domenica 27 settembre 2020

La poesia di Antonia Pozzi

 Fin dalle primissime poesie, che lessi in una vecchia antologia, mi rimase impresso nella mente il nome di Antonia Pozzi (Milano 1912 - ivi 1938). Certamente furono i suoi versi a piacermi particolarmente, ma non posso negare che mi sorprese anche la sua vicenda umana, conclusasi col suicidio a soli ventisei anni. Dopo aver letto, e amato, le sole cinque poesie che trovai in quel vecchio libro, non esitai a cercare negli scaffali di molte librerie romane il suo nome; per lungo tempo non trovai nulla, a parte delle antologie con, all'interno, altri suoi versi che ancora non conoscevo. Soltanto nel 1998, la Garzanti fece uscire una seconda edizione dell'intera opera poetica di Antonia Pozzi (la prima, data alle stampe nel 1989, andò subito a ruba), e fu soltanto in quell'anno che riuscii, finalmente, a leggere tutte le poesie di questa nostra bravissima e sfortunata poetessa. C'è da dire che la Pozzi, fin quando fu in vita, non pubblicò alcun libro di versi; il primo volume poetico, uscì grazie ai familiari, nel 1939 (un anno circa dopo la sua morte). Un altro, ben più consistente, vide la luce nel 1943, grazie alla Mondadori di Milano; nella terza edizione (1948), le poesie della Pozzi ebbero l'onore di una prefazione firmata da Eugenio Montale. Quindi, nel 1964, uscì una quarta edizione comprendente anche alcuni inediti. Come ho già detto, soltanto nel 1989 è stata stampata l'intera opera poetica di Antonia Pozzi, che include anche altre poesie inedite pubblicate nel frattempo in alcuni volumetti.

Se è vero che la poesia della Pozzi, a volte, è stata definita ingenua o, volendo usare un aggettivo meno offensivo, naive, è altrettanto vero che tali giudizi superficiali e lontani dal vero, si basano semplicemente sul fatto che essa risulta, all'apparenza, semplicissima e totalmente priva di arzigogoli. La poetessa lombarda ha sempre preferito il verso libero a qualsiasi altro tipo di metrica (raro, si riscontra l'uso dell'endecasillabo), e nello stesso tempo, non ha mai abbracciato correnti poetiche di moda ai suoi tempi, come l'ermetismo. Il suo canzoniere o diario poetico che dir si voglia, spicca, oltre che per la semplicità, per la profondità di pensiero, per la sincerità delle diverse emozioni o sensazioni descritte e per la rara capacità di coinvolgere il lettore che si ritrova quasi spiazzato di fronte ai suoi versi delicati, istintivi e a volte commoventi. Considero Antonia Pozzi, malgrado la sua breve esistenza, una delle migliori poetesse italiane ed europee del XX secolo, e non mi meraviglia il fatto che ancora oggi, a distanza di poco meno di un secolo dalla sua scomparsa, l'interesse verso la sua poesia sia ancora vivissimo. Chiudo riportando un elenco di libri che contengono i suoi versi e, di seguito, cinque capolavori poetici nati dalla sua straordinaria inventiva.

 

 

 

 

Opere poetiche

 

"Parole. Liriche", Pozzi, Milano-Verona 1939.

"Parole. Diario di poesia", Mondadori, Milano 1943, 1948³.

"Parole. Diario di poesia", Mondadori, Milano 1964 (4° ed. con Poesie inedite).

"La vita sognata e altre poesie inedite", Scheiwiller, Milano 1986.

"Parole", Garzanti, Milano 1989, 1998².

"La giovinezza che non trova scampo", Scheiwiller, Milano 1995.

 

 


 

 

Testi

 

AMORE DI LONTANANZA

 

Ricordo che, quand'ero nella casa

della mia mamma, in mezzo alla pianura,

avevo una finestra che guardava

sui prati; in fondo, l'argine boscoso

nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo,

c'era una striscia scura di colline.

Io allora non avevo visto il mare

che una sol volta, ma ne conservavo

un'aspra nostalgia da innamorata.

Verso sera fissavo l'orizzonte;

socchiudevo un po' gli occhi; accarezzavo

i contorni e i colori tra le ciglia:

e la striscia dei colli si spianava,

tremula, azzurra: a me pareva il mare

e mi piaceva più del mare vero.

 

Milano, 24 aprile 1929

 

(da "Parole", Garzanti, Milano 1998, p. 6)

 

 

 

 

LARGO

 

O lasciate lasciate che io sia

una cosa di nessuno

per queste vecchie strade

in cui la sera affonda –

 

O lasciate lasciate ch'io mi perda

ombra nell'ombra –

gli occhi

due coppe alzate

verso l'ultima luce –

 

E non chiedetemi – non chiedetemi

quello che voglio

e quello che sono

se per me nella folla è il vuoto

e nel vuoto l'arcana folla

dei miei fantasmi –

e non cercate – non cercate

quello ch'io cerco

se l'estremo pallore del cielo

m'illumina la porta di una chiesa

e mi sospinge a entrare –

 

Non domandatemi se prego

e chi prego

e perché prego –

 

Io entro soltanto

per avere un po' di tregua

e una panca e il silenzio

in cui parlino le cose sorelle –

Poi ch'io sono una cosa –

una cosa di nessuno

che va per le vecchie vie del suo mondo –

gli occhi

due coppe alzate

verso l'ultima luce –

 

Milano, 18 ottobre 1930

 

(da "Parole", Garzanti, Milano 1998, pp. 34-35)

 

 

 

 

 

PRESAGIO

 

Esita l'ultima luce

fra le dita congiunte dei pioppi –

l'ombra trema di freddo e d'attesa

dietro di noi

e lenta muove intorno le braccia

per farci più soli –

Cade l'ultima luce

sulle chiome dei tigli –

in cielo le dita dei pioppi

s'inanellano di stelle –

Qualcosa dal cielo discende

verso l'ombra che trema –

qualcosa passa

nella tenebra nostra

come un biancore –

forse qualcosa che ancora

non è –

forse qualcuno che sarà

domani –

forse una creatura

del nostro pianto –

 

Milano, 15 novembre 1930

 

(da "Parole", Garzanti, Milano 1998, p. 37)

 

 

 

 

LA FORNACE

 

Bambina, nelle sere di novembre

poi che sui monti c'era

la guerra

e la legna costava

assai – come il latte, come il pane –

e la nebbia pesava

gelida sulla terra,

la mamma mi portava

– per scaldarci –

alla fornace.

Riflessi di brace

tingevano l'androne nero:

rossa nel fondo

divampava

la cupola del forno.

Dall'alto un vecchio scagliava

fascine e fascine.

Giù i tegoli in cerchio

sembravano una ruota

immota

a cui fosse mozzo la fiamma.

Si arrossava

la creta al centro:

verde era ancora al margine

dove più lento

arrivava il calore.

Si sgranavano in uno stupore

d'incanto – le pupille bambine.

Il vecchio dall'alto scagliava

fascine e fascine –

Si ritornava

per l'androne nero

con un bruciore di vampa negli occhi.

Fuori, un'immensa fontana

nella nebbia lanciava

il suo getto bianco e faceva

rabbrividire –

La casa pareva

lontana,

la strada sembrava non finire

più. Era notte, era novembre,

sui monti c'era

la guerra –

 

16 settembre 1933

 

(da "Parole", Garzanti, Milano 1998, pp. 141-142)

 

 

 

 

 

MORTE DI UNA STAGIONE

 

Piovve tutta la notte

sulle memorie dell'estate.

 

A buio uscimmo

entro un tuonare lugubre di pietre,

fermi sull'argine reggemmo lanterne

a esplorare il pericolo dei ponti.

 

All'alba pallidi vedemmo le rondini

sui fili fradice immote

spiare cenni arcani di partenza –

 

e le specchiavano sulla terra

le fontane dai volti disfatti.

 

Pasturo, 20 settembre 1937

 

(da "Parole", Garzanti, Milano 1998, p. 301)

 

domenica 20 settembre 2020

Poeti dimenticati: Franco Caracci

 Nacque a Patranna nel 1881 e morì a Mazzara del Vallo nel 1960. Lavorò sempre nel settore scolastico, come docente e come direttore didattico. Poeta, prosatore e drammaturgo, collaborò a varie testate locali, tra le quali il Giornale di Sicilia e L'Ora. Le sue raccolte poetiche, distribuite nell'arco temporale di un trentennio, mostrano una marcata vicinanza al crepuscolarismo e al decadentismo; appartenne ad una generazione di poeti siciliani che possedevano un talento raro, e che andrebbe riesaminata in modo più approfondito, poiché, rileggendo le poesie di Caracci e di altri suoi coetanei e corregionali (tra cui spicca il nome di Tito Marrone), ci si accorge di quanto questi poeti fossero partecipi dei nuovi fermenti e delle moderne correnti poetiche che caratterizzarono la letteratura italiana del primissimo Novecento. Se ciò fosse fatto, emergerebbe anche la centralità di questo poeta, decisamente trascurato dalla critica sia a quei tempi che, tanto più, oggi.

 

 

 

 

Opere poetiche

 

"Ritmi nostalgici", Tip. Asaro e Alessi, Patranna 1907.

"Campane a sera...", Sandron, Palermo 1912.

"Cigno gentile", Sandron, Palermo 1918.

"I canti della mia prigionia", Sandron, Palermo 1923.

"I canti di una piccola vita", Sandron, Palermo 1930.

"Lontananze", Priulla, Palermo 1936.

"Canti del crepuscolo", Priulla, Palermo 1938.

 

 


 

 

Presenze in antologie

 

"La poesia italiana di questo secolo", a cura di Pietro Mignosi, Edizioni del Ciclope, Palermo 1929 (pp. 75-76).

 

 

 

 

Testi

 

 

MOTIVO INCOMPLETO

 

Un'ora è trascorsa

mesta e silenziosa...

È stata una piccola corsa

quasi misteriosa...

È stata una breve rincorsa

triste, nel triste passato

che vibra a volte per poco,

un po' forte, un po' roco,

per ritornare nel nulla!

Oh, tu non intendi, fanciulla...

...ritorna il passato

su l'ali del vento

come un'ondina a la riva...

e parla: d'un lungo tormento,

d'un triste lamento,

d'un sogno, d'un canto

e d'una corsa vana

per i viali de la speranza...

e parla d'un suono

di mesta campana

e d'una piccola tela

ne l'ora dei sogni guardata:

e d'una foglia staccata

in un tramonto di fuoco,

in un tramonto di sangue:

e d'una foglia di rosa,

forse dimenticata

nel piccolo libro di seta:

piccola foglia di rosa

da l'ombra e dal tempo corrosa.

 

(da "Campane a sera...", Sandron, Palermo 1912, pp. 15-16)

 

 

 

 

DALLE MEMORIE

 

Noi ci lasciammo...

(Oh come ricordo quel giorno,

quel giorno triste di pianto!)

Eran cadute le foglie:

tutte, tutte le foglie eran cadute...

Era pallido il sole

come viso di bimba malata,

ed eran tristi i tramonti...

Noi li guardammo, ricordi?

colla morte nel cuore,

e muti stavamo: eran fredde

le anime nostre...

(povere anime morte

col morire de le foglie,

col morire dei fiori!)

 

Noi ci lasciammo...

Veniva dai monti un soffio gelido:

sembrava a volte un lamento,

a volte sembrava un accento,

un sussurrare malato

di cose cadute,

di cose perdute.

 

Noi ci lasciammo: per quanto?

per sempre, per sempre...

Fu lungo l'inverno...

più lungo de gli altri

passati d'accanto...

più lungo, più lungo...

Poi vennero i fiori,

poi vennero i lieti tramonti,

e tutto sorrise per gli altri:

ma nulla sorrise per noi!

 

Più nulla?

Perché non sentimmo

più nulla del vecchio passato?

perché non sorrise più nulla

per noi?

 

(da "Campane a sera...", 1911, Sandron, Palermo 1912, pp. 39-40)

 

 

 

 

CASETTA CHIUSA

 

Sorvolando su tutte le distanze,

al mio pensiero greve di mestizia,

s'affaccia, come tomba gentilizia,

una casetta dalle vuote stanze:

 

casetta bianca su la verde altura,

coll'orticello fra muretti bassi,

dove volgevo i miei rapidi passi,

con un sogno nell'anima sicura!

 

Alone triste, alone de la morte,

vuote le stanze, chiuse le porte!

 

(da "Lontananze", Priulla, Palermo 1936, p. 16)

 

domenica 13 settembre 2020

Venezia in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 Pur non avendo mai visitato Venezia - e me ne vergogno - considero la città lagunare tra le più belle, misteriose, e affascinanti del mondo intero. In verità, per affermare ciò, mi è bastato semplicemente vedere centinaia (per non dire migliaia) di immagini che la raffigurano: già queste infatti mi sono sufficienti per capire la grandezza e l'unicità di Venezia. In aggiunta, sono rimasto letteralmente incantato da una serie di capolavori artistici che hanno, al centro dell'attenzione, proprio il capoluogo veneto. Penso che Venezia superi di gran lunga, per fascino e per numero di capolavori, altre città europee che potrebbero assomigliare a lei, come Bruges o Amsterdam. Se dovessi fare una classifica delle città più belle del mondo, non avrei dubbi a inserire Venezia tra le prime dieci (e sicuramente non sarei il solo). A proposito di dieci, passando ora alle dieci poesie dedicate a Venezia che di seguito riporto, devo dire che ho scelto, per rappresentare in versi questa magnifica città, due poeti nati nella stessa, tre che videro la luce all'interno della regione Veneto e i restanti cinque di provenienza varia, ma tutti rigorosamente italiani. Il secolo in cui questi versi nacquero e furono pubblicati è, come al solito direi, il Novecento, per motivi che riguardano una preferenza ed una conoscenza personali; d'altronde so bene che non sono poche le belle poesie dedicate a Venezia, scritte e pubblicate nei secoli che precedono quello che ho scelto. Volendo dire qualche parola a proposito dei testi poetici, aggiungo che c'è chi loda la caratteristica calma delle strade e delle piazze di Venezia; chi la osserva in determinate stagioni (primavera e autunno) che evidenziano in misura maggiore la sua eccezionalità; chi fa riferimento alla sua lunga e gloriosa storia; chi elenca i colori che più colpiscono l'occhio del visitatore; chi è attratto dalle voci e dal dialetto degli abitanti; chi si sofferma a guardare le immancabili e affascinanti gondole che attraversano i canali cittadini... ma un po' tutti rimangono semplicemente estasiati di fronte alla bellezza del luogo, che ha caratteristiche uniche, assenti in qualunque altro posto del mondo. Evviva Venezia.

 

 

 

VENEZIA IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO

 

 

 

CITTÀ UMANA E LIEVE

di Giulio Alessi (Padova 1916 - ivi 1971)

 

Ti sento umana e lieve, città di lenti canali

ai motoscafi blandi, traghetti soavi

e gondole affettuose. Quasi musica nata

dal dolore, aperta alla dolcezza delle case

immerse nelle care acque,

una stanca saggezza è nei sussurri

del popolo scaltro che si mesce

la luce nei bicchieri e sulle rive il pane

bianco raccoglie, amico ai dolci azzurri

della sera, inquieti al cuore e cari

per il bastimento lieto che arriva.

Nella tua ombra stringe un desiderio

di fuga che volteggia nelle vele:

ma poi sui vaporetti bianchi gli uomini

offrono la grazia del dialetto

alla nuvola di fumo che si spande

hanno un cuore che batte ad ogni pena,

città domenicale. Si torna a te

e si resta volentieri come le lampadine

in fila sopra l'acqua invitano al conforto

dell'amore, perché qui la presenza

non è mai solitaria

se a spartire il peso della vita

sono tutti gentili.

 

(da "Le poesie", Mursia, Milano 1986, p. 478)

 

 

 

SETTEMBRE A VENEZIA

di Vincenzo Cardarelli (Corneto Tarquinia 1887 - Roma 1959)

 

Già di settembre imbrunano

a Venezia i crepuscoli precoci

e di gramaglie vestono le pietre.

Dardeggia il sole l'ultimo suo raggio

sugli ori dei mosaici ed accende

fuochi di paglia, effimera bellezza.

E cheta, dietro le Procuratìe,

sorge intanto la luna.

Luci festive ed argentate ridono,

van discorrendo trepide e lontane

nell'aria fredda e bruna.

Io le guardo ammaliato.

Forse più tardi mi ricorderò

di queste grandi sere

che son leste a venire,

e più belle, più vive le lor luci,

che ora un po' mi disperano

(sempre da me così fuori e distanti!)

torneranno a brillare

nella mia fantasia.

E sarà vera e calma

felicità la mia.

 

(da "Opere", Mondadori, Milano 1993, p. 44)

 

 

 

 

TRA I CAVALLI DI SAN MARCO

di Giovanni Chiggiato (Venezia 1876 - ivi 1923)

 

Salgano i sogni nostri con giocondo

impeto in groppa ai magici corsieri:

bronzi memori degli antichi imperi

traeteci a galoppo per il mondo!

 

Piazza San Marco par quasi un profondo

lago di sol: s'annegano i pensieri

Vostri, e i belli occhi pieni di misteri,

in un mare di luce, e il crine biondo.

 

Oggi non un dolor tragico come

ieri e sempre a la Vostra anima incombe!

io Vi guardo poggiata a la colonna.

 

Il sol dà lampi tra le Vostre chiome

e ai vostri piedi volan le colombe:

quanta bellezza in Voi, bionda Madonna!

 

(da "La dolce stagione", Streglio, Torino 1901, p. 57)

 

 

 

 

DIARIO DI VENEZIA

di Beniamino Dal Fabbro (Belluno 1910 - Milano 1989)

 

Era un rosato pesce-luna, ai sogni

di me fanciullo, la sua pianta immersa

in un celeste che di vene tutta

la percorreva. Al Ponte dei Sospiri

inventavo una rissa di pugnali

improvvisi alla luna, tra i discosti

mantelli e il fischio basso del sicario

scampato in barca verso il Brenta, a un legno

con altissime ruote, che dilegua

per la strada di Padova; lo squero

di San Trovaso dava pece e legno

ai miei battelli immaginari, in voga

per isole di frati; nei giardini

ermi della Giudecca una pisana

amavo, una fanciulla-donna... So

ora che tal Venezia era di tutti

una Venezia, non la mia, patita

città che persuade ai suoi canali

con gradini verdastri e in grami odori

marcisce a sera, frantumato corpo

di pietra e muschio; ora ben so il suo volto

d'azzurro e di buio, i marinai tedeschi

che si baciano stretti a una colonna

delle Procuratìe, a un fil di valzer

che dal Lavena sgorga; nel mattino

so i velivoli alti, con la gente

che ìlare li guarda come quando

la regata rapisce i cuori al volo

dei remi scintillanti... e una Pisana

che altera e inerme mi dona in segreto

con le tenui mammelle luminose

il miele di Bisanzio.

 

(da "Gli orologi del Cremlino", Neri Pozza, Venezia 1959, pp. 15-16)

 

 

 

 

PRIMAVERA A VENEZIA

di Manlio Dazzi (Parma 1891 - Padova 1968)

 

La primavera venuta col vento

getta all'aria Venezia. (D'un tratto

una bambina s'è messa a saltare

le ginocchia di rosa scoperte,

la corda segna il grande arco del cielo.)

Le facciate leggiere sghimbesce,

rari tappeti distesi nel sole

da spalancati balconi d'aprile.

(Un che di biondo le sventola al viso.)

Non c'è altro legno che possa fiorire,

ma questi di barche alla riva

sono gonfi d'antica

tenerezza improvvisa di gemme.

(Nell'arco teso affannosa rimbalza

la filastrocca. Col vento

fugge l'ora beata.)

L'acqua, un grido d'azzurro.

 

(da "Stagioni", Mondadori, Milano 1969, p. 92)

 

 

 

 

RIVA DEGLI SCHIAVONI

di Ugo Ghiron (Roma 1876 - ivi 1952)

 

Fruscìo d'invisibile gondola

(o è il lento sciacquare

del mare?)...

Il vasto brusìo della riva

già tacque.

Di lumi trapunta

- distesa di torri e di cupole

che immensa galleggia -

nereggia

nel pallido albore lunare

Venezia sull'acque.

 

Non voce!

Non c'è che il fruscìo

di quella invisibile gondola,

che il fiacco sciacquare

del mare.

Ed ecco sul mare, d'un tratto,

remota,

sperduta, una nota...

Un'altra...

Un canto leggero che s'alza,

sì vago e sommesso

che par della notte

la voce, che lento

oscilla e si culla nel vento.

Oscilla, ecco, e balza

più acuto, d'un tratto, nel cielo.

E tutto

n'è pieno e sussulta

il cielo un istante! Ma già

si copre la voce d'un velo

di lacrime... Piange,

implora, singulta

il canto, più lento, più piano.

Lontano

si frange...

Muor l'ultima nota

nel colpo

(o è il lento fruscìo d'una gondola?)

dell'acqua

che sciacqua.

 

[da "Poesie (1908-1930)", Sandron, Palermo 1932, pp. 45-46]

 

 

 

 

VENEZIA E IL MONDO

di Guido Marta (Venezia 1889 - Treviso 1960)

 

Il mondo è, forse, tutto come questa

Città, co' suoi canali, con le calli

vigilate agli svolti da occhi gialli

di fanali e di gatti alla finestra?

 

Ma forse il mondo è quello, che divide

da noi questo cancello, a cui m'addosso

per raccogliere in me quanto più posso

il gran sogno di verde che m'irride.

 

Ma forse il mondo è bello è grande è vario

con le sue scarrozzate d'allegria,

e non somiglia certo a questa via

tacita, come un vico circondario.

 

Tacita e buia, sì che chi s'affaccia

sopra un ponte, dall'ansia, a um tratto, è colto

di rivolgere al sole un altro volto

e di tendergli il cuore con le braccia.

 

(da "La neve in giardino", Il Giornale dell'Isola Letterario", Catania 1922)

 

 

 

 

VENEZIA

di Aldo Palazzeschi (Firenze 1885 - Roma 1974)

 

Acquamarina cèrula

berillo verde azzurrognolo

crisòlito di color verde

con qualche ombra di giallo

spinello rosso e roseo

malachite lapislazzuli diaspro sanguigno

cornalina giacinto occhio di gatto

eliotropio diamante corallo

opale iridescente

calcedonio appena rosso

balascio rosso carico

onice negra screziata di opalino

corindone sardonica crisopazio

granato molto lucente

ametista topazio smeraldo rubino

turchina zaffìro

e sotto cupole d'oro massiccio

tre festoni di perle

oro oro oro oro...

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 2002, p. 810)

 

 

 

NOTTE VENEZIANA

di Francesco Pastonchi (Riva Ligure 1874 - Torino 1953)

 

Mio desiderio vestito di nero

con una gran gala di seta, chi

ti sciolse in quella folle notte? Schiavi

d'oriente carichi di profumi

per te riapprodavano a San Marco:

per te sfarzo di luminarie in piazza

e gran ricevimento dava il doge

a re e principi di tutta la terra.

Ma tu obliquavi per calli e campielli

misteriosamente fuggitiva,

mio desiderio vestito di nero.

 

(da "Endecasillabi", Mondadori, Milano 1949, p. 76)

 

 

 

 

 

PRIMAVERA DI VENEZIA

di Diego Valeri (Piove di Sacco 1887 - Roma 1976)

 

Senti, sotto la pietra, il soffocato

fremito della terra che formicola

di giovani violenze prigioniere?

Senti il respiro immenso che solleva

i palazzi, le cupole, le altane

più verso il cielo, e in cielo avventa cumuli

di nuvole d'argento, apre ferite

di luce azzurra, viva come sangue?...

O primavera che non puoi fiorire

in petali di pèsco, luccicare

in filo d'erba, bevere nell'aria

per mille bocche il sole e la rugiada,

rovesciarti a torrente per le forre,

cantare con la lunga onda dei fiumi

per la pianura - o primavera schiava;

io non so cosa più soave e bella

di te, che fai tua festa d'un riflesso

blando d'acque e di cieli, d'uno strido

aspro di rondine, d'un rombo errante

di campane, d'un bianco sventolìo

di cenci al sole, d'un fremer di vela

d'oro, nel vento che la gonfia e preme:

o primavera che non puoi dar fiore,

o giovinezza dal sepolto cuore.

 

(da "Poesie vecchie e nuove", Mondadori, Milano 1952, pp. 77-78)

 


Canaletto, "The Entrance to the Grand Canal, Venice"
(da questa pagina web)