giovedì 12 ottobre 2023

Da "Ottobre a Venezia" di Diego Valeri

 Nella 1° edizione del volume Poesie vecchie e nuove (Mondadori, Milano 1932), il poeta Diego Valeri (Piove di Sacco, 25 gennaio 1887 – Roma, 27 novembre 1976), nella sezione intitolata Secondo Tempo (1920-1930) inserì sei liriche divise da un semplice asterisco, che portano il titolo complessivo di Ottobre a Venezia; tali poesie descrivono determinati punti della città lagunare in precisi periodi del giorno; sembrano brevi impressioni o a volte scatti fotografici, che si concentrano su degli aspetti assai affascinanti che ha Venezia in autunno, e in particolare durante il mese di ottobre. Tra le sei, io ho scelto di trascrivere la prima, tenendo in considerazione però, una successiva edizione del volume citato, di venti anni dopo. Queste tre quartine delineano Venezia come fosse un essere vivente; in una giornata nebbiosa d'inizio autunno, dove ovunque si guardi prevalgono le sfumature di grigio, si respira un'aria stanca, languida, quasi soffocante, dovuta alla presenza dello scirocco: vento caldo e fastidioso proveniente da sud-est. Venezia, in questo contesto stagionale, sembra una figura femminile esausta, senza forza alcuna, che ha soltanto voglia di dormire; e quando un raggio di sole riesce a penetrare chissà come la fitta nebbia, battendo insistentemente sul volto della città, essa ha l'identico atteggiamento che si riscontra in una gatta che sta dormendo, appena infastidita da un rumore o da una luce intensa: socchiude appena i suoi occhi, scruta nei pressi donde venga quel piccolo disturbo, e poi li richiude lentamente.






Da "OTTOBRE A VENEZIA"


Questi grigi di perla, e grigirosa,

e grigiverdi, in cui l'acqua ed il cielo

sembran vanire, come dietro un velo

d'eguale lontananza favolosa...


Giunge dal mare il fiato sonnolento

dello scirocco. Stancamente dondola

presso la riva l'ombra d'una gondola.

L'onda ha un singulto soffocato dentro.


Venezia giace languida e disfatta.

E se un raggio di sol, rompendo il folto

delle nebbie, le palpita sul volto,

socchiude appena i gialli occhi di gatta.

(da: Diego Valeri, "Poesie vecchie e nuove", Mondadori, Milano 1952, p. 104)

I gattini: qualche considerazione e una poesia di Claudio Damiani

 Come sono belli i cuccioli dei gatti! Non credo che vi siano, al mondo, animaletti della stessa età così deliziosi. Io ne ebbi soltanto uno, in tenera età, ben quaranta anni or sono; eppure lo ricordo ancora abbastanza bene: la sua illimitata voglia di giocare, il miagolio tenue e stridulo che emetteva, gli occhi di un azzurro intenso che mi guardavano curiosi... Altri gattini vidi chissà quante volte, in giro, per le strade della mia città; l'ultimo mi è successo di vederlo ieri sera: se ne stava lì, accucciato dietro una rete metallica che delimitava il giardino di una casa, timoroso, coi suoi piccoli occhi sempre pronti a scrutare un pericolo... Non c'era la mamma, che comunque non penso fosse lontana. Ecco, infine, una bella poesia che vede protagonista un gattino, scritta da Claudio Damiani. 



Il piccolo gattino, oh quanto è caro!

Lo bacio e bacio, lo stringo vicino

tanto, lo tengo, lo guardo star muto

sopra il ghiaino. I suoi moti veloci

quasi non so seguire, a ogni mio gioco

risponde. E intanto altri mille pensieri

veloci lo colpiscono: e gli studi

delle cose che vede (i fiori gli alberi

la macchina gl'insetti) o il bombo stupido

e nuovo d'una moto e le altre cose

della strada, i rumori. Io penso (mentre

lo guardo scuotersi dalla paura

del bombo): forse già impari che queste

non sono cose che devi temere

(infatti non son cani che ti vogliono

mangiare o mostri o che ne so) ma cose

che devi sopportare, e abituartici...


(da "La miniera", Fazi Editore, Roma 1997, p. 20)

mercoledì 11 ottobre 2023

Un frammento poetico di Riccardo Bacchelli

 La prolifica produzione letteraria di Riccardo Bacchelli (Bologna, 19 aprile 1891 – Monza, 8 ottobre 1985), ha fatto sì che venisse trascurata la parte poetica, che in effetti non è quantitativamente paragonabile ad altri generi cui lo scrittore bolognese si dedicò più assiduamente. Eppure anch'essa ha un valore non trascurabile, soprattutto se si va ad analizzare la sua raccolta d'esordio: Poemi lirici (1914). Questo fu anche il primo libro in assoluto pubblicato da Bacchelli, che si dimostrò fortemente innovativo nel comporre versi i quali, almeno nel periodo in cui videro la luce, non possono essere comparati con altri. Se c'è un poeta da cui forse Bacchelli attinse, almeno per quel che concerne lo stile e la metrica, questi è l'americano Walt Withman (1819-1892); somiglianze parziali si riscontrano anche con i versi di Poema dell'adolescenza (1901) del piemontese Enrico Thovez (1869-1925); meno azzeccate, a mio avviso, sono le affermazioni di alcuni critici che trovano diverse analogie con la poesia del più o meno coetaneo Piero Jahier (1884-1966). Difficile comprendere il motivo per cui Bacchelli, quando ottantenne decise di radunare in tre volumi la sua intera opera in versi, ripudiò i Poemi lirici.

Da un volume: Memorie del tempo presente (Rizzoli, Milano 1953), che invece include i Poemi lirici e che voleva essere il primo tassello di una "Opera omnia" che, a quanto ne so, non fu mai portata a termine dallo scrittore emiliano, ho trascritto la prima parte della prima poesia inserita nella sezione intitolata Paesaggi. (la seconda parte parla di un momento e di una stagione differenti). Il poeta, condotto dalla "fantasia", in una giornata soleggiata d'ottobre s'incammina lungo le strade lunghe e diritte del Bolognese, e osserva il paesaggio circostante che, nella campagna autunnale, pullula di vita e di sensazioni forti. Il poeta è visivamente attirato da tutto ciò che lo circonda: le case con le persiane verdi, il fiume Reno che scende dai monti per allargarsi nella pianura adiacente, gli alberi dei frutteti che, pur perdendo le foglie, possiedono dei colori bellissimi, le terre che sembrano riposarsi al sole. Ma anche il senso dell'olfatto trova soddisfazione, nel sentire il forte odore del vino fermentato nelle cantine situate nei pressi della strada. C'è anche qualche presenza umana: un contadino che va a controllare se "il fosso non scola", ovvero se l'acqua piovana - in genere abbondante nel periodo autunnale - non venga correttamente drenata. Poi le ultime considerazioni sul momento stagionale, che grazie alla presenza temporanea del sole, vive una pausa, una parentesi di tranquillità; di tale situazione favorevole godono le terre, gli uomini e i paesi fortunati che si trovano nelle adiacenze del Reno. Non altrettanto gli uccelli, che stanno lì soltanto di passaggio, e sono già pronti per ripartire verso altre mete.





 PAESAGGI


1.

Improvvisa, la fantasia m'ha condotto per le strade

rettilinee del Bolognese, bordate di rami

freddolosi, toccati dall'ottobre , con prospettive

di persiane verdi allineate sulle facciate.

Il Reno si stacca dai monti con incantevoli

indugi e prende spazio in pianura, alberi

e frutteti si spogliano con incredibile bellezza,

riposano al sole le terre. È il tempo

adesso che le cantine odorano di fermentazione

e il contadino esce senz'arnesi a guardare

forse se qualche fosso non scola. Le terre,

gli uomini il paese fortunato nelle adiacenze

del fiume; godono questo sole breve.

Gli uccelli son di passo.


[...]


(da: Riccardo Bacchelli, "Memorie del tempo presente", Rizzoli, Milano 1953, p. 19)

martedì 10 ottobre 2023

"Lettera scritta di sera"

 Malgrado il suo nome non compaia praticamente mai nelle antologie più o meno note, Francesco Tentori (Roma, 18 marzo 1924 – Roma, 15 marzo 1995)  è stato un ottimo poeta italiano del XX secolo. Autore di una decina di raccolte di versi, che si dipanano lungo l'intera seconda metà del Novecento (la prima, I destini, è del 1949 e l'ultima, Migrazioni è del 1997), Tentori è stato maggiormente valutato nella sua attività di traduttore (che io in verità conosco pochissimo). I suoi versi migliori, a mio parere, si trovano nelle raccolte pubblicate negli anni '60 del XX secolo: Lettere a Vilna (1960), Nulla è reale (1964) e Lo stormire notturno (1968). Dal primo volume che ho citato, ho trascritto la bellissima Lettera scritta di sera. È la prima poesia della sezione che ha lo stesso titolo della raccolta. Tutte le sette poesie di questa sezione sono, in sostanza, delle epistole in versi dirette a Vilna: la donna con cui, in quel preciso periodo (1954-1957), il poeta aveva una relazione amorosa. I due versi iniziali, oltre ad evidenziare la lontananza dei due innamorati, fanno percepire la solitudine del poeta, che si trova, di sera, in una città in cui ha vissuto dei momenti felici con Vilna; per consolarsi pensa a lei, e con la fantasia riesce a vederla, malgrado la sua assenza. Seguono nove versi in cui il poeta descrive il paesaggio che vede intorno a lui, caratterizzato da alberi già quasi del tutto spogli, da uccelli autunnali che volano di ramo in ramo, da fioche luci e da un silenzio tremendo: tutti elementi che acuiscono la malinconia di chi soffre fortemente l'assenza della donna. Il poeta non riesce a superare questo momento difficile, e allora vaga per la casa deserta, cercando di fare qualcosa per distrarsi; ma ogni oggetto caro, e perfino gli amati libri, non riescono a farlo allontanare dal pensiero di lei. Unica consolazione è per lui scrivere una lettera alla sua donna, chiedendogli se il luogo in cui si trova ora ha le stesse peculiarità della città in cui vive l'uomo; in realtà sa bene che non è così, perché Vilna ora risiede in una località balneare, contraddistinta da un clima più mite, ventoso, da odori e suoni differenti. Infine il poeta si domanda se anche a lei, di notte mentre dorme, appaiono "figure amorose"; se, insomma, il poeta è ancora presente nei suoi sogni. Nei due versi finali c'è un'amara affermazione relativa all'impossibilità di potersi amare come si vorrebbe, quando si è così lontani l'uno dall'altra. Lettera scritta di sera fu inserita dal Tentori anche nella raccolta Migrazioni (Passigli, Firenze 1997, p. 18) in una versione diversa rispetto all'originale, che invece ritengo sia la migliore.





LETTERA SCRITTA DI SERA


La tua immagine mi visita di sera

in questa città che conosci.

È una sera già quasi autunnale

con autunnali uccelli per il cielo

già vuoto, già spogliato delle foglie

ed una luce scarna, melanconica

come un velo tra il mondo e noi.

Non s'odono campane e anche gli uccelli

volano silenziosi. Che fare

in una sera così sola, assorta

e turbata? Noi siamo lontani.


Ho vagato per la casa deserta,

per le stanze così grandi nel buio,

coi corpi degli oggetti familiari

abbandonati dal giorno sulla riva.

Esita l'ora, incerta. Anche i libri

giacciono inanimati e non sprigionano

il richiamo sottile. Vaghe ombre

attraversano l'aria e giunte al muro

tastano inquiete, sospirando. Che fare:

scrutare ancora gli avidi fantasmi?

No. Ti scrivo: Poiché siamo lontani.


Non è la stessa luce, la stessa stagione

quella che tu respiri e che ti porta

l'odore e il suono del mare

presso il cespuglio di ginestre? Ma il cielo

sarà più umano, più vicino e un vento

errerà sulla sabbia suscitando

nella notte figure amorose 

che ti accarezzano nel sonno. Sogni

di me forse, mi chiami? Ma che fare:

la distanza delude il desiderio.

Amore incalza; ma siamo lontani.


(da "Lettere a Vilna", Vallecchi, Firenze, pp. 11-12)


lunedì 9 ottobre 2023

"Autunno": una poesia sconosciuta di Umberto Saba

 Tra le poesie italiane del XX secolo dedicate alla stagione autunnale che più facilmente si ricordano, ve ne sono almeno due: Autunno di Vincenzo Cardarelli (1887-1959) e Già la pioggia è con noi di Salvatore Quasimodo (1901-1968); entrambe è possibile leggerle in numerosissime antologie scolastiche e non. Eppure c'è un'altra poesia, altrettanto bella, che fu scritta da Umberto Saba (Trieste, 9 marzo 1883 – Gorizia, 25 agosto 1957), ma che, complice anche l'autore, è scarsamente conosciuta dai lettori di versi. Questa poesia, che s'intitola Autunno, si trova all'interno del volume Tutte le poesie, pubblicato nei Meridiani della Mondadori di Milano a partire dal 1988. Fu pubblicata per la prima (ed ultima) volta nelle pagine della raccolta Ammonizione e altre poesie (Trieste 1933); con questo libro, che raccoglieva gran parte delle poesie giovanili di Saba, antecedenti Trieste e una donna (sezione che si trova in Coi miei occhi, raccolta uscita nel 1912), voleva essere, secondo il progetto dell'autore, il primo di una serie che potesse contenere tutte le sue poesie scritte fino a quel momento. Lo scarso successo di vendite del libro, lo indusse a non proseguire le pubblicazioni, poiché questi volumi venivano stampati dalla libreria di Saba, che, non riuscendo ad ottenere incassi adeguati, non avrebbe potuto coprire le spese. 

Passando ora alla poesia e partendo  dall'epigrafe, si evince che il poeta, nell'autunno del 1906 e, quindi, nel momento in cui scriveva questi versi, si trovava a Firenze. Nella prima parte, molto profonda, dopo una brevissima descrizione di un paesaggio piovoso, che simboleggia un drastico cambiamento in peggio di una situazione favorevole, si possono individuare almeno due metafore: la "pioggia-pianto" e "l'estate-gioia"; se ne potrebbe immaginare una terza: il "sole-sorriso", ma il sole non viene mai nominato. Ovviamente si riscontra che, secondo Saba, l'estate rappresenta qualcosa di positivo e, al contrario, l'autunno ha il significato opposto. Nella seconda parte della lirica, ci sono dei versi virgolettati che si protraggono anche nell'inizio della terza parte. È come se il poeta parlasse a sé stesso, chiedendogli in sostanza il motivo per cui ha perso, lungo il percorso della vita, tutte le cose più belle (anche le pene - forse d'amore - appartengono a questa categoria). Poi, appare la visione della sua "città dalle lunghe erte": Trieste, e all'orizzonte gli sembra di vedere il mare circostante il capoluogo friulano, ma in realtà si tratta soltanto delle lacrime a stento trattenute dal poeta, che alla vista gli dànno l'effetto di una distesa d'acqua. Più oscuro è, almeno per me, l'inizio della terza parte della poesia, in cui Saba, proseguendo il colloquio con sé stesso, ipotizza un arrivo inatteso (forse del suo felice passato?). La conclusione della poesia è bellissima: dopo aver ripetuto il concetto espresso nel 2° e nel 3° verso, il poeta triestino enumera una serie di categorie umane che vivono situazioni difficili o avverse - "soli nel mondo", "prigionieri", "marinai nostalgici" - per ricordarli in un momento di estrema malinconia autunnale.   





AUTUNNO

                                                                                        (Firenze, 1906)


Piove sui campi e i colli. Era l'estate

ieri, la bella e grande estate. Ed ecco:

ha mutato stagione all'improvviso.

È pianto quel che fu ieri sorriso

del mondo. In cielo ininterrotte lente

vanno le nubi, dicono: l'estate,

una gioia è finita.


«Dove andò la tua vita,

con tutte le sue pene,

con la grazia arridente,

con le ore serene?

Antichissima oscura

la città dalle lunghe erte ti appare.

All'orizzonte un mare

trema d'acque, o ti trema agli occhi il pianto?


S'io giungessi, se accanto

io ti giungessi, non più atteso!» Ieri

era la bella estate, oggi diversa

delle cose è l'immagine. E i pensieri

vanno ai soli nel mondo, ai prigionieri,

ai marinai nostalgici, all'avversa

fortuna. È autunno. E il cor pure lo sente.


(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1994, p. 771)

domenica 8 ottobre 2023

"Ultima passeggiata"

 La poesia Ultima passeggiata di Alberto Sormani (Milano 1866 - ivi 1893) fu pubblicata per la prima volta sulla rivista Cronaca d'Arte del 24 aprile 1892; fu quindi opportunamente rispolverata e riproposta dal critico Glauco Viazzi (1920-1980), nelle pagine dell'antologia Dal simbolismo al déco (1981), da lui stesso curata. Sia l'autore che i 141 versi di Ultima passeggiata, ancora oggi sono praticamente sconosciuti ai più. Eppure Sormani, che non pubblicò mai neppure un volume poetico, e morì a soli ventisette anni, soltanto con questa poesia (ne scrisse poche altre uscite su varie riviste) si pone come uno dei più importanti rappresentanti della poesia italiana di fine Ottocento e d'inizio Novecento. Ultima passeggiata, tanto per cominciare, è scritta in versi liberi, il che, nell'anno in cui apparì, era qualcosa di rarissimo. L'argomento trattato in questi versi, che ha a che fare con la perdita di una persona amata, ma che, soprattutto è finalizzato a mettere in risalto determinati aspetti della natura: la stagione autunnale, le foglie cadute, il cielo grigio ecc., è anch'esso una novità nell'ambito della poesia italiana, che finalmente inaugura un fare poetico già presente da anni in Francia, e che corrisponde alla «variante (per lo più intimista ed elegiaca) del simbolismo» - parole di Viazzi -, poi diffusasi anche da noi grazie ad altri poeti come Cosimo Giorgieri Contri (1870-1943), Guelfo Civinini (1873-1954) ed i crepuscolari. A proposito di questi ultimi, Sormani potrebbe essere definito un precursore della scuola crepuscolare, se non fosse che, molto probabilmente, Sergio Corazzini (1886-1907) e sodali non conoscevano affatto i versi del poeta milanese. Certamente Sormani era conosciuto da molti intellettuali della sua generazione, lombardi e non, e uno di essi era Gian Pietro Lucini (1867-1914), che nel suo importantissimo saggio Il Verso Libero (1908), lo prende in considerazione, affermando:


[...] Il quale, prima di tutti, aveva saputo dispacciarsi dai viluppi consuetudinari di pensiero e d'espressione, novissimo filosofo d'integrazione moderna, in sui fogli eletti dell'Italia liberale, sciupata dopo con glabre pretese e con dittatoriali ambizioni forcajuole, da chi sopravvenne, e non seppe conservarle, né il programma, né la disputa garbata, né la dignità, caprioleggiando, ogni due giorni, a comizio per far rumore e per nulla concludere, come è uso dei policastri. Altro fu il costume del Sormani, premorto al suo completo sbocciare, di cui era ferma speranza e deciso rigoglio; se già, quindici anni or sono, aveva osato un verso libero di individual fattura [...]¹.


Da questo frammento si evince anche il carattere di Sormani: pacato, garbato e profondamente sensibile. Per questo - ma non solamente - vale la pena leggere e rileggere per intero la sua bellissima Ultima passeggiata.




ULTIMA PASSEGGIATA


Mi è dolce e triste, prima di partire,

prima di andare lontano,

in una giornata così desolatamente malinconica,

di ripassare a passo lento e pensieroso

i luoghi del dolore immenso, i luoghi dei ricordi

infinitamente angosciosi.

Piante dell'Orrido, come siete alte

e tristi!

Come slanciate in alto verso il cielo

la vostra noia mortale,

la vostra grave disperazione,

la vostra irreparabile sventura! -

Avete freddo già?

Sentite il freddo della morte?

Sentite già la neve

che vi grava e vi irrigidisce?

Perché perché tanto dolore,

perché una così triste desolazione?

Avete l'anima?

Avete un cuore

che sente e che patisce nel profondo?

L'autunno ch'ella cominciava a morire

io pensavo che il vostro dolore fosse per lei,

pensavo che fosse una disperazione in voi

a vedere la vostra povera regina

che si incamminava malinconica e pallida

verso la morte.

Ora lei non c'è più. Ella è nelle regioni oscure

e non può più venire insieme a me. Io vengo solo,

io sono solo, io sono forte, io sono anche

malinconicamente felice, -

e voi piangete ancora,

voi vi addolorate e vi disperate sempre egualmente...

Oh, natura, così grande come sei,

forse tu non ti curi di nulla che ci tocchi, noi.

Eppure io, eppure lei

abbiamo ben lungamente sognato

di vivere con te, di palpitare

con l'anima tua divina ed immortale,

di confonderci alle tue gioie ed ai tuoi dolori,

agli odii, agli amori, ai furori tuoi. -

Non avevi l'anima forse?

Non ci ascoltavi tu?

Non ci seguivi tu col tuo pensiero profondo e sterminato,

come un Dio, come una madre,

come una sorella onnipotente

dell'anima nostra?

Fu quella l'ultima passeggiata

prima di morire.

Io l'accompagnavo. Ella si sentiva stanca,

si appoggiava soavemente al mio braccio,

e mi guardava negli occhi profondamente, angosciosamente,

come ferita a morte.

Che cosa potevo farle io? Quale conforto,

quale parola dolce le potevo dire?

Cercavo di mostrarmi sorridente,

e riuscivo almeno a non piangere.

Pensate, pensate, o povere piante,

i suoi occhi dicevano che non voleva morire,

ch'era così giovane ancora e così bella,

che voleva vivere ancora,

per me, per me,

per amare sempre me, -

che non voleva morire, -

che doveva morire, e non voleva!

Che cosa potevo farle io?

Tutta la povera natura desolata intorno

pronunciava la immensa sventura: -

Anche lei, anche lei

doveva morire!

Guardò senza parlare

il largo sedile formato dalla roccia

dove avevamo letto insieme

un tragico romanzo di Dostoevskij.

Rabbrividii pensando a quella lettura.

Mentre io leggevo, ella mi seguiva

cogli occhi cupi e fiammeggianti:

la lettura metteva terrore

fino in fondo all'anima.

Siamo passati insieme di qui. Ella sorrise

a vedere l'antico torniché di legno, disfatto dal tempo,

dove avevamo giuocato tante volte

da ragazzi.

Ella sorrise

perché la sua bontà e la sua soavità

erano infinite.

Io la feci passare per prima, e le feci un grande inchino

per farla sorridere ancora.

Ma ella non sorrise più.

Sembrava che entrasse nel regno della morte.

Il suo passo era più incerto ancora,

come esitante, in un mondo nuovo in cui il corpo contava poco.

Scendeva sempre tacendo

per le roccie tagliate a gradini:

guardava le acque piangenti, come sorelle,

le piante spogliate, come sorelle,

le foglie morte in terra, come sorelle morte.

Non pianse, come inaridita.

Appoggiò la sua guancia così dolcemente scarna e patita

sulla mia spalla,

e mi disse, guardando il dolore e la morte che la circondavano: - Alberto, io vado.

Alberto! ho pochi giorni da vivere ancora. -

Diceva questo, e non trovava neppure lagrime da piangere.

Non avendo altro, mi dava dei baci,

molti baci silenziosi sulla mia spalla

e giù, vicino al cuore, -

cosa tremenda - baci invece di lagrime. -

La sua miseria era infinita; -

ma era eguale quella della natura:

sembrava una sola anima di morte e di dolore, -

sembrava che finissero insieme

i giorni ultimi.

Era come una musica fatale.

Mi sembrava ch'ella cantasse cantasse

d'un canto straziato senza voce e senza moto,

ed ogni cosa la seguisse

nel canto, nel pianto mesto e soffocato,

il cielo torbido, le piante spogliate,

le acque, le foglie morte.

Ora, vedendovi ancora,

o cose tristi, come quel giorno,

cerco ancora di lei,

e vorrei ancora sentire il suo viso dolente

ad appoggiarsi sulla mia spalla.

Perché non la trovo? Perché sono solo? E perché voi,

o piante, siete sempre eguali?

Perché piangete ancora e vi disperate

ora che la regina della morte e del dolore

non viene più a piangere tra voi?

E voi acque, perché vi lamentate ancora

come quando vi ascoltava lei?

E voi, o foglie, perché vi distendete in terra

così dolorosamente,

perché vi posate morte sui bacini di acqua morta,

se lei non vi deve vedere e compatire mai più?

Ah dunque tutto è una commedia eterna,

una illusione amara,

un vano simulacro di un'anima che non c'è?

Autunno santo, o mio amore triste,

sei una chimera anche tu?


(da Dal simbolismo al déco, Einaudi, Torino 1981, tomo secondo, pp. 323-326)





NOTE

¹) Da: Gian Pietro Lucini, Il Verso Libero, ristampa anastatica, Interlinea, Novara 2008, pp. 605-606. 

   

Antologie: "Cenacolo"

 Cenacolo. Antologia di poeti - d’oggi - è il titolo di un’antologia poetica realizzata e curata da Francesco Addonizio e Francesco Giovinazzo, pubblicata nel 1931 presso le Edizioni di “Luce Intellettual” in Palermo. Gli stessi curatori fanno parte dei 74 poeti antologizzati. Trattasi di un’opera settoriale, visto che, sia i testi selezionati, sia gli autori di questi ultimi, sono in gran parte “religiosi”, intendendo più specificatamente con questo termine associare una serie di poeti e poesie che hanno, come comun denominatore, la religione cristiano-cattolica. Tra i nomi qui presenti, si nota una differenza netta di generazioni, che partono da chi aveva – all’uscita del libro – già superato la settantina, a chi aveva da poco compiuto vent’anni. Totalmente assenti i nomi dei poeti italiani più illustri del Novecento italiano, figurano però altri lirici, che in quel periodo si erano conquistati un buon favore di critica e di pubblico. Chiudo riportando l’elenco dei nomi di tutti i poeti presenti in Cenacolo.

 

 


 

CENACOLO  ANTOLOGIA DI POETI – D’OGGI –

 

Angelo Acocella, Francesco Addonizio, Maria Pia Albert, Garibaldo Alessandrini, Antonino Anile, Filippo Balistreri, Clemente Barbieri, Carolina Bertini, Maddalena Bolla Caruso, Arturo Bonardi, Enrico Braccesi, Teodoro Briccos, Gustavo Brigante Colonna, Aniello Calcàra, Giovanni Cantatore, Giovanni Casati, Raffaello Cioni, Pio Ciuti, Carmelo Cordaro, Filippo Crispolti, Pinuzzo da Bonea, Salvatore d’Abruzzo, Tullio da Colsalvatico, Mario Davini, Gabriele Del Fiore, Gino Del Guasta, Idilio Dell’Era, Giovanni De Natale, Giovanni Descalzo, Antonino De Stefani, Paolo Di Franco, Rosa di San Marco, Ignazio Drago, Bernardo Elena, Agostino Fattori, Giulio Foddài, Giuliana Folena, Letterio Fucile, Umberto Galeota, Diego Garoglio, Vittor Giuseppe Gerini, Francesco Giovinazzo, Gina Grimaldi, Fabio Gualdo, Esther Guglielmi, Giovanni Guizzardi, Elpidio Jenco, Giuseppe Jurilli, Pasquale Leone, Silvio Lesna, Vittorio Longo, Marino Marin, Salvatore Merche, Agostino Mersi, Angiolo Silvio Novaro, Giorgio Occhipinti, Luigi Orsini, Bruno Palaja, Ferdinando Passarello, Tommaso Mario Pavese, Giuseppe Perrotta, Pietro Rigosa, Fortunato Rizzi, Pietro Romanelli, Costantino Savonarola, Lydia Scapinelli, Maria Signorile, Gino Striuli, Rosa Vagnozzi, Nicola Valenza, Nicola Vernieri, Luigi Zambarelli, Armando Zamboni, Stelio M. Zappone.