lunedì 25 aprile 2022

Due poesie sugli orrori della guerra

 

Nell’occasione del 25 aprile di questo tragico anno, offro, a chi voglia leggerle, due brevi poesie che parlano della 2° Guerra Mondiale. La prima, di Giacomo Prampolini (Milano 1898 – Pisa 1975), mette in evidenza un paesaggio desolato e devastato dalla guerra, in cui si respira un’atmosfera di morte e distruzione, tipica dei luoghi in cui si è verificato un conflitto bellico. La seconda, di Elena Bono (Sonnino 1921 – Lavagna 2014), si sofferma brevemente sulle peggiori atrocità che possono facilmente accadere durante una guerra, che si concretizzano in esecuzioni sommarie, spietate, motivate soltanto da un odio estremo, e incomprensibile per chi è fuori da quel maledetto contesto, dove la ragionevolezza non trova spazio alcuno. Sperando in un futuro migliore di questo presente sempre più preoccupante, auguro a tutti un buon 25 aprile.

 

 

 

DUE POESIE SUGLI ORRORI DELLA GUERRA

 

 

I PONTI…

di Giacomo Prampolini

 

I ponti

distrutti…

rotte le braccia

da riva a riva,

oppressi i greti.

I ponti

colmati -

là sono morte

le onde

che il mare mandava.

Pesanti

passarono

i barbari -

ora sappiamo

che erano ciechi

più della morte.

 

(da "Molte stagioni", Mondadori, Milano 1962, p. 109)

 

 

 

 

RAPPRESAGLIA

di Elena Bono

 

Ci sono dieci morti sulla strada.

Il prete non li può benedire,

le loro madri non li possono lavare.

Stasera in ogni casa si prega per loro,

ogni madre li piange come figli.

 

(da "Poesie. Opera omnia", Le Mani, Recco-Genova 2007, p. 272)

 


Paul Nash, "We are Making a New World"
(da questa pagina web)


sabato 23 aprile 2022

Un solo profumo di rosa

 

Un solo profumo di rosa

in calda atmosfera veloce,

beato di sé, si riposa,

nell’ombra che ha forma di croce.

 

È solo un profumo: è sospiro

di farsi bontà volontaria,

che induce a color di zaffiro

il nimbo di sole dell’aria.

 

La terra solleva dall’ombra,

con braccia d’eterno avvenire,

il duro dolor che la ingombra,

sognando altri cieli fiorire.

 

E ignara ogni vita si sposa,

dall’ombra che ha forma di croce,

a un cielo che odora di rosa,

in calda atmosfera veloce.

 

 


 

COMMENTO

 

La poesia senza titolo che ho trascritto qui sopra, è la numero 82 della raccolta di Arturo Onofri (Roma 1885 – ivi 1928) intitolata Terrestrità del sole; pubblicata nel 1927 presso l’editore Vallecchi di Firenze, rappresenta una definitiva svolta nel percorso poetico dello scrittore romano. Ad essa seguiranno altre, assai simili raccolte – alcune delle quali uscite quando Onofri era già scomparso – che presentano, come particolarità principale, la scelta esclusiva di una poesia filosofica, molto legata alle teorie di Rudolf Steiner (1861-1925), il quale sosteneva che nel continuo trasformarsi dell’universo e della natura terrestre, si manifesta la presenza di Dio. La poesia riportata, si trova alla pagina 137 del suddetto libro, che ora è possibile leggere, insieme alla successiva raccolta Vincere il drago! (1928), in una edizione anastatica, pubblicata nel 1998 da La Finestra Editrice di Trento. Il contenuto mostra diverse simbologie; in primo piano ci sono la rosa (ovvero l’amore), che qui non si percepisce visivamente, ma in modo olfattivo, e la croce (ossia il dolore e, nello stesso tempo, la cristianità); anche quest’ultima non è direttamente visibile, ma la sua presenza è evidenziata dall’ombra che copre la rosa (o meglio, il suo profumo). Amore e dolore cristiano, divengono pura energia, spinta a fare del bene; grazie alla potenza di questa unione, anche il disco luminoso del sole si trasforma, divenendo simile ad un zaffiro (minerale di colore azzurro), e, quindi, confondendosi col cielo. Nella terza quartina della poesia, la terra prende vita, e solleva dall’ombra (della croce) il dolore duro e pesante che la occupa, rendendolo quindi più sopportabile; infine, la terra stessa, divenuta anche essere pensante, s'immagina (sogna) l’esistenza di altri cieli, fioriti in un non ben identificato luogo, in cui, proprio grazie alla forza dell’amore cristiano, non esiste alcun genere di dolore. Non facile risulta l’interpretazione dell’ultima quartina, in cui il poeta sembra vedere una unione inconsapevole ma sicura, tra gli esseri viventi della terra ed il cielo (ovvero l’ultraterreno) che ha assorbito e fatto suo il profumo della rosa (ossia l’amore e la bontà), e che si sostanzia in uno slancio verso il bene universale.

venerdì 15 aprile 2022

La Via Crucis in 10 poesie di 10 poeti italiani

 La “Via Crucis” è rappresentata dalle quattordici stazioni (croci di legno a cui si associano opere artistiche a tema), raffiguranti i momenti salienti della “Passione di Cristo”. Questo rito religioso si svolge la sera del Venerdì santo. Nelle 10 poesie che ho trascritto di seguito a questo preambolo, oltre alla dolorosa fase ultima della vita di Gesù, si parla, spesso tramite simboli, anche di un percorso dominato da una sofferenza particolarmente acuta, riguardante l’umanità intera o, più semplicemente, un individuo soltanto (che può essere il poeta stesso o una persona a lui vicina). Ho escluso dalla selezione due belle poesie – di Umberto Bellintani e David Maria Turoldo – solamente perché le avevo già incluse in altri post pubblicati già diversi anni or sono. Forse è superfluo aggiungere che quest’anno, la vera Via Crucis, è qualcosa di particolarmente toccante ed è, nello stesso tempo, estremamente significativa, poiché sappiamo tutti molto bene il difficilissimo momento della storia che l’umanità intera sta vivendo, e forse vivrà ancora per lungo tempo.

 

 

LA VIA CRUCIS IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI

 

 

VIA CRUCIS

di Franco Berardelli (1908-1932)

 

Lagrime e sangue da la faccia accesa

cadono a stille sulla veste bianca.

Lungo è il cammino e già la forza manca,

ché sulle spalle il rozzo legno pesa.

 

Ogni più lieve sosta Gli è contesa:

e a poco a poco la persona stanca

s'incurva e cede, né una man l'affranca

dal pondo, o la sorregge nell'ascesa.

 

Gemon le donne e piangono sommesse,

in cuore e in volto tristi addolorate,

procedono con Lui verso la Croce.

 

«Non su me, non su me, ma su voi stesse

sopra i nati vostri, lacrimate!»

Sale dolente la divina voce.

 

(da "Antologia della poesia cattolica italiana del Novecento", UPSIC, Roma 1959, p. 351) 

 

 

 


VIA CRUCIS

di Vittorio Emanuele Bravetta (1889-1965)

 

La via della Croce

non è finita

sul monte Calvario.

La Croce, come una lancia

divelta da mano feroce,

ha ripreso il cammino, è partita

per un viaggio che dura

da secoli e secoli, e va

senza mai sosta, errante

di terra in terra,

di guerra in guerra:

la Croce, eterna viandante.

A volte si degna

di farsi portare

da un cireneo volontario,

eroe, martire, santo,

o anche soltanto

da un povero cristo,

e va, nuda, tetra,

a cercare in abissi

d'orrore, altre vittime umane

che il martello inchioda, la spugna

attosca, la lancia squarcia

tra gli scherni dell'aguzzino.

Poi getta via i crocefissi

e riprende, nuda, il cammino.

 

(da "Il sole dorme", Rebellato, Cittadella Veneta 1962, p. 36)

 

 

 

 

L'INCONTRO CON LA MADRE

STAZIONE QUARTA

di Giovanni Cristini (1925-1995)

 

Egli ti chiese un giorno

d'entrare in noi, nel nero fiume del mondo.

E con pazienza attese che fiorisse

il bianco giglio alle tue pure soglie,

e gli angioli tremavano, e tu pure tremavi

su poca paglia, il grembo aperto al mistero.

 

La notte era il tuo grembo, il curvo cielo.

 

Il canto che chiudeva

le due remote rive

era di pace agli uomini, ma il prezzo

scorreva già nelle tue calde lacrime.

Grave fu il tuo consenso.

Egli violò il tuo grembo,

divenne albero pietra sangue fuoco,

fiorì d'amore le oscure radici.

 

La nostra lebbra intanto

già s'attaccava all'orlo

della sua rossa veste. E non la scosse

per amore di te, sua dolce Madre.

Quello era il prezzo

del tuo anteriore riscatto

e del nostro che dura e che vacilla.

Egli l'assunse, e non curava gli angioli

che si velavano il volto

e il cielo fatto oscuro oltre le nubi.

 

Ora l'incontri, e se gli allarghi le braccia

stringi sul cuore un lebbroso, acuta spada.

Tutto fu già scontato

in quell'istante in cui chinasti il capo,

e un divino consenso

come un soffio spirò dalle tue labbra.

 

E il Signore discese in mezzo a noi,

nel nero fiume del mondo.

 

(da "Poesia religiosa italiana", Edizioni Piemme, Casale Monferrato 1994, p. 768)

 

 

 

 

SOTTO LA CROCE

di Silvio Cucinotta (1873-1928)

 

Egli non trema al rombo del destino?

Ride l'idea. Con serena faccia

a la sua croce libero s'allaccia

e va sereno per il suo cammino.

 

E coglie, andando, fremiti e lamenti,

urli di fame e gemiti di morte:

la sua parola su le folle insorte

scende secura con pacati accenti.

 

Ma più nera d'intorno la procella

stride del male: da le aperte gole

una folla di livide parole

copre di fango l'opera novella.

 

Un bagliore sanguigno intanto rade

l'estremo dubitar dell'orizzonte:

allor, fremendo, al suol piega la fronte

e stanco sotto la sua croce cade...

 

(da "Brume", Trinchera, Messina 1913, p. 13)

 

 

 

 

LA VIA DEL CALVARIO

di Saverio Fino (1874-1937)

 

Figliolo di Gesù, prendi la croce,

e portala al Calvario. Una feroce

turba l'opprime. Ei cade e sorge e cade

e sorge e cade disfatto. L'invade

lo scoramento: l'anima gli manca,

cosa, ah!, più trista del corpo che sfianca.

Intorno abbuia l'universo e tutto.

Maria, lo vedi di tua carne il frutto?

Giovanni, vedi la tua Madre? Gli occhi

guardano aridi; tremano i ginocchi.

Con Te, Gesù, nel fango la mia stolta

umanità morde la terra; ascolta

i suoi gemiti! Hai rotta la persona,

ma io piango e ancora Tu, Gesù, perdona.

Ecco, è il Calvario: è l'ultima agonia;

pendi ai chiovi, Gesù, l'anima mia!

 

(da "Elevazione e altri versi", Società Editrice Internazionale, Torino 1923, pp. 30-31)

 

 

 

 

VIA CRUCIS

di Luigi Grilli (1858-1931)

 

Sta la solinga vetta,

Che arride al viandante,

Alta nella raggiante

Gloria del sole eretta.

 

Ei tra gli sterpi affretta,

Acceso il volto, ansante,

Ma il piede riluttante

A terra, ecco, lo getta.

 

E il sognatore in alto

Guarda, sospira e tace,

Vinto nell'arduo assalto:

 

Vinto non già fiaccato;

Ché pel suo cor pugnace

È la battaglia fato.

 

(da «Natura ed Arte», dicembre 1899)

 

 

 

 

MOMENTI DELLA PASSIONE (III)

di Margherita Guidacci (1921-1992)

 

Senza bellezza né vigore. L'arbusto secco, piegato

dal vento del deserto, che lo ricopre di sabbia grigia.

L'animale condotto al macello,

il corpo una rigida angoscia, lo sguardo un muto tremito.

Noi lo vorremmo lontano, lo abbiamo respinto dal nostro mondo!

Non sopportiamo la sua vista né il suo ricordo.

Perché dunque ci perseguita sempre, perché torna a balenarci davanti

come una spada che ferisce ed illumina?

Perché ci appartiene più di quanto noi stessi ci apparteniamo?

Chiudiamo invano gli occhi: anche il buio più nero,

come il candido panno della Veronica,

fa soltanto da sfondo al volto doloroso

del Figlio dell'Uomo.

 

(da "Le poesie", Le Lettere, Firenze 1999, p. 327)

 

 

 

 

VIA CRUCIS

di Angiolo Orvieto (1869-1967)

 

Su su per l'erta del dolore umano

vanno schiere infinite di viventi,

lente movendo sempre innanzi, invano,

per l'aer bigio, tra' vapor dolenti.

 

Decine di milioni, a mano a mano,

passano i vivi pallidi e silenti;

il volto e la persona d'un arcano

duolo ha l'impronta ed ha gli atteggiamenti.

 

E vanno e vanno e vanno senza tregua

verso la mèta oscura della morte,

che chiude nel mister la cupa strada.

 

E mentre che un esercito dilegua,

erompe un altro fuor da ignote porte,

e dietro a lui convien che a morte vada.

 

(da "Poesie scelte", Olschki, Firenze 1979, p. 46)

 

 

 

 

LA VIA CRUCIS...

di Michele Pierri (1899-1988)

 

     La via crucis che con tanta spontaneità e contribuzione riesco a seguire è quella della tua vita stazione per stazione, che la memoria di continuo mi mostra nella sua conosciuta realtà. E questo m'induce a pensare che tu sei stata la presenza umana di Dio a me più vicina anche negli altri atti dell'esistenza, col tuo evangelo domestico dalle nozze di Cana in poi. Voglia Gesù concedermi l'ultimo evento, la sua resurrezione da te rappresentata a illuminare la mia pochezza di cieco.

 

(da "E ti chiamo - libera verità", La Finestra, Trento 2002, p. 219)

 

 

 

 

LA VIA CRUCIS

di Maria Luisa Spaziani (1922-2014)

 

La bronchite stanotte mi trasforma

in una quercia carica di neve.

Crocifissa alla terra con radici

di debolezza e brividi,

sento i rami che grevi si curvano

sotto il peso di mille cristalli.

 

Conobbi un giorno un ragazzetto, molto

più malato di me.

Respirava a fatica, ed un veliero

insabbiato pareva nel suo letto,

ma il pensiero in alto era il rigogolo

sulla cima dell’olmo fulminato.

 

Questa notte lo penso, io che so bene

che presto guarirò.

E simile mi sento a quel fedele

che vidi a Bruges nel suo manto di lontra.

Guardava una via Crucis e si sforzava

d’immaginare il fiele e ogni tormento.

 

E forse oscuramente anche sentiva

che non soltanto il Cristo delle icone

il passo sterminato delle tenebre

lo varca in nostro nome.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 2012, p. 101)



Duccio da Buoninsegna, "Le stazioni della Via Crucis"
(da questa pagina web)


domenica 10 aprile 2022

I poveri in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 

 Posso affermare di non aver mai vissuto in povertà, pur non essendo, praticamente da quando son nato, un benestante o un ricco. I miei familiari, però, sia nel periodo precedente la 2° Guerra Mondiale, sia in quello immediatamente successivo, hanno trascorso dei periodi più o meno lunghi in condizioni di indigenza; lo so per certo, perché me ne parlavano spesso, raccomandandosi a me, affinché non dimenticassi la precarietà in cui la stragrande maggioranza della popolazione mondiale vive, e tenessi sempre a mente la possibilità - mai scomparsa - di diventare povero. Non ci sono dubbi sul fatto che la povertà esista ancora, anche in Italia - paese che tutto sommato può ritenersi abbastanza ricco, rispetto a tanti altri -; ed eventi drammatici o tragici, come le pandemie e le guerre, possono moltiplicare in modo abnorme il numero dei poveri nel mondo. Gli autori di queste poesie che ho trascritto, sono, ancora una volta, poeti italiani del Novecento; protagonisti di tutti i versi sono i poveri: visti con occhi diversi e raccontati in modi a volte commoventi, a volte realistici e a volte quasi spietati. Spesso si parla di bambini; altre volte di anziani e di donne… ma i poveri, qualunque età essi abbiano, dovrebbero essere tutti aiutati da una società che si ritenga civile, poiché in qualunque comunità o nazione fondata su valori imprescindibili, quali sono eguaglianza e solidarietà, la povertà non dovrebbe mai avere luogo. 

 

 

 

I POVERI IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO

 

 

 

AL LETTO DEL POVERO

di Lina Barberis (?-?)

 

Vieni, hai finito

di soffrire. Son io

son quello che fu povero e tradito

e crocefisso: il tuo fratello e Dio.

 

Tu lo sapevi che sarei venuto

incontro a te;

che avresti avuto

la corona e la porpora di re.

 

Te lo avevo promesso.

La festa m'ascoltavi,

umile, in chiesa presso

la porta: andare avanti non osavi.

 

Ed eri il più vicino e caro a me.

Per te solo parlavo: «O povertà

spera perché

la tua ora verrà».

 

Eccola: chiudi gli occhi: pel banchetto

ecco le vesti:

sei leggero, sei netto

di tutto ciò che vivo non avesti.

 

(da «L'Eroica», dicembre 1938)

 

 

 

 

I POVERI

di Luigi Bartolini (1892-1963)

 

I poveri

sono quelli

che lasciano

l'uscio cigoli;

o la botola

della latrina

senza manico,

se s'è rotto.

Alzano allora,

con mano

tremante

il piatto

sepolcrale

e versano

il pitale!

 

(da "Poesie 1911-1963", Rebellato, Cittadella 1964, p. 235)

 

 

 

 

ALLEGREZZA DEI POVERI A TEGOLETO

di Carlo Betocchi (1899-1986)

 

                                  Tegoleto è un borgo in Val di Chiana,

                                  sulla strada da Arezzo a Siena.   

 

Bella Italia che serri la palma

e nel mezzo ti fai la Chiana

quando guardo nell'aria lontana

veggo il dolce paese mio.

     Tegoleto non sei gentile

     giallo e tozzo è il tuo campanile.

 

Sono andato per farmi soldato,

son partito per lavorare,

ma mi struggo di ritornare

verso il dolce paese mio.

     Mi staresti in un palmo di mano,

     Tegoleto che stai nel pantano.

 

Là, dall'armi, dalle Maremme,

son tornato, mi vedi, mi senti:

mi conforti di fame e stenti

ma sei il dolce paese mio.

     Quando vien quell'annottare

     ecco il povero a zufolare.

 

Passerotto che stai nel solco

non lo vedi che il giorno va via?

alla stalla converge il bifolco,

il bracciante pei campi s'avvia:

     vanne pure sull'olmo agghindato,

     che il Signore ti ha preparato.

 

Ora è il mondo una bruna noce

dentro il cielo che onora e brilla:

per la strada va rara voce,

sopra i tetti va rara favilla.

     Tra le case di Tegoleto

     c'è un sussurro calmo e discreto.

 

Siamo stracchi, fatti, affamati,

lavorato s’è tutto il giorno;

presso il pozzo si sta incantati

in attesa di qualche ritorno:

     tornano Beco, e Meo e la Rosa

     e la Rita che presto si sposa.

 

Pipistrello la nottola chiama,

dicono insieme - voliamo, è notte:

canta l’upupa che upupo ama

taccion nel solco le talpe e le botte.

     Nera è la notte, nera e piena

     mamma la terra fa nera la schiena.

 

Noi si ragiona di pane e lavoro;

quando si fece quell'affossata;

quando si fece, per l'Alberoro,

scasso di bosco e la nuova piantata.

     Crudo era il masso, ginestre e sole,

     dolce è la vita a chi bene le vuole.

 

Pura è la luna, non è fidanzata,

che campa in mezzo del cielo sola:

di tra le case tutt'ombra ha levata,

scende tra i poveri quella Signora:

     Di tra gli olivi balzò, lontani

     ed ora illumina il monte e i piani.

 

Poi senti un trepido bisbigliare,

gente si muove nel chiaro di luna:

serrano gli usci, e le voci rare

vanno spegnendosi ad una ad una.

     O pipistrello, tra il tetto e la strada,

     vola balzano, nessuno ti bada.

 

Questa canzone che un povero ha fatta

vuol ritornare laggiù dov'è nata;

mare non cura, né selva, né fratta,

ricchi paesi o città adornata;

     ma a Tegoleto con l'ala ansiosa

     vola diritta, e si quieta, e posa.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1984, pp. 46-49)

 

 

 

 

POVERI

di Paolo Buzzi (1874-1956)

 

Tre poveri,

e sono vecchi e sono in cenci

e l'inverno morde rabbioso,

guardano un cielo nero che promette la neve.

Han tutti e tre la febbre:

i lor denti battono in tempo co' lor cuori.

 

Appoggiano le schiene curve sfinite

al muro d'un Teatro che sfolgora di luci.

Dalle carrozze scendon le dame coi piedi di fata:

le pellicce han fruscii di bestie vive nei boschi.

Entran nel luogo d'oro.

Vampa d'estate dalla porta

che subito si chiude.

- Che ci starà qui dentro ? -

Mai non videro vivere i fatti e i canti degli uomini

nella cornice d'un Teatro. Vengono di lontano:

non seppero che scene di nevi e di mari e di vulcani:

e le musiche pazze dell'anima e del cielo;

e ne goderono. Oggi hanno solo fame...

E guardan le pagnotte di sterco che sbucan fumanti

dal forno dei cavalli quasi con ghiotto amore.

Girano i cocchi intorno, spavaldi i cocchieri scintillano

dalle tube nerissime dove la notte accesa si specchia.

Una corda di frusta,

roteando,

ha toccati i tre visi d'un colpo.

 

Sorridono, que' vecchi.

La frusta allegra toccò senza far male.

Poi, nulla non potendo dividere, dividono, per ore,

i fiati ancora caldi

sulle mani tremanti, l'un dell'altro, a vicenda,

guardando la neve che appresta

il bel tappeto bianco 

alle carrozze del ritorno. Oh rulleranno lunge,

senza scosse e rumori, piene di dame in sonno

e l'odore di fiori!  

 

Quegli, andran per le vie,

le vie solitarie, senza cani,

a far l'orme sull'orme, l'orme con le dita.

 

(da "Aeroplani", Edizioni di «Poesia», Milano 1909, pp. 161-162)

 

 

 

 

POVERI

di Alfonso Gatto (1909-1976)

 

I poveri hanno il freddo della terra.

Nella città spiovente, ai tetti, al fumo

tranquillo delle case, il giorno migra

nel colore d'oriente: così calma la sera

agli occhi mesti si fa lume.

Io li ricordo contro un cielo d'aria,

i poveri stupiti, come l'agro

verde dei prati sfiora nella pioggia

una velata eternità di sole.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 2005, p. 91)

 

 

 

 

LA MADRE POVERA

di Margherita Guidacci (1921-1992)

 

È più grave il tuo peso sul mio cuore

Che nel mio grembo, quando penso

A quello che ti attende.

 

Ben poco noi possiamo offrirti.

Duro è il nostro lavoro

E mal retribuito.

Tuo padre come un uccello migratore

Esplora invano questa e quella sponda

Né trova luogo dove fare il nido.

C'erano tanti grembi ricchi ed avidi,

Mi chiedo perché tu abbia scelto il mio,

Ma è inutile indagare.

                      Ad un malcerto

Benvenuto, nel vento di tempesta,

Per te preparo un pallido sorriso.

 

(da "Le poesie", Le Lettere, Firenze 1999, pp. 141-142)

 

 

 

 

 

IL FUOCO DEI POVERI

di Renzo Pezzani (1898-1951)

 

- Poverina, che mani rosse.

Chi ti manda per fuscelli?

La tua mamma? - Così fosse.

Sono sola con tre fratelli.

 

- Oltre il prato, oltre i sentieri,

io so un posto che di legne

se ne trova a mucchi interi.

- Ma il camino mi si spegne.

 

A me basta questo poco

per tenere allegro il fuoco.

 

- E domani, come farai?

- Se il Signor pensa agli uccelli,

può scordare i miei fratelli?

Passeranno i carbonai

 

e una legna pur cadrà

dalla groppa dei giumenti.

Siamo quattro in povertà

ma del poco siam contenti.

 

Non ci vuole molta brace

per scaldar la nostra pace.

 

(da "Il fuoco dei poveri", Società Editrice "La Scuola", Brescia 1939, pp. 22-23)

 

 

 

 

IL BIMBO POVERO

di Salvatore Quasimodo (1901-1968)

 

Triste una casa senza bimbi;

ma come più triste un bimbo senza casa.

 

Tutte le sere, quando gli ubriachi,

come stracci invertiti dalla pioggia

pare s'appendino ai muri

e ragionano di cose molto gravi,

un colpo di tosse, timido,

quasi che fosse qualcosa che gli altri

non amino udire,

gela nel buio del vicolo:

«forse sarà tisico quel bimbo».

 

Non lo conosco; ma, certo, l'ho incontrato

su tutte le strade, e pure tu l'hai visto

e hai pianto pensandoti sua madre,

pallida prostituta

camminatrice di dolore.

 

- Dormi? - Non posso dormire;

ma non mi lagno

se il sonno non ama la mia carne,

anche se questo m'è dato di pregare.

 

È uno sempre il bimbo vagabondo

che non trova nessuno che prenda la sua mano;

è sempre Dio che cammina invano

dinnanzi agli occhi àtoni del mondo.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1995, p. 404)

 

 

 

 

IL GIARDINO DEI POVERI

di Rocco Scotellaro (1923-1953)

 

È cresciuto il basilico

nel giardino dei poveri:

hanno rubata l’aria alle finestre

su due tavole hanno seminato.

 

Verranno i passeri,

verranno le mosche,

nel giardino dei poveri.

 

Ora quando non sai che fare

prendi la brocca in mano,

io ti vedrò cresciuta tra le rose

del giardino dei poveri.


(Potenza, 21 ottobre 1948)

 

(da "Tutte le poesie 1940-1953", Mondadori, Milano 2004, pp. 10-11)

 

 

 

 

 

LA PREGHIERA DEI POVERI

di Giovanni Titta Rosa (pseud. di Giovanni Battista Rosa, 1891-1972)

 

Il sole si posa sulle glicine affacciate ai muri e sulle acque dei canali

  e le strade brillano di scaglie di perle e d'oro.

Seduti accanto alle porte delle chiese i poveri aspettano la venuta della sera

  in silenzio, col volto intento, come se vegliassero un tesoro.

 

Ma qualcuno volge la faccia verso il sole, disteso onda rosea sulla strada,

  e le palpebre gli battono quasi carezzate da una tenera mano.

È questa l'ora in cui si porta il pane in bocca, e si raccolgon le briciole cadute sulle ginocchia,

  l'ora in cui preme e duole la passione d'un ricordo lontano.

 

«Stavi sulla scala di casa e avevi sul collo avvolto un fazzoletto fiammante,

  diritta, e il sole acceso ti rideva sulla bocca;

la tua faccia era tutta un caldo riso aperto come un frutto sugoso,

  perché una gioia non creduta t'è scoppiata nel cuore e trabocca.

 

T'incontrai alla fonte che già qualche stella luceva nel fresco dell'aria celeste

  e ti scostasti dal muro, abbassando gli occhi, vergognosa:

io non seppi fermarmi, ché mi parve, a un tratto di barcollare e cadere

  e pure dal monte l'avevo portata per te quella rosa.

 

Ora il passato è un muro nero e io sono un sasso rotolato di via in via senza riposo

  e non chiamo più nessuno e aspetto in pace la morte.

Mi domina il tempo e la pioggia mi bagna e la sua polvere in bocca m'avventa la strada

  e sono stanco di chiedere e chiedere a tutte le porte.

 

Oh Signore, che hai nelle chiese di questa terra tua bella tante e tante campane,

  fanne rintoccare una per me d'una chiesetta inadorna;

mi chiama mi chiama - io dirò, e mi stringerò a un angolo di via per morire

  e piangerò e sarò felice come una pecorella smarrita che torna».

 

(da «Il Convegno», gennaio 1928)



"Migrant mother (foto di Dorothea Lange)
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