di cornamusa, alfine

dopo tanto silenzio riudito,

sei forse l'ombra delle mie divine

malinconie? sei forse un mesto invito?

 

Donde? Dai giorni dell'adolescenza

tenera? o pur dai giorni dell'amore?

O rechi il gemmeo sogno delle aurore

montane nella tua molle cadenza?

 

Prati su l'alba, o suon di cornamusa,

e, presso, le montagne alte di neve;

e tu t'effondi pel silenzio greve,

lento lamento della cornamusa.

 

III

 

Deh non cessare, cornamusa lenta;

versami tutta in cor la tua parola

che ammonisce nell'ombra e che rammenta.

 

Ch'io mi profondi in lei, ch'io mi risenta

qual ero allora, simile ad aiuola

in cui germogli tenera sementa.

 

(da "Primavere della cornamusa", Bemporad, Firenze 1925)

 

 

 

 

SCHERZO PER VIOLINO

di Antonio Rubino (1880-1964)

 

Del lirico violin gratta i budelli

già il musicante, che dentro mi frulla,

e, stecche mugolii trilli strimpelli

 

arrabattando, le dita si sgrulla,

e fa un così arruffato tafferuglio,

che n'ho la testa balorda e citrulla.

 

Corpo d'un cancro! Già che va in subuglio

il pentolin, che tengo nella nuca,

ingarbugliamo qualche guazzabuglio,

 

o frizzo, o ghiribizzo, o fanfaluca.

 

Un frizzo o ghiribizzo, che ingrovigli

un rachitico intrico di reticoli

fiorito di stentorei sbadigli,

 

poi pallidette cabalette articoli,

donde sprizzino triti brii di trii

e piccoli amminicoli ridicoli,

 

fincè il trillo s'immilli in cinguettii

minimi, e con singulti gutturali

muoia di noia in lunghi omèi giulii,

 

cuculiando cobbole nasali.

 

(da "Versi e disegni", Selga, Milano 1911)

 

 

 

 

CHITARRA SPAGNOLA

di Domenico Tumiati (1874-1943)

 

Nel crepuscolo tace

La chitarra spagnola:

Da gran tempo ogni corda

               S'addormì;

 

Un sogno la consola:

Oh mani delicate

Risvegliano l'accordo

               Che morì.

 

Entro la stanza buia,

Di primavera il vento

Con le labbra rosate

               Viene e va.

 

Fremono le celate

Corde di seta e argento,

E un sommesso lamento

               Vi ristà.

 

Nel suo fragile seno,

La muta pellegrina

Rimpiange i minareti

               Che lasciò.

 

Quando venne per l'arco

D'oro de la marina,

E i fulgidi aranceti

               Che sfiorò.

 

Come dolce sarebbe

Udire la tua voce,

O lira armoniosa

               Di Madrid,

 

Se mormorassi appena

Una danza veloce,

Una vecchia romanza

               Del gran Cid!

 

Piedini irrequieti

E follie di gitane,

Di Cordoba e Granada

               I visir;

 

De l'Alhambra i roseti,

Sieste castillane,

E andaluse sul Guadalquivir...

 

Ne la polka coqueta,

Ne la blanda habanera,

Vengono questa sera

               Verso me?

 

«Jasmin y violeta?...

Ne l'attimo ripresa.

La jota aragonesa

               Forse è?

 

Il tuo sandalo lieve,

Come arpa risuona:

Ecco vibra l'accordo

               Di mi-mi...

 

Si discioglie la neve

Su i tetti a Barcellona?

O una rosa sul Tago

               Rifiorì?

 

Si sveglia ne l'hamaca

Una piccola dea

Che ha due gigli per mani

               E per piè?

 

O il tinnulo monile

D'errante bajadera,

Su i monti lusitani

               Risplendè?

 

Da due labbra di fuoco

Sovra gota vermiglia,

Un bacio violento

               Si stampò?

 

O sorrisero al sole

Le torri di Siviglia,

O un'arma di Toledo

               Balenò?

 

(da "Liriche", Treves, Milano 1937)

 

 

 

 

IL PICCOLO PASTORE

di Diego Valeri (1887-1976)

 

Lento dolce canta, lento dolce piangi,

o mio piccolo sufolo!

Sei tu che spandi,

lassù pel cielo di tenero colchico,

quella tremula danza

di farfalle e di petali d'oro?

 

Le foglie del pioppo sospirano

sommesse, quaggiù;

le piccole povere foglie vorrebbero anch'esse

volare

salire

svanire

lassù...

 

E lui pure, lui pure, il mio piccolo cuore

trema e stormisce in un'ansia di voli infiniti

per infiniti silenzi di cielo.

Lui pure, il mio piccolo cuor prigioniero

vorrebbe salire - leggero -

svanire,

svanir tra la tremula danza

delle farfalle e dei petali d'oro,

lassù...

 

Lento dolce canta, lento dolce piangi,

o mio piccolo sufolo!

Lento dolce canta, lento dolce piangi,

o mio piccolo cuore!

 

(da "Crisalide", Taddei, Ferrara 1919)

 

 

 

 

L'ARPA DEL MENDICANTE

di Mario Venditti (1889-1964)

 

No: non dite che suona l'arpa

quel cencioso dalla bizzarra

papalina nera e scarlatta

più sdrucita della zimarra

e che a un piede porta una scarpa

ed ha l' altro in una ciabatta.

 

Perché s'abbia un'arpa, non basta

un qualunque simile ordegno

a tre lati dalla fatale

ossatura di vecchio legno

rabescato più o meno guasta

e un più o meno vano pedale.

 

V'è bisogno: di mani snelle

che trasvolino su le corde

come tortore imprigionate;

della danza in ritmo concorde

d'una qualche ciocca ribelle

a fragranti trecce annodate;

 

di due labbra color vitalba

che, fra un diesis e un si bemolle,

sembrino altre corde più brevi,

mentre — come bianche corolle

al presentimento dell' alba —

si dischiudan pàlpebre lievi.

 

E che, in fine, fra i sol e i la,

una lampada stile impero

a uno specchio già centenario

volga gli occhi di taffetà

rosa o azzurro anche è necessario,

perché s' abbia un'arpa da vero.

 

(da "Il cuore al trapezio", Taddei, Ferrara 1921)

 

Joseph DeCamp, "The Guitar Player"
(da questa pagina web)