domenica 28 maggio 2023

Le strade in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 

Strade vuote, attraversate nelle mattine estive sotto il sole battente o sotto un forte acquazzone. Strade lunghe e larghe, da percorrere lentamente, rilassati e senza fatica. Strade alberate, ombreggiate, che invogliano il viandante ad addentrarsi, a esplorare il tragitto che contengono. Strade strette e buie, percorse per lavoro, che non hanno alcuna attrattiva, che trasmettono un senso di soffocamento. Strade piene di buche, rattoppate, sgretolate, deteriorate: le povere strade della mia povera città. Strade sterrate, che d'estate vanno attraversate adagio, per non far polvere. Strade di campagna, in cui domina la Natura, che ti aprono l'anima, ti riconciliano col mondo. Strade bagnate, infangate, che inducono a rallentare, a fare molta attenzione. Strade belle, pulite, dei quartieri alti, attorniate da ville e villini, da giardini e parchi.

Strada che mi vede transitare oggi, in un giorno di fine agosto, con la solita malinconia nel cuore, con la solita voglia di arrivare alla solita, agognata mèta chiamata "Casa".

 

 

 

STRADA BIANCA

di Ettore Botteghi (1874-1900)

 

Va lo stradale candido fin dove

s'alza il monte gigante di verzura;

gracidano le rane a la frescura:

una frescura dai platani piove.

 

Due rondini saettano. Che lieve

gorgoglio d'acque e che cantilenare:

cantan curve su voi le lavandare,

o freschissime gore della Pieve!

 

O lavandare robuste nell'anche,

ci vuol marito, cantate e cantate!

Sentite, a' campi c'è le serenate:

son degli sposi e non sono mai stanche.

 

Dice la serenata: Su le gore

c'è le fanciulle che vogliono amare.

Gorgoglia l'acqua ed il cantilenare

levan alto le belle ebre d'amore.

 

Ascoltano le rane saltellanti

pesantemente su la mota e: - Ggrà, -

si tuffano, - ranocchi, o che si fa?

caliamo a fondo ché cantan gli amanti! -

 

(da "Poesie", Tip. A. Valenti, Pisa 1902, p. 23)

 

 

 

 

LA STRADA

di Alberto Cavaliere (1897-1967)

 

Bella è la strada ed ha per me sussurri

d'amore inesprimibili: la notte,

canta al mio cuore strane piedigrotte

di nenie lente e di silenzi azzurri.

 

Strade delle città, diritte, storte,

- città dell'uomo, che in mattoni e pietre

irrigidì il suo sogno e nelle tetre

case si chiuse a meditar la morte -

 

siete il mio mondo: questi strani visi,

li riconosco tutti, ad uno ad uno,

pieni di vita o smunti di digiuno,

con dentro gli occhi lacrime o sorrisi;

 

umanità che passa e che si strugge

e si rinnova e va: verso qual mèta,

non lo sa il savio, non lo sa il poeta:

in cerca di qualcosa che le sfugge...

 

Va, nell'albe perlate, al suo lavoro,

alla sua pena, stanca e rassegnata,

va verso la sua fragile giornata;

va, gaia e svelta, nei meriggi d'oro;

 

va, nelle sere che trascinan lente

verso l'occaso l'offuscata luce,

nel sogno che l'avvince e la conduce,

nel sogno della vita, eternamente...

 

Bella è la strada; e in cuor sento la grande

nostalgia dell'Eterno, quando giro

lungo il suo nastro lucido e sospiro

stelle nel cielo e donne alle verande.

 

È il mio unico mondo: è l'infinita

gioia del sempre nuovo; e, pur ch'io vada,

trovo il mio cuor di bimbo, nella strada

trovo l'infanzia eterna della vita.

 

[da "Poesie scelte (1918-1928)", Mecenate, Milano 1948, pp. 156-157]

 

 

 

 

STRADA

di Primo Conti (1900-1988)

 

e passo anch’io fra tanti,

solo con me nella strada di tutti,

forse l’unico a quest’ora

ricercatore d’armonie sottili

 

(da “L’incauta vetta 1915-1985”, Scheiwiller, Milano 1986, p. 7)

 

 

 

 

LA STRADA DIETRO IL CAMPO

di Nino Crimi (1929-1997)

 

Il tuo timore

che troppo a lungo i baci,

come il viale col grano...

che notte si facesse percorrendo

tutta la strada,

la sorpresa alla fine

che il sole fosse ancora

sopra l'ultimo filo;

la sera dopo, il grido

di gioia nel vedere

ch'era puntuale a noi:

«È un gomito - dicesti -

la strada dietro il campo

e in mezzo è buia».

E sorpreso risposi:

«La luce è uguale!»

Perché non replicasti?

 

(da "Poesie", Effegieffe Arti Grafiche, Messina 2010, p. 110)

 

 

 

 

STRADINA, IL TUO PENSIERO È LUCIDO...

di Claudio Damiani (1957)

 

Stradina, il tuo pensiero è lucido, la tua bellezza è nuova,

la tua età è senza fine, esistevi

già prima d’essere concepita.

La tua grazia somiglia una fanciulla

che si rivolta e si tira su, con le mani, i capelli.

Tu scendi e sali e non ti riposi mai

ma ecco a volte, tutt’ad un tratto, ti addormenti:

le tue ciglia sono socchiuse, le tue labbra appena schiuse,

sui sassi bianchi riposi e è tutto immobile intorno,

gli uccellini abbassano la loro voce,

gli alberi stanno immobili muti;

tu respiri piano e dei sogni dorati

entrano lentamente nella tua mente

con moti pieni di una speranza nuova.

 

(da "La miniera", Fazi Editore, Roma 1997, p. 46)

 

 

 

 

STRADA D'ARGENTO

di Giacomo Falco (1901-1959)

 

Gelidi vanno ai loro traguardi invisibili

Lucenti canali diritti su strade d'un sogno recente.

Il cielo che le acque specchiano è grigio di vaganti nuvole,

Nessuna primavera su quel cielo apparirà.

Forse, tragici e lenti come gli angeli nei sogni dei morituri,

Appariranno su le acque i cigni alteri.

Io affido gli stanchi pensieri a questo fluire d'argento,

La giovinezza consunta io senza rimpianto consegno

Alle acque che vanno, inscrutabili, verso mete che non so.

 

(da «Quaderni di poesia», 7 aprile 1931)

 

 

 

 

LA STRADA

di Gentucca (pseud. Di Gilda Cian, 1894-1968)

 

Vedo una strada lunga

nel buio, tra due campi,

un po' più chiara dei due campi neri,

ma confusa nell'ombra;

e non so dove vada

la strada che si perde

nella notte profonda ove sommersi

sono i colli ed il piano.

Pesante un carro passa,

con rotolar di ruote,

laggiù, scuro nel buio,

partito da remote

altre vie, sul calar forse del sole;

ma sotto il carro oscilla

un piccolo fanale

acceso che rischiara

un po' di rosso, dove

passa, la lunga strada.

E vorrei camminare

sopra la strada lunga,

fin dove giunga, dove

ignoro, per seguire il carro greve

con la piccola luce

rossastra, o per non stare

ferma, soltanto. Camminare. Cade

scivolando una stella

silenziosa per la volta bruna

del cielo: un segno di fortuna. Andare

sopra una lunga strada,

nell'ombra; e la mia vita

altro non è che questo camminare,

per non star ferma, od anche per seguire

una piccola luce che rischiara,

dove passa, la via.

 

(da "Contemplazioni", Sandron, Palermo 1930, pp. 86-87)

 

 

 

 

STRADA DI COLLINA

di Renzo Modesti (1920-1993)

 

Una strada fuori mano, in collina,

tra due mura. A tratti un tralcio

sconfina, un ramo di fico, le ombre

esigue dell'estate. Ferma nel ricordo

come quel gatto nero, quel cipresso

alto, schietto. Oh se non era un gioco

salire a te, ansante, sudato per le corse

di una svagata libertà malandrina.

Ora il gioco difficile s'è fatto

guardingo e della strada fuori mano,

in collina, resta la paretina

di Rosai.

 

(da "Romanzo", Novarco, Milano 1968, p. 59)

 

 

 

 

VEDI DA UN’ALTRA STRADA…

di Michele Ranchetti (1925-2008)

 

Vedi da un’altra strada: fra te

E il paesaggio distante scorre il prato.

Il filare di viti aggiunge

Una riga, due righe: di fronte

La casa di campagna: accanto

Chi ti nutriva: ora

Per tutto il lungo arco dei campi

La parola che non ha più terra:

che tu sei vinto

sopra quel colle, sopra

la strada che vi porta

ucciso da ogni balza, distrutto

per ogni segno

della natura che guardi.

 

(da “La mente musicale”, Garzanti, Milano 1988, pp. 102-103)

 

 

 

 

C’É UNA STRADA CHE VA VERSO IL TRAMONTO

di Carlo Ravasio (1897-1979)

 

C’è una strada che va verso il tramonto;

c’è, fra le nubi fosche, un lago chiaro;

il sole nuota entro quel lago chiaro;

sposta, nel cielo, lunghe onde il tramonto.

 

C’è, su due colli, qualche pino raro;

un vecchio inverno li vestì di neve;

bianca, la neve, d’un silenzio raro.

 

Anche la strada è tutta pura neve;

c’è solo un passo, qua e là, ma raro;

un sogno, forse, che, di tra la neve,

 

passò diretto ai laghi del tramonto.

 

(da “Poesie”, Bramante Editrice, Milano 1966, p. 95)

 


Steele Theodore Clement, "Meridian Street Thawing Weather"
(da questa pagina web)


 

domenica 21 maggio 2023

Riviste: "Solaria"

 

Solaria è il titolo di una rivista letteraria italiana che fu pubblicata a Firenze, presso l’editore Parenti, tra il 1926 ed il 1934. I promotori di Solaria furono Alberto Carocci, Raffaello Franchi, Eugenio Montale e Bonaventura Tecchi; Carocci diresse Solaria dal primo numero (gennaio 1926) all’ultimo (maggio 1934); insieme a lui, si alternarono due condirettori: Giansiro Ferrata e Alessandro Bonsanti. La rivista fiorentina incorse in una denuncia della censura fascista, a causa di alcuni scritti di Enrico Terracini e Elio Vittorini, che furono pubblicati negli ultimi numeri, ovvero poco prima che Solaria chiudesse definitivamente i battenti. Negli otto anni della sua vita, la rivista potè contare sempre su collaborazioni prestigiose; per ciò che riguarda la poesia, su Solaria pubblicarono dei versi Umberto Saba, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Angelo Barile, Adriano Grande, Sandro Penna, Corrado Pavolini e tanti altri ottimi poeti. Ecco, per concludere, tre belle poesie che uscirono per la prima volta proprio sulle pagine di Solaria.

 

 


 

 

VITANOVA

di Adriano Grande

 

Lola, soavità che non par vera

in poca forma umana imprigionata

dentro mi sei come cosa sognata,

nella mente mi crei la primavera.

O meraviglia d'aprilini albori

sorgenti in me! A un tratto i miei pensieri

han messo gemme: or, contro il grigio ieri,

stan come rami carichi di fiori.

Lola, soave fonte di freschezza,

madonna di terrestri paradisi,

la mia anima si offre ai tuoi sorrisi

vestita in questo modo di gaiezza.

E in quante vede intorno dolci e chiare

apparenze del mondo si diffonde

col tuo ricordo: s'alza sulle sponde

verdi, si china a specchiarsi nel mare.

Sapor di pesca morsa dei tuoi baci!

Stormire nel mio cuore d'esultanza

se chiudo gli occhi e dalla lontananza

a me t'induco e alle mie voglie audaci!

Maggio verrà com'è venuto Aprile,

Lola: e il futuro veste la tua forma.

Se tanto il ricordarti mi trasforma

sarà tutto il mio vivere gentile.

 

   Aprile 1926

 

(da «Solaria», luglio/agosto 1926)

 

 

 

 

ROSARIO DEI NOSTRI MORTI

di Angelo Barile

 

Madre, oscilla la sera

sul tuo capo che piega al vecchio letto,

nostra cuna e sudario,

e si fa riva di misericordia.

Alita e vi si frange il violetto

fiato dei nostri Morti.

 

Ad ogni grano che scorri del rosario

pàlpebra a te davanti

un della zitta gente che fa ressa

ai tuoi ginocchi.

I più pallidi guardan con distanti

occhi gli ignoti che son sopraggiunti

ancora tinti della vena stessa

che irrorò le paterne primavere.

 

Ma tu madre, che preghi,

tutti li ricongiungi in questo lume

ch'è tra la loro notte e la tua sera.

E sin che il capo pieghi,

ultima a loro il capo che già trema,

respirano vicine

le bocche delle tue generazioni.

 

Riconduci i fuggiaschi ai nostri altari

dentro l'arco di uno sguardo tranquillo.

Cerchi i più derelitti a cui l'oblio

i tratti rari ha liso.

 

Tu dissìpi la nuvola, li schiari,

trovi un segno, il sigillo

del sangue nel più scancellato viso;

un'ombra caduca, e tu la rilevi.

 

In te da lontananze

volti affiorano in pace

che il fragore del sangue concitava.

Il fiume rosso e grave

estua per questa foce

alle celesti calme.

volti allevia il tuo ave,

il sussurro è rugiada

pallida di una ritornante alba,

nel lago del tuo cuore

forse specchiano i loro occhi fanciulli,

vi trova ognuno quella luce sola

che un dì fermò colorata l'amore

nel tuo cristallo.

 

Ben questo, se tu preghi,

senz'ombre di perdono

già nei termini umani è paradiso.

Piano vi assumi la tua cara gente.

Son questi, a cui la rechi

per rive d'anima, gli ultimi e lievi

prati del ricuperato sorriso

senza parola.

 

Stelle

cogli per questa corona dei Morti

tu sui margini delle eterne nevi.

 

(da «Solaria», novembre 1930)

 

 

 

 

ALBERO MALNATO

di Salvatore Quasimodo

 

Era beata stanotte la tua voce

a me discesa per nova innocenza

nel tempo che patisco un nascimento

d'accorate letizie.

 

Tremavi bianca,

le braccia sollevate,

 

e io giacevo in te

con la mia vita nùbila

in poco sangue raccolta;

 

diruto il canto

che già m'ha fatto estrema,

con la donna che mi tolse in disparte,

 

la mia tristezza

d'albero malnato.


(da «Solaria», novembre 1931)