sabato 30 settembre 2023

Poeti dimenticati: Alberto Viviani

 Nacque a Firenze nel 1894 e ivi morì nel 1970. Esordì in letteratura molto giovane, pubblicando delle poesie nella rivista Lacerba; alcune tra queste, comparvero poi nelle prime raccolte di versi che Viviani pubblicò tra il 1914 ed il 1916, in cui il poeta fiorentino si dimostrò un fervente seguace delle migliori avanguardie poetiche attive nei primissimi anni del XX secolo, in particolare del crepuscolarismo e del futurismo. Saltuariamente, Viviani continuò a scrivere poesie anche dopo la gioventù, inserendole in nuovi volumi che spesso comprendevano anche i suoi primi versi. Ma Viviani oggi è ricordato soprattutto per alcuni suoi libri di prosa, in cui rievocò i tempi in cui, frequentando il famoso caffè del capoluogo toscano: Le Giubbe Rosse, conobbe alcuni tra i più noti letterati italiani che a quei tempi pubblicavano i loro scritti in riviste come La Voce e, per l’appunto, Lacerba.

 

 

Opere poetiche

 

“Il mio cuore”, Tip. Galileiana, Firenze 1914.

“Le ville silenziose”, Gonnelli, Firenze 1915.

“Rose d'argento”, Tip. Galileiana, Firenze 1916.

“Il mio cuore” (2° ed.), Istituto Editoriale Italiano, Milano 1919.

“Sole mio”, Carra, Roma 1923.

“Han dato fuoco al Sole”, Alpes, Milano 1928.

“Fiordelmondo”, Studio Editoriale Moderno, Catania 1928.

 

 


 

Presenze in antologie

 

"I poeti del Futurismo 1909-1944" a cura di Glauco Viazzi, Longanesi & C., Milano 1978 (pp. 276-281).

"Dal simbolismo al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981 (tomo secondo, pp. 539-544).

 

 

Testi

 

 

LA SALA GIALLA

 

Di giallo è parata la sala che dorme

nel grande castello.

Le sedie, i divani, le tende, i tappeti

son gialli,

le mura gli specchi ed i quadri

colore ottocento.

Arcigne le tele dei vecchi antenati in cornice

guardano incerte la porta

se mai vi apparisse

il servo vestito alla moda.

Respirano ansiosi i vecchi antenati

quell'aria che dentro vi spira,

quell'aria che odora

ancora

di dame vestite di raso

di cavalieri con le calze bianche e la parrucca,

con l'occhialetto

e i fiocchi color rosa.

Il vecchio orologio che ormai

non segna più l'ora

è casa ad un ragno.

E il ragno tesse e si affaccia stupito

alla mostra, da quel silenzio,

guardando melanconico

tutto quel giallo.

E tesse - Tesse senza posa la tela

che pende leggera nell'aria

color oro pallido,

che scende qual nebbia a velare la mostra di smalto.

Nell'angolo riposa (la tastiera aperta)

il pianoforte,

e la musica sgualcita è sul leggìo

che attende.

Quali manine avranno strappato

a quelle corde l'ultimo pianto? -

Chissà - Mistero.

 

La vecchia dama guarda sempre arcigna

la porta della sala

e l'impiantito sembra solcato

da frementi piedini

che vanno dietro, spasimosi,

a l'ultimo singhiozzo

del minuetto di Boccherini.

 

(da "Le ville silenziose", Gonnelli, Firenze 1915, pp. 19-20)

 

 

 

 

DALLA FINESTRA DEL MIO CASTELLO

 

I.

Oh come stranamente

singhiozza

questa notte nella via

l'organo di Barberia.

Suona con voce fiacca

quella strana, solita canzone polacca

che popola la via bianca

di una folla dolorosa

e stanca,

e pare quasi che le note lente

suonino l'agonia

di quella gente.

 

II.

Dalla cappella vicina

delle suore di Maria Riparata

come un'ondata

sale alle stelle la voce bambina

della spinetta scordata.

 

III.

(Voce di falsetto accompagnata dalla chitarra).

 

"Vieni alla finestra dolce amore

cuore del mio cuore

non mi far penar più..."

 

IV.

L'organo singhiozza ancòra

la canzone polacca

interminabile

che tanto, tanto addolora...

 

V.

Nell'aiola di rose dell'altare

un piccolo cristo

con gli occhi cerchiati di bistro

piange

lacrime amare.

 

(da "Rose d'argento", Tip. Galileiana, Firenze 1916, pp. 19-20)

domenica 24 settembre 2023

"Le Evocazioni" di Guido Ruberti

 Le Evocazioni (sottotitolo: Odi) è il titolo della seconda ed ultima opera poetica di Guido Ruberti (Roma 1885 – ivi 1955). Poeta soltanto in gioventù, Ruberti appartenne al gruppo o cenacolo di poeti romani che avevano, quale punto di riferimento e guida spirituale, Sergio Corazzini: poeta crepuscolare per eccellenza, morto appena ventunenne a causa della tisi. Ruberti fu amico di Corazzini, e quest’ultimo a lui dedicò un paio di poesie. Le Evocazioni è un volumetto di 96 pagine, che fu stampato a Roma, nel 1909, dalla Casa Editrice Centrale. Al suo interno si possono leggere 27 poesie di Ruberti, suddivise in tre sezioni. La prima di queste, che non ha titolo, ne comprende solamente quattro: Il Pendolo; Monte Cavallo; Dopo il veleno; Il faro. Nella seconda sezione, che è la più corposa, si trovano alcune tra le migliori composizioni poetiche del Nostro, in cui è facile ritrovare quelle particolari atmosfere care ai poeti crepuscolari; ecco tutti i titoli delle poesie qui presenti: Mattino di pioggia; Domenica; Chopin: notturno; Nevrastenia; La Devota; I suicidi; All’amica lontana; Anemica; Il soliloquio di Lady Currie; A Marcella; Case in demolizione; L’infanticida; Nell’arsenale di Spezia; Alla soglia…; Alla luce; Vas spirituale; Nozze di sangue; Il ratto. L’ultima sezione - a mio avviso la meno interessante del volumetto - s’intitola Sonetti, e comprende i seguenti componimenti poetici: Volontà; La città dei venti; La città della pietra; L’astronomo; Per un ritratto di Napoleone. La seconda e la terza poesia dell’ultima sezione sono composte da tre sonetti ciascuna. Chiudo, con la trascrizione di un testo poetico appartenente alla seconda sezione, dove, come già accennato in precedenza, si notano delle peculiarità che avvicinano Ruberti al crepuscolarismo, di cui in sostanza fu un esponente minore.

 

 


 

 

A MARCELLA

 

Marcella, che cosa hai tu fatto

dal dì che spezzammo l'incanto

d'amore in reciproci inganni?

Discesa è la torma degli anni

qual orda di barbari in preda...

Ma quanti! perch'io ti riveda

bisogna che levi una pietra

da questa mia sepoltura

e senta, becchino, il ribrezzo

de la putredine oscura

e invano tenti il labirinto

di un sotterraneo estinto.

 

Tu, già non rammenti... stamane

sfiorandomi quasi per via

andasti impassibile e muta;

ma non forse una nostalgia

ti assalse siccome una acuta

fragranza di sale rinchiuse

da tempo, una strana malia?

 

Marcella, che cosa hai tu fatto

dal dì che eravamo fanciulli

e le anime come trastulli

spezzammo per noia al finire

di un sogno? Che cuore! che fede!

Mutammo già tanto? di udire

mi sembra una voce ascoltata

nel regno delle ombre: il tuo viso

è men che uno spento sorriso...

Oh come la vita è passata,

fanciulla, e non siamo gli stessi

di quelli che fummo una volta:

la nostra memoria è sepolta.

 

Marcella, che cosa hai tu fatto

dal dì che spezzammo l'incanto?

la grave opulenza ha disfatto

il giovine corpo; e la mente?

i saggi consigli che accanto

ti sussurrai scaltramente!

tu certo obliati non gli hai,

poiché l'innocenza è sfiorita...

io guardo, sorrido, che mai

trovata ho sì gaia la vita.

 

L'antica vergogna fu come

un morbo di primavera,

che l'anima n'esce leggera

e aspersa da puro lavacro.

Marcella, passandoci accanto

ormai che ne val ricordare?

tu più non sapresti arrossare

io più trovar pianto.

 

(da "Le Evocazioni", Casa Editrice Centrale, Roma 1909, pp. 50-51)

 

martedì 19 settembre 2023

"Una casina di cristallo"

 Uno scrittore geniale che risponde al nome di Aldo Palazzeschi (pseudonimo di Aldo Giurlani, nato a Firenze nel 1885 e morto a Roma nel 1974), più di cento anni fa scrisse e pubblicò una poesia intitolata Una casina di cristallo, in cui si parlava di un poeta (forse egli stesso) che aveva deciso di andare a vivere in una abitazione edificata totalmente col solo cristallo. La fantasiosa casa, abitata dal solo poeta, permetteva a tutti coloro che avessero voluto, di curiosare sulla sua vita intima e di poterlo fare tranquillamente, poiché le pareti trasparenti dell'edificio consentivano ai curiosi di guardare, in qualunque momento della giornata, cosa stesse accadendo all'interno di esso.

Palazzeschi, in questi versi anticipa i tempi di quasi un secolo; pur essendo ancora giovane, lo scrittore fiorentino già conosceva a fondo il pensiero della maggioranza dell'umanità, sapeva della morbosa curiosità che pervade le menti di tantissimi esseri umani, desiderosi di spiare i comportamenti di altri esseri umani, di invadere la loro privacy e di conoscerne per filo e per segno ogni vizio e ogni difetto, per poi poterne parlare con quelli che si nutrono delle medesime indiscrezioni. A causa di questi comportamenti, che non so quanto possano essere definiti "normali", qualche decennio fa è nato un genere televisivo aberrante, denominato "reality", dove i protagonisti sono degli individui più o meno famosi, che per un determinato lasso di tempo vivono in determinati luoghi; consapevoli di essere spiati dalle telecamere anche 24 ore su 24, così come di essere giudicati per i loro comportamenti e le loro azioni, iniziano una specie di gara da cui, inesorabilmente, esce un vincitore (quali siano i meriti di chi primeggia non so).

Tornando alla poesia di Palazzeschi, fu pubblicata nella 2° edizione de L'incendiario (1913) e poi nelle raccolte che comprendevano l'intera opera in versi dello scrittore fiorentino. Il testo che segue, l'ho trascritto dal volume Gozzano e i crepuscolari, Garzanti, Milano 1983.






UNA CASINA DI CRISTALLO


Non sogno più castelli rovinati,

decrepite ville abbandonate

dalle mura screpolate

dove ci passa il sole.

Non palazzi provinciali disabitati,

dalle porte misteriose

le vetrate colorate

le finestre ferrate,

non più.

Non più colli soleggiati,

non cime di montagne,

isole luminose,

non più.

Non solitarie vie

infinite, polverose,

dove sfogare le mie malinconie.

Mi son venute a noia queste cose.

Non prati sconfinati

ricoperti di margherite,

circondati di stupore.

Non parchi bagnati di dolore.

Non fontane, non cancelli,

attonite folle mute

non più;

non più il croscio dei ruscelli

rapito ascoltare

all'ombre silenziose;

non le grida degli uccelli,

non più.

Sogno tutt'altre cose

che con queste non han nulla che fare.

Non me ne dovete volere

se oggi ho cambiato parere.


Io sogno una casina di cristallo

proprio nel mezzo della città,

nel folto dell'abitato.

Una casina semplice, modesta,

piccolina piccolina:

tre stanzette e la cucina.

Una casina

come un qualunque mortale

può possedere,

che di straordinario non abbia niente,

ma che sia tutta trasparente:

di cristallo.

Si veda bene dai quattro lati la via,

e di sopra bene il cielo,

e che sia tutta mia.

L'antico solitario nascosto

non nasconderà più niente

alla gente.

Mi vedrete mangiare,

mi potrete vedere

quando sono a dormire,

sorprendere i miei sogni,

mi vedrete quando vado a fare i miei bisogni,

mi vedrete quando cambio la camicia.

Se in un giorno di malumore

mi parrà di litigare colla serva,

prenderete la sua parte, lo so,

e farete benone,

non c'è niente di male;

v'accorgerete dalla mia cera

come va la mia arte,

mi vedrete chino sopra le carte

dalla mattina alla sera.

E passando mi potrete salutare,

augurare il buongiorno e la buonanotte:

io vi risponderò.

Se ogni tanto mi vedrete

che faccio la pipì,

non vi scandalizzate,

o ditemi: «piscione!»

se no peggio per voi,

non vi dovete voltare

quando passate di lì.

«All'erta dormiglione,

è alto il sole!»

La mattina vi sentirò gridare.

«Pigrizia e poesia vanno a braccetto».

Vi sentirò borbottare.

Ma farò finta di non sentire

per restare un altro poco

a cucciare dentro il letto.

E quando non ne potrò proprio più

mi butterò giù.

- Riso e cavolo per desinare.

— Dev'essere in bolletta.

— Mangia la minestra colla forchetta!

— Che razza d'animale.

— Beve acqua per risparmiare.

— Beve acqua perché gli piace.

— Che ci sia qualche cosa

con quella cameriera?

— Mamma mia che indecenza!

— Brutta a quella maniera?

Ma la notte cosa fanno?

— Bella, vanno a dormire.

— Quella è la stanza di lui,

quella è la stanza di lei,

accanto la cucina...

— Ti piacerebbe di stare in quella casina?

— No davvero no davvero,

vivere a quel modo in berlina.

— Due camere un salotto e la cucina.

— Hai visto il cesso com'è bello?

— È di vetro anche il carìllo.

— Ma cosa è andato a inventare?

— Guarda guarda, va al cassettone...

Ah! no... che cosa anderà a fare?

— Mamma mia!

— Che si butti un po' sul letto?

— Bambine venite via!

— Sarà stanco poveretto.

— Non vedi che viso bianco?

— Qui bisogna riparare!

— E il comune, che gli ha dato il permesso

di fabbricare una casa di quel genere.

— Vi sbagliate!

— Ha ragione, per Dio!

Me ne sto facendo una anch'io!

Quando gli uomini vivranno

tutti in case di cristallo

faranno meno porcherie,

o almeno si vedranno.

— Sostenete delle tesi sbagliate.

— È un pazzo come lui.

— E come se ne sta tranquillo,

quel po' po' di salame.

— Guarda guarda, ci saluta!

— Ah, ci ha detto: «buona passeggiata».

— Buon lavoro, poeta.

— È una gran puttanata!

— Ma che bella trovata!


(da "Gozzano e i crepuscolari", Garzanti, Milano 1983, pp. 591-594)

domenica 17 settembre 2023

10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo contro la caccia

 

Il cacciatore uccide sempre per giocare

(Francesco De Gregori)

 

Mi sono sempre chiesto perché, ai tempi nostri, tanti esseri umani si dedichino ancora alle attività di caccia e pesca, quando è facile procacciarsi il cibo in tutt’altra maniera. Risulta evidente che chiunque vada a caccia di animali – quasi sempre questi ultimi sono piccoli e pressoché indifesi – lo fa solamente per divertimento personale; ma come è possibile divertirsi uccidendo degli esseri viventi come noi? Ovviamente io non me lo so spiegare; so soltanto che l’uomo, in tempi lontanissimi, cacciava per procurasi il cibo necessario a vivere, e per tale motivo la caccia era comprensibile; quei tempi sono finiti da svariati secoli, ma l’uomo prosegue ad esercitare questa attività, giustificato e perfino protetto dalla legge. Qui si possono leggere dieci poesie scritte da dieci poeti italiani che, più o meno apertamente, si dichiarano contrari alla caccia. In verità ve n’è qualcuno che ammette di essere un cacciatore, ma guardando un povera colomba colpita dalla sua arma, agonizzare e poi morire, si pente di tutti quei piccoli delitti che ha compiuto andando a caccia per anni e anni. Un altro poeta non si capacita che un suo collega ed amico possa, sorridendo, puntare il suo fucile contro un uccellino e colpirlo a morte con soddisfazione. La poesia di Alessandro Parronchi – che per me è di gran lunga la migliore delle dieci – afferma in maniera ineccepibile ciò che io e chissà quanti altri come me pensano riguardo alla caccia, ed esorta gli uomini affinché la finiscano di togliere la vita in modo crudele a degli esseri viventi che non li disturbano minimamente, e anche se lo facessero, ci sarebbe certo un motivo, mentre appaiono immotivati molti dei comportamenti violenti cui sono soliti dedicarsi gli umani. Ma la realtà – triste ammetterlo – è che l’uomo continuerà sempre a cacciare ed a pescare, e non serviranno versi, parole o suppliche di qualsiasi genere a farli desistere da questi comportamenti ingiustificabili; soltanto la legge può intervenire, punendo severamente chi, ai giorni nostri, ancora si diletta nell’uccidere degli esseri viventi.

 

 

10 POESIE CONTRO LA CACCIA DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO

 

 

Da "PER PARTITO PRESO"

di Fernando Bandini (1931-2013)

 

2

Un milione di cacciatori

hanno sterminato i pettirossi

colmandone i carnieri.

 

I concimi chimici hanno ucciso gl'insetti

fino all'ultima larva

sotto la foglia caduta dell'ultimo acero.

 

Ma i pettirossi si avvicinano fiduciosi alla casa

dell'uomo dove c'è un water-closet,

si avvicinano al mese dell'ultimo tuono.

 

E tutto rispunterà,

marciume di foglie e garrito,

dal velo delle piogge autunnali.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 2018, p. 29)

 

 

 

 

COLOMBA FERITA A MORTE

di Luigi Bartolini (1892-1963)

 

Tale nel verde tappeto, delle erbe,

nel bosco crogiolava la sua ferita,

rossa specie nel collo che singultava

la colomba non vide più oltre al suo cerchio di morte.

Le ali falcate si dischiusero; tremò il suo corpo;

le zampe di corallo a lungo vacillarono.

Crudele era stata la mortale ferita.

 

II

(Per plaghe abbacinanti d'un'estate selvaggia

così io fui: cacciatore crudele che uccise e uccise.

Vita che, barbaro, tolsi ai gaudiosi uccelli).

 

(da "Poesie 1911-1963", Rebellato, Padova 1964, p. 168)


 

 

 

AD UN POETA CACCIATORE

di Enrico Braccesi (1882-?)

 

Tu puntasti il fucile

atteggiando la faccia ad un sorriso,

già pregustando in cuore

il cadere d'un povero uccellino

per la tua mano ucciso.

Ma non volli veder, non volli udire,

non volli maledire...

e tornai indietro, assorto,

pregando Dio che il piccolo cantore,

no, non cadesse morto.

 

Un poeta non può, non deve uccidere;

un poeta non può fare soffrire,

egli non può mentire.

Anche una goccia, anche una goccia sola

di sangue, che per te macchiò la terra,

offuscherà per sempre

i giorni tuoi sereni.

Lascia ad altri spezzare il canto in gola

al piccolo cantore;

tu no: tu non devi.

 

   Firenze, 24 gennaio 1927.

 

[da "Liriche (1905-1928)", Edizioni "La Cavalcata", Firenze 1929, pp. 35-36]

 

 

 

 

IL FAGIANO

di Giorgio Caproni (1912-1990)

 

  Cercavo «il fagiano».

O, forse, era «il fagiano»

a cercar me?

 

            La mano

esitava.

 

        Sparai.

Forse sparò lui. O un altro.

 

  S'io caddi (chi cadde),

non l'ho saputo mai.

 

(da "Poesie 1932-1986", Garzanti, Milano 1993, p. 544)

 

 

 

 

CACCIA

di Bartolo Cattafi (1922-1979)

 

Non ti aspetta in aria

vola

mira più alto e più avanti

mentre tiri egli vola

traiettoria più alta

e il piombo portalo più avanti

per l’impatto

la resistenza dell’aria

velocità distanza

sempre più avanti e più in alto

rincorrilo

finché non ti trovi

stranito

in terra tramontana

trasmarina

e non siete gli stessi

in un pallido cielo

lui non vola

tu non spari.

 

(da “Marzo e le sue Idi”, Mondadori, Milano 1977, pp. 102-103)

 

 

 

 

ANEDDOTO

di Libero De Libero (1906-1981)

 

All'alba scherzose pernici

mi destarono e felici

della tornata luce

al campo di stoppie m'invitarono.

Seguii di pernici la brigata

che amano pietrosi luoghi

e in dono ne portano colore,

il mio ozio era d'amore.

A meriggio stavano dilette

pernici dietro la siepe,

venne il cacciatore.

 

(da "Le poesie", Bulzoni, Roma 2011, pp. 266-267)

 

 

 

 

CACCIA

di Mario Luzi (1914-2005)

 

Che mare livido nelle sue rincorse contro i muri a fil di piombo dei bunker,

che branchi d'uccelli attesi al passo od al ritorno

gridano più d'ogni altra volta: «È autunno,

è il tempo di tua nascita a questa vita» nell' ora che a uno a uno

cadono uccelli sotto il piombo, prendono

vento lungo la caduta, ed a perdita d'occhio la foresta

lascia di ramo in ramo foglie, lembi

di fuoco, brani di vita ancora palpitante tra le piume.

 

Ora e qui, dove il cane alza la starna

e talvolta per una breve tappa

di ore si attendano i re zingari

nel viaggio tra borgo e borgo, e foglie

e uccelli stanziali e migratori,

lievi e grevi, s'abbattono sul suolo

fradicio, non ancora freddo, tempo

di mia nascita e insieme tempo e luogo

per ricordare i miei morti per forza,

i miei caduti sotto il piombo - poco

prima i miei padri, dopo i miei fratelli -

m'investe a fiotti in pieno viso il vento

di vita e tutt'uno di rapina

e di morte, mi mozza il fiato, mentre

levo le mani a questi alberi e spicco

frutti per la mia cena ancora avido.

 

«È il tempo di tua nascita». Riposano,

muoiono nella vita, essi, periscono

nell'avvenite; e il festoso, l'oscuro si diffondono

per foglie morte, per ali inerti come piombo

a vincere e a espiare tutto quel che ha avuto fine.

 

(da "Tutte le poesie", Garzanti, Milano 1993, p. 280)

 

 

 

 

LA CACCIA

di Eugenio Montale (1896-1981)

 

Si dice che il poeta debba andare

a caccia dei suoi contenuti.

E si afferma altresì che le sue prede

debbono corrispondere a ciò che avviene nel mondo,

anzi a quel che sarebbe un mondo che fosse migliore.

 

Ma nel mondo peggiore si può impallinare

qualche altro cacciatore oppure un pollo

di batteria fuggito dalla gabbia.

Quanto al migliore non ci sarà bisogno

di poeti. Ruspanti saremo tutti.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1996, p. 503)

 

 

 

 

CONTRO LA CACCIA

di Alessandro Parronchi (1914-2007)

 

L'aria è dolce, il cielo coperto.

Nella campagna inanimata

da stamani, domenica invernale,

sparano ininterrottamente.

Che uccideranno?

 

Discendo da una famiglia di cacciatori.

Mio padre stava fuori l'intero giorno

per riportare, a sera, una ghiandaia.

Tirava d'imbracciata

maledettamente bene.

Ma so che appena avuto l'animale

gli avrebbe reso vita volentieri.

Il suo non era gusto di uccidere

ma di cercare e scovare una preda.

Lo so ben io, che preda e ricerca

ho trasferito in parole ed immagini.

Devo a lui se ho conosciuto la selva

quando ancora esisteva e era possibile

ascoltarne l'inconscio respiro.

Ora non più. I boschi sono orti.

E l'istinto di uccidere si esercita

su passerotti dall'ali mozze

scampati a qualche tiro d'inesperto.

 

Non uccidete il cucùlo che segnala

il va e vieni della primavera

senza di che non so più orientarmi.

Non uccidete la tortora che cola

al molle filtro il grigio delle nuvole.

Non uccidete il merlo

ubriaco del mosto del crepuscolo.

Non uccidete la ghiandaia che tra nero

e bianco stringe al petto l'azzurro.

Non uccidete la lepre occhi e orecchi

spuntati sul sentiero.

Non uccidete la biscia d'erba viva

non sfrangete il piccolo cuore della lucertola

non uccidete la futile farfalla

né il ragno laborioso

né il rospo filosofo indifeso.

E se tutti questi sono morti?

Non avrete che larve

pei vostri fucili automatici.

 

(da “Diadema. Antologia personale 1934-1997”, Mondadori, Milano 1998, pp. 126-127)

 

 

 

 

BATTUTA DI CACCIA

di Lucio Pisani (1930-2018)

 

La folaga impazzita

al secco scoppio

dello schioppo infido

non trovò tempo e modo

a una ragione

che il secondo omicida

il volo estinse.

L'improbabile cielo

in cui fu vortice

e nella guazza tonfo

la caduta

il livido scenario

sulla morte.

Come folaga in volo

l'esistenza

che all'improvviso colpo

senza scoppio

patisce più che il rischio

la paura.

 

(da "Interno d'autore", Genesi Editrice, Torino 1984, p. 28)