domenica 30 ottobre 2022

Le partenze nella poesia italiana decadente e simbolista

 

Nei versi dei poeti decadenti e simbolisti, si possono identificare diverse tipologie di partenze. La partenza che comporta l'allontanamento definitivo dalla persona amata, dovuta quasi sempre alla fine di una relazione intensa; la partenza da un'abitazione, che sostanzialmente è uno sgombero, e che spesso comprende una descrizione anche particolareggiata di ciò che rimane nelle stanze abbandonate (tali oggetti divengono simboli collegati alla perdita); la partenza obbligata, per motivi che a volte sono dovuti ad un'esigenza personale urgente; la partenza immotivata, che si verifica in seguito ad un istinto, oppure a dei semplicissimi e all'apparenza insignificanti avvenimenti. Ma nell'elenco di poesie sottostante ci sono ancora altre tipologie di partenze, meno frequenti; tra di esse spiccano quelle in cui i personaggi che abbandonano determinati luoghi non hanno alcuna attinenza con la realtà, ma assurgono a veri e propri simboli.

 

 

Poesie sull’argomento

 

Mario Adobati: "La partenza nel mattino" e "Sgombero" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).

Vittoria Aganoor: "Io me ne andrò nella notte" in "Nuove liriche" (1908).

Gustavo Botta: "Partenza" in "Alcuni scritti" (1952).

Paolo Buzzi: "La partenza" in "Poema dei Quarant'anni" (1922).

Enrico Cavacchioli: "Partenza" in "Le ranocchie turchine" (1909).

Sergio Corazzini: "La liberazione" in "Libro per la sera della domenica" (1906).

Giuliano Donati Pétteni: "Partenze" in "Intimità" (1926).

Francesco Gaeta: "Sgombero" in "Poesie d'amore" (1920).

Giulio Gianelli: "Salpando" in "Tutti li angioli piangeranno" (1903).

Cosimo Giorgieri Contri: "Partenza" in «Nuova Antologia», giugno 1908.

Enzo Marcellusi: "Dunque è tutto finito? Già finito?" in "Il giardino dei supplizi" (1909).

Fausto Maria Martini: "Clausura" e "Vigilia di partenza" in "Poesie provinciali" (1910).

Marino Moretti: "Andiamo via!" e "La domenica delle valigie" in "Poesie scritte col lapis" (1910).

Francesco Pastonchi: "Partenze" in "I versetti" (1930).

Giovanni Tecchio: "L'addio" e "La triste sera" in "Mysterium" (1894).

Alessandro Varaldo: "La goletta s'allontana" in "Marine liguri" (1898).

Giuseppe Villaroel: "Partire" in "La tavolozza e l'oboe" (1918).

Remigio Zena: "Parla la Sfinge" in "In yatch da Genova a Costantinopoli" (1887).

 

 

 

Testi

 

SALPANDO

di Giulio Gianelli

 

Esuleremo, sì; senza evocare

le illusioni che abbiam qui nutrito

ci affideremo come bimbi al mare.

Oh questo lido fosse già sparito!

 

Via le lusinghe, non vogliamo restare:

il bene che facemmo hanno punito,

l'anima nostra non può più sognare

tanto è delusa; qui tutto è finito!

 

E non andiamo alla terra promessa,

anzi chissà se troveremo un nido...

(credilo, per pietà, cielo natio!)

 

Come restare se la patria stessa

c'irrideva ogni lacrima, ogni grido?

Tornerem, forse, ...ma per ora, addio!

 

(da "Tutti li angioli piangeranno", 1903)

 

 

 

 

LA DOMENICA DELLE VALIGE

di Marino Moretti

 

Voglio cantare tutte l'ore grigie

in questa solitudine pensosa

mentre raduno ogni mia vecchia cosa

PER riempir le mie vecchie valigie.

 

Oh le valigie! Le compagne buone

dei poveri viaggi in terza classe,

vecchie, sfiancate, fatte con qualche asse

sottile, con la tela, col cartone!

 

Le camicie van qui da questa parte,

qua pei colletti cerco di far posto,

là le cravatte e qui, quasi nascosto,

un manoscritto, e ancora libri e carte...

 

Ecco il pacchetto della mamma! Odora

vagamente di cacio e di salame...

Già, s'io m'avessi, nel viaggio, fame...

E questo libro... E un altro, un altro ancora...

 

Dio com'è triste questo insaccamento

di cose troppo note e troppo care,

che passando un lontano limitare

saran meschine come foglie al vento!

 

Io non so il nome del paese dove

debbo esser fra quattr'ore, fra cinque ore;

ma so, non so se il mio povero cuore

ancor, fra tanta nostalgia, si muove!...

 

Dove vado? Non so. Ma mi sovviene

d'averla pur desiderata questa

partenza: come, il frugolo, la festa

che col serraglio e con la giostra viene...

 

Ma i miei lupini che pareano d'oro

son nelle mani mie bucce soltanto,

e le valige che mi stanno accanto

contengono un bel povero tesoro!

 

Tutto è perduto; ed a me par ch'io debba

vivere senza scopo, allo sbaraglio,

e a tratti con l'inutile bagaglio

partir per i paesi della nebbia...

 

(da "Poesie scritte col lapis", 1910)



Edvard Munch, "Seated on a suitcase"
(da questa pagina web)


domenica 23 ottobre 2022

La poesia di Giovanni Pascoli

 

Se qualcuno mi chiedesse il nome di un poeta che – più di ogni altro – ha rappresentato qualcosa di veramente importante nella mia vita, e che mi ha accompagnato, con i suoi versi indimenticabili, praticamente per tutto il mio percorso formativo ed esistenziale, non esiterei a dire che tale poeta è Giovanni Pascoli. Di lui rammento ancora a memoria, frammenti di poesie che studiai già sui banchi della scuola elementare; di Pascoli furono i primi libri che comperai quando, in gioventù, dentro di me si accese la passione per la poesia. È pur vero che la mia attenzione si è sempre rivolta ad alcune, specifiche raccolte del poeta emiliano, che possono essere riassunte in quattro volumi: Myricae, Poemetti, Canti di Castelvecchio e Poesie varie; in essi, sono presenti pressoché tutti quei versi che mi hanno fatto amare intensamente l’arte della poesia (prima di conoscere i poeti crepuscolari, i miei poeti preferiti erano senz’altro Pascoli e Leopardi).

Il fascino della poesia pascoliana risiede in gran parte nella superba descrizione di luoghi, figure ed eventi apparentemente insignificanti; luoghi della campagna dove il poeta trascorse la sua esistenza; figure spesso dimesse, semplici e a volte sofferenti, viste con gli occhi di chi sa comprendere appieno le umane debolezze e sa riconoscere la bontà disarmante dei tanti, umili esseri umani destinati ad una vita di stenti e di difficoltà; infine gli eventi, quasi sempre religiosi, di un’Italia che certamente non esiste più: umile e forse ingenua, ancora estremamente legata a tradizionali riti che scandivano i giorni dell’anno, e che rendevano la vita meno dura. Ma a far grandi le poesie di Pascoli può bastare ancora di meno: il verso di un uccello, un temporale imprevisto, il suono delle campane che giunge all’improvviso e desta sensazioni particolarissime, un fievole e piacevole canto di donna, un aquilone che vola nel cielo azzurro... La poesia di Pascoli è lontana da quella del Carducci, così come dalla poesia di D’Annunzio; molto si rifà, invece, alla poesia popolare. Fu, principalmente, grazie a Giovanni Pascoli, se la lirica italiana del XX secolo trovò un terreno fertile e solido, che diede i suoi primi frutti già agli albori, con i crepuscolari (tutti ebbero, come riferimento imprescindibile, proprio il poeta di Castelvecchio) e con altri poeti che lo considerarono sempre un maestro insostituibile.

Chiudo con la trascrizione di tre poesie-capolavoro di Giovanni Pascoli – provenienti dal volume della foto che le precede - che possono essere considerate di diritto tra le migliori della intera storia della poesia mondiale.

 

 

Piatto anteriore del volume: Giovanni Pascoli, Poesie, Garzanti, Milano 1992

 

 

X AGOSTO

 

San Lorenzo, io lo so perché tanto

 di stelle per l’aria tranquilla

arde e cade, perché sì gran pianto

 nel concavo cielo sfavilla.

 

Ritornava una rondine al tetto:

 l’uccisero: cadde tra spini:

ella aveva nel becco un insetto:

 la cena de’ suoi rondinini.

 

Ora è là come in croce, che tende

 quel verme a quel cielo lontano;

e il suo nido è nell’ombra, che attende,

 che pigola sempre più piano.

 

Anche un uomo tornava al suo nido:

 l’uccisero: disse: Perdono;

e restò negli aperti occhi un grido

 portava due bambole in dono...

 

Ora là, nella casa romita,

 lo aspettano, aspettano in vano:

egli immobile, attonito, addita

 le bambole al cielo lontano.

 

E tu, Cielo, dall’alto dei mondi

 sereni, infinito, immortale,

Oh! d’un pianto di stelle lo inondi

 quest’atomo opaco del Male!

 

(da Poesie, Garzanti, Milano 1992, pp. 93-94) 

 


 

 

L'AQUILONE

 

C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole,

anzi d'antico: io vivo altrove, e sento

che sono intorno nate le viole.

 

Son nate nella selva del convento

dei cappuccini, tra le morte foglie

che al ceppo delle quercie agita il vento.

 

Si respira una dolce aria che scioglie

le dure zolle, e visita le chiese

di campagna, ch'erbose hanno le soglie:

 

un'aria d'altro luogo e d'altro mese

e d'altra vita: un'aria celestina

che regga molte bianche ali sospese...

 

sì, gli aquiloni! È questa una mattina

che non c'è scuola. Siamo usciti a schiera

tra le siepi di rovo e d'albaspina.

 

Le siepi erano brulle, irte; ma c'era

d'autunno ancora qualche mazzo rosso

di bacche, e qualche fior di primavera

 

bianco; e sui rami nudi il pettirosso

saltava, e la lucertola il capino

mostrava tra le foglie aspre del fosso.

 

Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino

ventoso: ognuno manda da una balza

la sua cometa per il ciel turchino.

 

Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,

risale, prende il vento; ecco pian piano

tra un lungo dei fanciulli urlo s'inalza.

 

S'inalza; e ruba il filo dalla mano,

come un fiore che fugga su lo stelo

esile, e vada a rifiorir lontano.

 

S'inalza; e i piedi trepidi e l'anelo

petto del bimbo e l'avida pupilla

e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.

 

Più su, più su: già come un punto brilla

lassù lassù... Ma ecco una ventata

di sbieco, ecco uno strillo alto... - Chi strilla?

 

Sono le voci della camerata

mia: le conosco tutte all'improvviso,

una dolce, una acuta, una velata...

 

A uno a uno tutti vi ravviso,

o miei compagni! e te, sì, che abbandoni

su l'omero il pallor muto del viso.

 

Sì: dissi sopra te l'orazïoni,

e piansi: eppur, felice te che al vento

non vedesti cader che gli aquiloni!

 

Tu eri tutto bianco, io mi rammento.

solo avevi del rosso nei ginocchi,

per quel nostro pregar sul pavimento.

 

Oh! te felice che chiudesti gli occhi

persuaso, stringendoti sul cuore

il più caro dei tuoi cari balocchi!

 

Oh! dolcemente, so ben io, si muore

la sua stringendo fanciullezza al petto,

come i candidi suoi pètali un fiore

 

ancora in boccia! O morto giovinetto,

anch'io presto verrò sotto le zolle

là dove dormi placido e soletto...

 

Meglio venirci ansante, roseo, molle

di sudor, come dopo una gioconda

corsa di gara per salire un colle!

 

Meglio venirci con la testa bionda,

che poi che fredda giacque sul guanciale,

ti pettinò co' bei capelli a onda

 

tua madre... adagio, per non farti male.

 

(da Poesie, Garzanti, Milano 1992, pp. 269-272)

 

 

 

 

LA MIA SERA

 

Il giorno fu pieno di lampi;

ma ora verranno le stelle,

le tacite stelle. Nei campi

c'è un breve gre gre di ranelle.

Le tremule foglie dei pioppi

trascorre una gioia leggiera.

Nel giorno, che lampi! che scoppi!

        Che pace, la sera!

 

Si devono aprire le stelle

nel cielo sì tenero e vivo.

Là, presso le allegre ranelle,

singhiozza monotono un rivo.

Di tutto quel cupo tumulto,

di tutta quell'aspra bufera,

non resta che un dolce singulto

        nell'umida sera.

 

È, quella infinita tempesta,

finita in un rivo canoro.

Dei fulmini fragili restano

cirri di porpora e d'oro.

O stanco dolore, riposa!

La nube nel giorno più nera

fu quella che vedo più rosa

        nell'ultima sera.

 

Che voli di rondini intorno!

che gridi nell'aria serena!

La fame del povero giorno

prolunga la garrula cena.

La parte, sì piccola, i nidi

nel giorno non l'ebbero intera.

Né io... e che voli, che gridi,

        mia limpida sera!

 

Don... Don... E mi dicono, Dormi!

mi cantano, Dormi! sussurrano,

Dormi! bisbigliano, Dormi!

là, voci di tenebra azzurra...

Mi sembrano canti di culla,

che fanno ch'io torni com'era...

sentivo mia madre... poi nulla...

        sul far della sera.

 

(da Poesie, Garzanti, Milano 1992, pp. 536-537)

 

 

domenica 16 ottobre 2022

Antologie: "Ci sono fiori che fioriscono al buio"

 

Esistono una serie di piccole antologie che furono pubblicate nell'ultimo decennio del Novecento, in cui si propone una selezione decisamente sintetica e anche discutibile, della migliore poesia italiana rientrante nei decenni che chiusero il secolo XX; rientra in tale ambito: Ci sono fiori che fioriscono al buio, di cui voglio brevemente parlare in questo post.

Il titolo del libro è una citazione di un verso con cui inizia una bella poesia di Fernando Bandini; più esplicito è il sottotitolo dello stesso: Antologia della poesia italiana dagli anni Settanta ad oggi; è sottinteso che il riferimento temporale dichiarato, rientra all'incirca nell'ultimo trentennio del Novecento (anche se l'opera antologica fu pubblicata nel 1997, e quindi restano esclusi gli ultimi due anni). I curatori della selezione e della parte saggistica sono tre: Simone Caltabellota, Francesco Peloso e Stefano Petrocchi; l'editore è Frassinelli. Per meglio comprendere l'intento e le aspettative di quest'antologia, ritengo utile riportare il frammento presente nel piatto posteriore del libro:

 

Poesia come sogno, come intuito, come desiderio. Ma anche poesia come ragione, come racconto, come viaggio nel nostro tempo. A partire da una ricerca che mira a illuminare l'intreccio fra le due diverse strade, nasce la presente antologia, il cui primo intento è quello di riavvicinare il lettore - ogni lettore - alla poesia. Attraverso una scelta tra i migliori testi poetici degli ultimi venticinque anni, essa dà testimonianza della varietà e della fecondità delle proposte, lasciando spazio ai maestri così come ai giovani, alle figure ben conosciute come alle voci che finora pochi hanno udito ma che meritano di trovare ascolto.

 

Dopo la presentazione e una breve nota dei curatori, ha inizio la parte prettamente antologica, che si compone di tre sezioni ben distinte: Gli anni Settanta; Gli anni Ottanta; Gli anni Novanta. Ogni sezione è preceduta da un'introduzione che spiega e commenta l'evolversi storico e letterario del decennio preso in considerazione. Chiudono il volume, un'Appendice che contiene le notizie sui poeti selezionati, la bibliografia dei testi antologizzati, una postfazione e altre notizie riguardanti i curatori dell'antologia.

Ciò che lascia un po' perplessi, è la scelta dei poeti, inseriti nelle sezioni stesse: tanto per cominciare, ne Gli anni Settanta, c'è un gruppo folto di poeti assai diversi tra di loro, per età e per peculiarità poetiche; si susseguono, senza un ordine ben preciso, i cosiddetti "maestri" come Montale, Penna, Giudici e Porta, con altre figure che magari si rivelarono proprio durante quel decennio, ma che hanno ben poco a che vedere con i poeti più anziani. La seconda e la terza sezione proseguono in tal senso, e sorprende trovare altri grandi poeti del Novecento, come Fortini e Risi, nell'ultima sezione, ovvero in quella che conclude il secolo, e che, forse, avrebbe dovuto includere soltanto le generazioni più giovani. Al di là di considerazioni del tutto personali, questo volume ha il merito di inserire parecchie note esplicative riguardanti i poeti presenti e le poesie selezionate; inoltre, sebbene si presentino un po' alla rinfusa, qui vengono inserite quasi tutte le personalità poetiche più importanti dell'ultimo trentennio della nostra poesia novecentesca; trovano spazio anche alcuni poeti dialettali.

Chiudo, come al solito, riportando i nomi di tutti i poeti presenti in Ci sono fiori che fioriscono al buio.

 

 


CI SONO FIORI CHE FIORISCONO AL BUIO

ANTOLOGIA DELLA POESIA ITALIANA DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI

 

Gli anni Settanta

Sandro Penna, Dario Bellezza, Giovanni Giudici, Eugenio Montale, Albino Pierro, Amelia Rosselli, Patrizia Cavalli, Franco Loi, Tonino Guerra, Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Gino Scartaghiande, Valentino Zeichen, Antonio Porta.

 

Gli anni Ottanta

Valerio Magrelli, Vittorio Sereni, Giorgio Caproni, Attilio Bertolucci, Primo Levi, Andrea Zanzotto, Mario Luzi, Giovanni Raboni, Beppe Salvia.

 

Gli anni Novanta

Antonella Anedda, Claudio Damiani, Edoardo Albinati, Nelo Risi, Franco Fortini, Fernando Bandini, Alessandro Ceni, Ottiero Ottieri, Biancamaria Frabotta, Elio Pagliarani, Alda Merini.

domenica 9 ottobre 2022

Gli alberi in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 

Nelle dieci poesie che ho selezionato e pubblicato in questo post, quasi sempre non si parla di alberi specifici; i poeti qui, evidentemente, non attribuiscono eccessiva importanza al tipo di albero che vogliono porre in evidenza; d’altronde, quante volte io, come chissà quante altre persone, ho visitato un bosco, un viale alberato o un parco, rimanendo sorpreso dalla bellezza che quei luoghi possedevano, grazie alla cospicua presenza di alberi – qualunque essi fossero – che li abbellivano in modo ineguagliabile, rendendoli, a volte, unici (veri e propri paradisi in terra). Ma l’importanza degli alberi – lo sappiamo tutti – non risiede soltanto nella loro bellezza, ma in altre qualità, forse ben più importanti; gli alberi infatti, sono determinanti nel combattere il riscaldamento climatico, perché assorbono l’anidride carbonica; così facendo, rendono l’aria più pulita, poiché alcuni elementi fortemente inquinanti vengono da loro incamerati. E cosa dire, poi, dei frutti che tanti di essi producono, e che noi troviamo tutti i giorni nei negozi di frutta e verdura o nei supermercati? Si potrebbe continuare, ma ora voglio dire due parole sulle poesie dedicategli.

Ciò che spicca, nei versi qui presenti, è il riferimento alla solitudine dell’albero; spesso, infatti, i poeti vengono colpiti da questo aspetto che è proprio di certe piante legnose, a volte situate in luoghi impervi; chi li descrive, probabilmente si sente simile a tali alberi, e ci parla, oppure li ascolta parlare. In altri versi, l’albero è talmente simile all’uomo, che si confonde con esso, e assume i medesimi comportamenti. C’è, poi, chi rimane particolarmente colpito e affranto dalla “morte” di un albero, poiché esso rappresentava qualcosa di estremamente importante per intere popolazioni del passato, che lo consideravano alla stessa stregua di una vera e propria divinità. Troppi alberi scompaiono ogni anno a causa degli uomini, e sono troppo pochi quelli che ogni anno nascono; superfluo aggiungere che, in un futuro non molto lontano, pagheremo a caro prezzo la scarsa presenza di alberi sul nostro pianeta, causata dallo sciagurato comportamento di pochi, meschini esseri umani.

 

 

GLI ALBERI IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO

 

 

ALBERO SOLO

di Angelo Barile (1888-1967)

 

Eri l’albero solo,

l’alito verde

sul piombo fuso della mia piana:

a un filo di conforto

aprivi l’afa.

 

Nel tuo circolo d’ombra

Sono entrato leggero

Quasi nel gioco della fontana.

 

Mio rifugio solingo

di un’ora,

la tenerezza della tua chioma

m’è piovuta d’intorno, mi ha chiuso

come sotto una verde campana.

 

(da “Poesie”, Scheiwiller, Milano 1986, p. 158)

 

 

 

 

ALBERO SOLITARIO

di Arnaldo Calori (1892-1950)

 

All'ombra tua mi rifugio, albero,

e ascolto e, nel silenzio,

sento che vivi.

Sento filtrare

nel terreno all'intorno,

dove insinui le mille radici,

l'umor che ti nutre

e te che suggi e respiri,

naufrago in un mare di sole.

Felice creatura

che al tacere del vento riposi

e d'inverno dormi il tuo sonno:

il languore d'autunno ti è vespro,

alba la primavera.

 

(da «Quadrivio», 26 agosto 1934)

 

 

 

 

LA MORTE DELL'ALBERO

di Sergio Corazzini (1886-1907)

 

Era il tronco possente al suolo avvinto

con radici fortissime, che grave

dolce ombra copria, come un recinto

sacro a Mercurio, delle genti prave

 

Dio consigliere... Un dì venne per nave

un uomo audace che nel labirinto

della foresta si cacciò con schiave

genti che forse in guerra aveva vinto.

 

Vide l’albero e ne ordinò la morte...

Lampeggiaron le accette nelle mani

dei lavoranti per un giorno intero.

 

E a sera nel silenzio triste e nero,

lacerato da mille solchi immani

scrosciò a terra il colosso immenso e forte.

 

(da «Marforio», 26 febbraio 1903)

 

 

 

 

CHE FARÒ PER TE, ALBERO MIO?

di Libero De Libero (1906-1981)

 

Che farò per te, albero mio?

Delle stagioni alla siepe

futile pianta ti vidi e soave

nel rumore del vento e con te

misurato crescevo al tronco

che m'afflisse per molti inverni.

Al primo fiore il cielo si finse

azzurro e i frutti assaporò l'estate.

Non io te offesi, ma settembre

che a sé basta e gli altri non bada

e tanto a me ti fa nemico.

 

(da "Romanzo", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1965, p. 84) 

 

 

 


ALBERO

di Emilio Girardini (1858-1946)

 

Alberi ce n'è tanti e verdi e folti

ben più di questo pensile ne l'aria

sul ciglio di una roccia solitaria:

alberi, non lontano, ce n'è molti.

 

Ma questo abbandonato - un vero paria

tra i suoi fratelli - ha in sé tutti raccolti

i miei pensier, gli affetti miei sepolti

sovra cui stende un'ombra funeraria.

 

E che abitasse in lui credo una strega

chi sa in qual tempo, poi che, quando è sordo

il vento, a bisbigliarmi egli si piega

 

strane novelle che poi tosto scordo.

 

(da "Poesie scelte", Arti Grafiche Friulane, Udine 1938, p. 54)

 

 

 

 

ALBERO

di Carlo Levi (1902-1975)

 

Non scambiare la scorza con il legno,

natura con impegno,

la dolce mozartiana aria amorosa

con il dolore che sotto riposa.

 

                                              12 febbraio 1946

 

(da “Poesie”, Donzelli, Roma 2008, p. 183)

 

 

 

 

L'ALBERO E LA PRIMAVERA

di Giuseppe Lipparini (1877-1951)

 

Vedi quell'esile tronco che trema sul dorso del colle?

Qui nella valle è freddo, è buio: ci opprime Scirocco

umido, greve; le cose son piene di fango e di nebbia;

grondano i rami di brina, i muri hanno odore di muffa.

 

Pure, lassù, non la vedi? là dietro quell'albero solo,

s'apre una striscia di cielo; e l'albero gracile oscilla

verso il turchino, perché lontano lontano ha veduto

lungo le prode dei fiumi sovraggiungere la primavera.

 

(da "Le foglie dell'alloro", Zanichelli, Milano 1916, p. 426)

 

 

 

 

ALBERO

di Salvatore Quasimodo (1901-1968)

 

Da te un'ombra si scioglie

che par morta la mia

se pure al moto oscilla

o rompe fresca acqua azzurrina

in riva all'Ànapo, a cui torno stasera

che mi spinse marzo lunare

già d'erbe ricco e d'ali.

 

Non solo d'ombra vivo,

ché terra e sole e dolce dono d'acqua

t'ha fatto nuova ogni fronda,

mentr'io mi piego e secco

e sul mio viso tocco la tua scorza.


(da "Poesie", Newton Compton, Roma 1992, p. 29)

 

 

 

ALBERO VECCHIO

di Fernanda Romagnoli (1916-1986)

 

Fitto tremore insidiava il suo braccio

nella manica scura,

la stretta delle dita intorno al calice

non impediva al vino di oscillare.

(Ah, come antico olivo che si spacca,

- la frattura del ramo

- la segreta secchezza delle vene).

Proseguimmo i discorsi, fingevamo

di non vedere.

Ma in sé l'albero vecchio riceveva

l'alito muto delle nostre pene:

e grigie foglioline nei suoi occhi

- intrepide -

si rialzarono a stormire

tutte le primavere possedute.

 

(da "Il tredicesimo invitato e altre poesie", Milano 2003, p. 87)

 

 

 

 

L'ALBERO ADDORMENTATO

di Giuseppe Tròccoli (1901-1962)

 

Stanco e negletto, l'albero d'olivo

Lascia che i rami suoi cedano al poggio

L'antica forza che non torna più.

Capre, qua e laà, selvatiche rodendo

Vanno ai cespugli, indifferenti e sorde

Se da la strada il carrettiere passa

E guarda a valle ove la sera scende.

C'è la cicala sola tra le fronde

Che sempre canta e non dispera mai:

 

E c'è il saluto dell'Avemaria.

Il vecchio olivo s'addormenta e sogna.

 

(da "L'ombra che ne la mente passa", Vallecchi, Firenze 1947, p. 106)

 

 

Michelle MacNeill, "Landscape with Figure and Tree"
(da questa pagina web)