giovedì 25 aprile 2024

Due anni della Seconda Guerra Mondiale in due poesie

 Per il 25 aprile di quest'anno, ho pensato di pubblicare un post con due brevi poesie di due poeti italiani della cosiddetta "quarta generazione". In questi pochi ma significativi versi si parla di due anni altamente drammatici per la nostra nazione e per l'Europa intera: il 1943 ed il 1944. La prima poesia, di Luciano Erba (Milano 1922 - ivi 2010), descrive brevemente la vicenda personale del poeta che, proprio nel novembre del 1943, decise di rifugiarsi in Svizzera. La seconda, del critico letterario Giacinto Spagnoletti (Taranto 1920 - Roma 2003), fu scritta nel primo giorno del 1944: un anno particolarmente funesto perché in quei 365 giorni probabilmente si raggiunse il culmine di violenze, distruzioni e uccisioni della guerra più sanguinosa di sempre. Le sensazioni che Spagnoletti esplicita, tramite la simbologia del vento, dal 3° all'ultimo verso di Capodanno 1944, rendono bene l'idea della drammaticità di quel periodo; mentre i primi due versi esprimono una incertezza (quel "forse" iniziale) sul futuro, che agli occhi di chi viveva una realtà sempre più cruda e devastante, doveva apparire quanto mai insicuro.




1943

di Luciano Erba


Leggevo negli occhi dei famuli

il mio destino la mia certa condanna

andavo in montagna

scarponi e paltò

volevo fuggire

l'Italia e Salò.


(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 2002, p. 212)






CAPODANNO 1944

di Giacinto Spagnoletti


Forse un giorno la memoria

prenderà altre direzioni.

Ora è un vento che soffia

solo contro di noi,

calmo vento affilato

che denuda e sospende

come fili di paglia o foglie morte

il desiderio e la disperazione,

le tragiche e vane fantasie.


(da "Poesie raccolte", Garzanti, Milano 1990, p. 33)




domenica 21 aprile 2024

"Limen" di Francesco ed Emilio Scaglione

 Limen è il titolo di una raccolta poetica scritta “a quattro mani”, visto che gli autori sono i due fratelli Francesco ed Emilio Scaglione. La sua eccezionalità non sta nel fatto che fosse più di uno l’autore della raccolta, ma che le poesie non siano firmate, lasciando intendere che ogni componimento ivi presente, sia nato da un lavoro di coppia, e che quindi tutti i versi siano da attribuire ad entrambi i poeti. Limen fu pubblicato a Catania, da Noiccolò Giannotta Editore nel 1910. Le 143 pagine di questo volume, che vide l’esordio letterario di entrambi i due giovanissimi autori (Francesco probabilmente aveva ventuno anni, e presumibilmente era il maggiore dei due fratelli), contengono una Prefazione dedicata a Francesco Scaglione: zio dei due poeti e Ispettore Scolastico di Palermo, a cui i giovani si rivolgono con sentita riconoscenza, per l’incoraggiamento che il parente gli diede affinché potessero giungere alla pubblicazione del loro primo libro; seguono una sessantina di poesie più o meno lunghe nelle quali, come detto in precedenza, non viene specificato chi dei due ne sia l’autore. L’ispirazione di questi versi nasce dalle tante letture dei giovani fratelli siciliani, ma si concentra maggiormente nelle suggestioni e nelle influenze che evidentemente ebbero, dai poeti italiani e francesi di fine Ottocento e d’inizio Novecento; in particolare si notano parecchie somiglianze con alcuni versi di Domenico Gnoli, Arturo Graf, Enrico Panzacchi, Tommaso Cannizzaro, Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annunzio (a proposito di quest’ultimo, si legga la poesia intitolata Orto chiuso). Se per Emilio, a parte un altro libriccino scarsamente significativo, questo volume rappresenta l’unica sua opera in versi, per Francesco fu soltanto un punto di partenza per creare la sua raccolta più importante: Le Litanie (Bideri, Napoli 1911), che però fu anche l’ultima, visto che entrambi, a partire dal 1911, non pubblicarono più opere poetiche. Chiudo riportando tre liriche tratte da Limen.

 

 

 


 

 

L'ASFODELO

 

Lascia ch'esali in tenui ansie d'amore

l'asfodelo la sua vitrea bellezza,

ché se lo cogli ti si frange e muore

solo pe 'l soffio de la tua carezza.

 

Anche l'anima mia, fanciulla, hai colto,

ed ogni giorno un petalo ne hai tolto.

 

Solo ora che di cogliere hai finito,

mi getti come asfodelo appassito.

 

(da Limen, p. 30)

 

 

 

 

L'ULTIMA RIVA

 

Vengon l'uomo e la donna, ebri di vita,

a la riviera, il limite d'amore:

v'è picciol trave a un sol corpo: l'orrore

vampa ne la pupilla isbigottita.

 

Chi prima? "Or va gentil cor del mio core,

ramo de l'alber mio" - l'uom è che invita -

io son la china, tu sei la salita

tu il fonte, io il rivo; il prato tu, io lil fiore!"

 

Guarda la donna e ride nel sereno

occhio, e col piè dei precipizi a guerra

sospinge il legno, forte contro forte.

 

Stendesi intorno lugubre nel pieno

agonizzar dei secoli la terra,

ed abbracciati quei van ne la morte!

 

(da Limen, p. 49)

 

 

 

 

CH'È STATO?

 

Perché mai tremo? Ch'è stato?

Son queste notti sì chete!...

pur qualche cosa ha girato

da l'una a l'altra parete.

 

Leggevo in questo volume

placide istorie d'amore,

allor che intesi sul lume,

non so se un soffio o un rumore.

 

Dunque? Negli angoli bui

là, chi si desta che sogna?

Un po' di quello che fui

forse rivivere agogna?

 

Ma no, son pazzo! Chi muore

sta troppo bene laggiù

per ritentare l'errore...!

Via non pensiamoci più!

 

Torno a l'istoria lasciata,

son queste notti sì chete!

Pur... qualche cosa è passata

da l'una a l'altra parete.

 

(da Limen, pp. 89-90)

 

domenica 14 aprile 2024

La poesia di Simonetta Bardi

 Simonetta Bardi (Roma 1928 – ivi 2007) è stata, oltre che poetessa, autrice di prose, disegnatrice e pittrice. Le maggiori soddisfazioni le ebbe nel campo delle arti figurative, soprattutto nel ristretto settore del disegno monocromatico. Qui, però, vorrei parlare della sua attività poetica, che ho scoperto un po’ alla volta: dapprima leggendo il primo volumetto di versi pubblicato nel 1953, e poi quasi tutti gli altri (non molti) usciti durante la seconda metà del Novecento. Ciò che maggiormente ho notato, nella sua scrittura, è una semplicità assoluta, insieme ad una limpidità di pensiero che mi ha fatto venire in mente Antonia Pozzi: la poetessa più vicina – ritengo – al fare poetico della Bardi. Gli argomenti dei testi, per la quasi totalità, potrebbero essere definiti “intimistici”; spesso la Bardi mette in versi i suoi pensieri, la sua vita, i ricordi d’infanzia, delle persone care e degli animali – in particolare un gatto – da lei intensamente amati. In tutti i volumetti che diede alle stampe, compaiono anche suoi disegni, che hanno sempre stretta attinenza coi testi che li precedono o li seguono. Questi disegni, spesso, mostrano figure di donne che estrinsecano una sofferenza interiore (ve ne sono alcune ripiegate, con la testa bassa o in atteggiamenti malinconici); in molti casi, ben si evince che tali figure rappresentino proprio la poetessa. Raramente, la Bardi scrisse dei versi “impegnati”, ma quando lo fece (per esempio parlando di un ragazzo ebreo - probabilmente da lei conosciuto - che venne deportato in un campo di sterminio, oppure delle violenze subite dai neri d’America negli anni ’50 e ’60 del XX secolo), si dimostrò all’altezza del compito. Io lessi, quasi per caso, per la prima volta poche liriche di Simonetta Bardi, presenti in una vecchia antologia dedicata alla poesia femminile del Novecento; da quel momento in poi, non ho più visto comparire il suo nome in alcun libro di poesia italiana o di critica letteraria; ora che ho scoperto, praticamente per intero, la sua opera poetica, posso affermare con certezza che la Bardi meriterebbe una maggior considerazione. Questo post, spero, sia soltanto un primo passo per una prossima riscoperta. Dopo l’elenco delle raccolte poetiche di Simonetta Bardi, ho selezionato e trascritto quattro sue poesie che a me piacciono in particolar modo.

 

 

 

 

Opere poetiche

 

“Finestra sul fiume”, Bardi, Roma 1953.

“Il cantiere e la luna”, Il Raccoglitore, Parma 1958.

“Domani è il tempo”, Guanda, Parma 1963.

“Una parte di me”, De Luca, Roma 1968.

“Parole fra noi”, Bestetti, Roma 1972.

 

 


 

Testi

 

IN BILICO SUL CARRO

 

Vorrei andarmene,

dietro l'arrancare del carro

della calce viva

insieme a quella marionetta

traballante sul legno,

al passo col cavallo.

 

Vorrei assaggiare la pagnotta di pane

e di spinaci

il sole sulle spalle,

assopirmi, seduta in bilico sul carro,

sognare di non avere amici né casa

e sfogare nel vento

l'amaro della mia vita scontenta.

 

(da "Finestra sul fiume", Bardi Editore, Roma 1953, p. 39)

 

 

 

 

CHE M'IMPORTA?

 

Mi faranno ancora del male.

Che m'importa?

A me

il gatto, mi ama

il tetto d'una casa

l'agave e la morte.

Una canzone popolare

il vento di scirocco

vagabondo.

 

Che m'importa?

 

(da "Il cantiere e la luna", Il Raccoglitore, Parma 1958, p. 34)

 

 

 

 

L'EREMITA FINLANDESE

 

Invidio l'eremita finlandese

la sua casa di neve, la preghiera,

l'aurora boreale e la certezza d'essere santo.

Fra gli abeti, cammina con la sua sagoma d'ombra

e parla agli occhi umani del suo cane,

solo, con una fragile missione,

e ghiaccioli sui peli della barba.

S'apre a ventaglio, il sole,

la fede è una gran fiamma, nel silenzio;

chi toccherà la Luce con le dita,

se non l'eletto, il santo,

il povero eremita finlandese?

 

(da "Domani è il tempo", Guanda, Parma 1963, p. 17)

 

 

 

 

TI STO VICINA...

 

Ti sto vicina, con il mio corpo

proteso. Non mi senti, non mi conosci

non sai. Fra noi non si è aperta

una strada, non si è fatta una luce.

Due cariatidi mute, due esseri

lontani, che neppure si fanno male.

Si annullano a colpi brevi, occhiate

imprecise. Non ti so dire che sarei pronta

a morire, per un'avara carezza.

 

(da "Parole fra noi", Bestetti, Roma 1972, p. 23)

 

sabato 6 aprile 2024

Pedone

 

Camminava tra la folla

per il boulevard Sebastó,

pensando ai fatti suoi.

Il rosso l'arrestò.

Guardò in alto: 

                       sopra

le grigie terrazze, argenteo

tra gli uccelli grigi,

volava un pesce.

Cambiò al verde il semaforo.

Attraversando la strada si chiese

a che stava pensando.

 




 

COMMENTO

 Pedone è il titolo di una poesia surrealista di Octavio Paz (Città del Messico 1914 – ivi 1998), scrittore messicano che per un periodo visse a Parigi, dove conobbe artisti come André Breton e Benjamin Peret, da cui acquisì una propensione verso il movimento surrealista, come dimostra la poesia sopra riportata; la città in cui il distratto pedone cammina è Parigi; la visione del pesce volante rientra pienamente nella poetica surrealista di cui, per maggior chiarezza, riporto uno dei punti fondamentali esposto da André Breton nel "Primo Manifesto" del movimento:

«Il Surrealismo è automatismo psichico puro mediante il quale ci si propone di esprimere sia verbalmente, sia per iscritto o in altre maniere il funzionamento reale del pensiero; è il dettato del pensiero con l’assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, di là da ogni preoccupazione estetica e morale».

I versi di Pedone li ho trascritti dal volume L’albero delle parole, a cura di Donatella Bisutti, Feltrinelli, Milano 1996, dove si trovano alla pagina 99; originariamente la poesia faceva parte della raccolta Il fuoco di ogni giorno (Garzanti, Milano 1992), tr.di Ernesto Franco.

sabato 30 marzo 2024

La manifestazione di sensazioni negative in due poesie pasquali

 In occasione della Pasqua 2024, ho deciso di pubblicare un post che contiene due brevi testi poetici i quali, secondo me, seppur sommariamente ben rispecchiano i tempi presenti: caratterizzati da conflitti bellici interminabili, in cui soccombono le popolazioni civili sempre e comunque pienamente coinvolte e decimate da numerosissimi bombardamenti che, incessantemente, radono al suolo città popolose. Ma il clima generale, al di là delle guerre in corso, non induce all'ottimismo: le emergenze di varia tipologia che si protraggono da anni e anni, sembrano ormai irrisolvibili, e diviene sempre più difficile poter sperare in un mondo e soprattutto in una umanità migliore, almeno guardando al futuro prossimo. Ecco quindi due poesie pasquali che trasmettono sensazioni negative; ciò avviene in modi differenti. Nella prima, di Ugo Fasolo (Belluno 1905 - Vicenza 1980), predomina l'incapacità del poeta di partecipare al clima gioioso della festa di primavera, forse perché vede intorno a sé una situazione simile a quella odierna, in cui l'odio e la violenza la fanno da padroni e non facilitano affatto quello slancio vitale, di rinascita, che dovrebbe trasmettere la Pasqua. Fasolo probabilmente scrisse questi versi dopo aver assistito ad un rito liturgico nel giorno di Pasqua; il poeta si dichiara incapace di entusiasmo e di partecipazione, anche quando assiste alla fase più solenne ed emozionante del rito; quindi confessa la sua amarezza che scaturisce da un clima per nulla confortante. La pioggia-simbolo citata nell'ultimo verso ha una valenza negativa, poiché contamina la purezza dell'albero dell'ulivo, che poi è il simbolo della pace. Nell'altra poesia, di Giovanni Boffa (Agno 1922 - ivi 2002), la negatività ed il pessimismo dell'animo sembra si siano trasferite sul paesaggio circostante; il poeta vede intorno a sé una serie di eventi apparentemente insignificanti, ma che a ben vedere sono emblema di sofferenza ed inquietudine: la fontana col suo tentennante spruzzo d'acqua che crea un finto arcobaleno; il vento che simboleggia atti vistosi e vuoti di contenuti, sviluppatisi per ragioni assai lontane da quelle che dovrebbero nascere da un sincero sentimento religioso. Le immagini degli ultimi tre versi pongono in primo piano i colori splendenti delle raganelle, che, agli occhi del poeta, involontariamente vivacizzano una festività pasquale grigia e fumosa, incapace d'infondere un minimo slancio vitale a coloro che credono nei valori più autentici della religione cristiana, e che vorrebbero fosse ben altra cosa. Auguri a tutti di una serena Pasqua.





NEL CANTO DELLA GRANDE PASQUA

di Ugo Fasolo


Nel canto della grande Pasqua più alto,

(come in sé lieto il sacerdote

d'antica seta e d'oro)

non ho saputo pavesare l'animo.


È amara la quiete degli occhi:


perché ancor piove sopra il bianco olivo?


(da "Le varianti e l'invariante", Rusconi, Milano 1976, p. 90)






PASQUA

di Giovanni Boffa


La fontana tentenna un vago spruzzo

nell'umidore folto dell'acacia

e all'abetina rossa della sera

finge un arcobaleno.

Agita il vento nell'umana giostra

mulinelli di cose non sperate

nastri lievi di gioie inghirlandate.

Raganelle rifanno devastata

Pasqua senza colore e senza ardore

nello svanito fumo d'una esca.


(da "Poesie", CO.ED, Firenze 1985, p. 172)

domenica 24 marzo 2024

La mia barca

 

A secco ho tirato la mia barca

e l'acqua mi ha compianto,

ha compianto il vecchio marinaio.

Nella bonaccia nella tempesta

fedele sono stato alla mia barca.

Lontano va il mare e non si stanza.

 

 


 

COMMENTO

La mia barca è il titolo di una poesia di Raffaele Carrieri (Taranto 1905 – Pietrasanta 1984). Io l’ho trascritta dal volume Stellacuore (Mondadori, Milano 1970), che raggruppa tutte le raccolte di versi del poeta pugliese, pubblicate entro quel preciso anno. Qui, è possibile leggerla all’interno della sezione intitolata La giornata è finita, che è anche il titolo di una raccolta pubblicata sempre da Mondadori, nel 1963.

Il contenuto, parla di una barca di proprietà del poeta, portata dallo stesso a riva in modo definitivo; per tale motivo, l’acqua del mare, come se fosse un essere vivente, compiange l’uomo che ha rinunciato per sempre alla navigazione; lo compiange come fosse un vecchio marinaio che, a causa dell’età troppo avanzata, decide di rimanere a terra per il resto della sua vita. Il poeta, quindi, afferma che, ai tempi in cui si trovava in mare, fu sempre fedele alla sua barca, non abbandonandola mai in qualsiasi situazione meteorologica. L’ultimo verso, invece, è una constatazione che dimostra quanto il mare sia differente dagli esseri umani, poiché, al contrario di questi ultimi, non si ferma mai in nessun posto, viaggiando sempre e comunque.

A mio avviso, la barca altro non è che lo spirito avventuroso del poeta, il quale visse da bohemien per gran parte della sua esistenza; la sua fedeltà alla barca, quindi, è la sua coerenza ad uno stile di vita in cui ha creduto finché ha potuto, ovvero fino all’arrivo della vecchiaia. La sua rinuncia al viaggio, e quindi all’avventura, seppure dolorosa, si è resa necessaria; soltanto il mare (che potrebbe simboleggiare la forza vitale) non invecchia mai, e può quindi proseguire il suo viaggio per l’eternità. 

domenica 17 marzo 2024

Il decennio 1960-1969 in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Come sembrano già così lontani i “mitici” anni ’60… Io, in questo decennio ci nacqui, ma, certamente per motivi d’età, non ricordo nulla o quasi di quel periodo decisamente felice per la nostra nazione; pure, in un non lontanissimo passato, ho visto tanti documentari, servizi giornalistici e film che ne parlavano spesso in modo entusiastico; inoltre amo la musica pop che, in questo preciso decennio, si diffuse in modo abnorme, grazie alla proliferazione dei dischi in vinile (a 33 e a 45 giri), che era possibile ascoltare in casa comperando un giradischi: elettrodomestico di piccole dimensioni e alla portata di tutti, che si avvaleva di un piatto girevole su cui veniva posizionato il disco, e un braccio alla cui estremità si trovava una puntina. Anche i miei genitori mi parlavano spesso e sempre in modo positivo degli anni ‘60, poiché entrambi, proprio all’inizio del settimo decennio del Novecento, trovarono un posto di lavoro adeguatamente retribuito e stabile, che gli permise di vivere senza troppi problemi economici per il resto della loro vita. In effetti, il periodo compreso tra il 1960 ed il 1969 ha rappresentato una svolta decisiva per l’Italia, che, soprattutto nei primissimi anni di questo decennio, beneficiò del cosiddetto “boom”: una sorta di miracolo economico che consentì ad una larga fascia della popolazione di uscire da uno stato di povertà in cui si era ritrovato dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Poi ci fu il ’68: l’anno in cui iniziò la contestazione giovanile (fenomeno che coinvolse altri paesi europei come Francia e Germania Ovest) e che, ahimè, nel nostro paese sfociò nel terrorismo degli anni ’70. E gli anni ’60 finirono per diventare qualcosa di favoloso anche per me, che praticamente non li ho vissuti. Ma, come ho già detto all’inizio, oggi questo decennio così importante per la nostra nazione, sembra già dimenticato; e diventa sempre più raro sentirne parlare, anche perché le generazioni che lo hanno attraversato e analizzato o sono già scomparse, o non vengono più interpellate al riguardo. Ho voluto così rievocarli pubblicando 10 poesie di 10 poeti italiani in cui essi sono protagonisti diretti o indiretti. Ma in questi versi quasi mai c’è entusiasmo; piuttosto si punta l’attenzione su determinati eventi accaduti proprio in quel decennio, alcuni dei quali drammatici o tragici; oppure si esterna una seria preoccupazione per il graduale diffondersi di un capitalismo sempre più selvaggio. In altri casi, vengono ricordate delle date memorabili per la popolazione mondiale (come quella del 21 luglio 1969, quando l’uomo, per la prima volta riuscì a toccare il suolo lunare). Unica eccezione è la prosa poetica di David Maria Turoldo, che conferma l’impressione estremamente positiva da lui avuta in quel contesto storico, che vide l’ascesa al potere di alcuni personaggi straordinari, apparentemente in grado di cambiare il mondo. Poi, però, con amarezza ammette che si trattò soltanto di una mera illusione.

 

 

IL DECENNIO 1960-1969 IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO

 

 

2 NOVEMBRE 1962

di Fernando Bandini (1931-2013)

 

I puteli notturni

hanno sorvolato

(cavalcando le folaghe)

La base della Nato.

 

Luccicavano appena

tra nuvole di perla

e i rami dondolavano

nel tempo che s’inverna.

 

Armi qua e là

Puntate verso il cielo!

I puteli fuggivano

Al prossimo sfacelo.

 

E l’àlbera tremava

nei miei occhi e nel cuore.

Aver trent’anni e tanta

Paura e disamore! 

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 2018, pp. 46-47)

 

 

 

 

25 LUGLIO ‘67

di Ferruccio Benzoni (1949-1997)

 

Stentorea

in un visibilio di luce

che pare scolpita

la voce,

il lembo d’un prendisole…

È quanto di lei rimane

Tra il paesaggio marino e me

Immobili nel ricordo.

(Si sollevasse una brezza

un alito

e un poco di verde tremasse

cautamente

dalla cima delle piante alla punta

delle mie dita)

 

(da “Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000”, Einaudi, Torino 2005, p. 368)

 

 

 

 

VERSI SCRITTI IL GIORNO DELLA MORTE DI J. F. KENNEDY

di Attilio Bertolucci (1911-2000)

 

Amica America America primo amore

non potevamo più pronunciare quei titoli amati

e neppure America amara che ne era il rovescio

giudizioso e perfido forse accettabile

sempre giocati su quella vocale femmina di lunghe gambe

le lunghe dure gambe americane fatte per grandi spazi.

 

Non potevamo più controtipare dal fondo

semidistrutto della nostra memoria

di Douglas Fairbanks

gattescamente librato

sulla pellicola rigata i salti

con accompagnamento al piano di Alexander ragtime Band

perché eravamo rimasti senza udienza.

 

Né - udite - litaniare Poe Hawthorne Melville Dickinson Whitman -

né Stephen Crane più a misura d'uomo -

di quei semidei che orme gigantesche

stamparono sulla terra e scomparvero

senza eredi - Stephen

e più tardi Ernest e Francis Scott

che ci diedero in prosa una musica umile

degna dei versi più splendenti.

 

Ora potremo grazie a te. Così sia.

 

(da "Verso le sorgenti del Cinghio", Garzanti, Milano 1993, pp. 25-26)

 

 

 

 

SETTEMBRE 1968

di Franco Fortini (1917-1994)

 

Quest’anno ne ripete molti altri. La venuta

del caldo, per esempio. Il grande caldo

si è tutto sfogato nella prima quindicina di luglio.

 

Gli studenti, le riunioni. Torino. Parigi. Berlino. I colpi

a Dutschke, sotto Pasqua. I giorni di maggio. La lotta

a Shanghai. Ieri i russi a Praga; o è da quindici

giorni, già da trenta giorni.

 

Stenta la coscienza a seguire questo volo profondo.

L’azzurro è profondo. Il viola è denso e il verde

Sulla dorsale di pini e cipressi.

Dove la dorsale del poggio va in ombra è molta ombra.

Poco fiato leva le piume bianche

Dei cardi ed esse in processione

Senza pena vanno senza peso

Sempre più nell’aria lasciano l’ombra

Entrano nella luce rosa.

 

Stringo nella tasca una lettera di stamani.

 

(da “Tutte le poesie”, Mondadori, Milano 2015, p. 416)

 

 

 

 

NINNA-NANNA PER IL 21 LUGLIO 1969

di Luciana Frezza (1926-1992)

 

Va a letto, bambina curiosa,

prendi il tuo piccolo tranquillante

verde prato e riposa

in un’amaca di raggi d’argento.

 

Ma mille fili

Mille segnali

Mille richiami

Attraversano il baldacchino

Del tuo sonno di cellophane.

Sta certa

Ti sveglieremo

All’ora che aspetti, di questa

Notte d’epifania lunare.

 

(da "Comunione di fuoco. Opera poetica", Editori Riuniti, Roma 2013, p. 276)

 

 

 

 

Da "TELEGIORNALE (1963-1964)”

di Gino Gerola (1923-2006)

 

5

È subito silenzio

nel bar. Lo speaker turba la sua voce,

un attimo s’affaccia

sullo schermo. Un ronzo cupo

è nell’aria: - La vallata del Piave

è un cimitero: brandelli di abitazioni,

i morti nudi che dormono

in un mare angosciato. I superstiti

raspano tra le macerie,

i soldati che scavano muti

riportano nel giorno

solo la morte -. Sul video nereggiano

figure in una luce

spettrale, la gola del Vajont

s’apre contro la diga

tra le montagne a picco. Qui nella penombra

la piccola folla

ha un solo sguardo, teso. Una cascata

impazzita è il rombo delle macchine

per le strade d’intorno.

 

[da "La valle e periferia (1943-1995)", Edizioni Osiride, Rovereto 2001, p. 96]

 

 

 

 

FU LA SERA IMPROVVISA...

di Margherita Guidacci (1921-1992)

 

Fu la sera improvvisa, non nel corso del tempo.

E non ebbe corteggio di gloria occidentale

Né bandiere di fiamma che ondeggiassero

Sui confini del cielo

Nel lento addio, promessa del ritorno.

 

Fu come se il pugnale di un sicario

Trafiggesse alle spalle il sole inconsapevole.

L'empio tramonto nell'oriente

(Luce mutata in pietra, foglie mutate in piombo,

Acque abbrunate in un immenso lutto)

D'ogni creatura fece statua silente

E dell'aria cinerea

L'opaco specchio del mortale orrore.

 

(da "Le poesie", Le Lettere, Firenze 1999, p. 150)

 

 

 

 

IN TANTO SPRECO DI RESPIRO UMANO

di Nelo Risi (1920-2015)

 

In tanto spreco di respiro umano

in tanti mattoni per gli ultimi piani

in tanta neve spazzata ogni tanto e con tutta la merce

portata dai camion nelle notti di gelo

gli uomini, dentro, resistono bene.

Lavorano dietro i tavoli su sedie di paglia

o affondati in poltrone, hanno anche un orario

qualcosa di caldo per colazione e magari

la macchina poi che li porti a casa.

Tutti hanno un letto. Sono due modi però

di lavorare nella stessa città.

 

[da "Di certe cose (poesie 1953-2005)", Mondadori, Milano 2006, pp. 55-56]

 

 

 

 

GIOVANNA E I BEATLES

di Vittorio Sereni (1913-1983)

 

Nel mutismo domestico nella quiete

pensandosi inascoltata e sola

ridà fiato a quei redivivi.

Lungo una striscia di polvere lasciando

dietro sé schegge di suono

tra pareti stupefatte se ne vanno

in uno sfrigolìo

i beneamati Scarafaggi.

 

Passato col loro il suo momento già?

 

Più volte agli incroci agli scambi della vita

risalito dal niente sotto specie di musica

a sorpresa rispunta un diavolo sottile

un infiltrato portatore di brividi

- e riavvampa di verde una collina

si movimenta un mare -

seduttore immancabile sin quando

non lo sopraffanno e noi con lui altre musiche.

 

(da "Il grande amico. Poesie 1935-1981", Rizzoli, Milano 1990, p. 160)

 

 

 

 

Da "AI TEMPI DI PAPA GIOVANNI"

di David Maria Turoldo (Giuseppe Turoldo, 1916-1992)

 

Sì, io ho creduto fino al punto di ritirarmi nel suo paese, di mettermi a vivere qui, a camminare per queste mulattiere, in mezzo ai suoi vigneti; a guardare dal monte gli spazi e il cielo che lui si era portato con sé per le strade dell'oriente e dell'occidente, fin dalla sua infanzia; qui in mezzo alla sua gente.

  Vivevo allora da solo e dormivo in una torre di mille anni. E da quelle finestrelle guardavo giù tutta la pianura. E dovevo entrare da una porticina piccolissima, cosicché dovevo curvarmi, e ogni volta che uscivo avevo la sensazione di inchinarmi di fronte alla creazione. E godevo di tutte le più piccole cose; e della mia vocazione, e della volontà di donarmi; godevo specialmente a stare con gli umili e coi fanciulli. E ho creduto veramente nella possibilità di un mondo nuovo, o comunque diverso. Speravo che la storia dovesse cambiare. Era il tempo di Kennedy, il tempo di Krusciev. Non so che tempi fossero. Ora mi sembrano una favola. Oppure ci siamo tutti sbagliati?

 

(da "O sensi miei... Poesie 1948-1988", Rizzoli, Milano 2002, p. 359)