domenica 8 ottobre 2023

"Ultima passeggiata"

 La poesia Ultima passeggiata di Alberto Sormani (Milano 1866 - ivi 1893) fu pubblicata per la prima volta sulla rivista Cronaca d'Arte del 24 aprile 1892; fu quindi opportunamente rispolverata e riproposta dal critico Glauco Viazzi (1920-1980), nelle pagine dell'antologia Dal simbolismo al déco (1981), da lui stesso curata. Sia l'autore che i 141 versi di Ultima passeggiata, ancora oggi sono praticamente sconosciuti ai più. Eppure Sormani, che non pubblicò mai neppure un volume poetico, e morì a soli ventisette anni, soltanto con questa poesia (ne scrisse poche altre uscite su varie riviste) si pone come uno dei più importanti rappresentanti della poesia italiana di fine Ottocento e d'inizio Novecento. Ultima passeggiata, tanto per cominciare, è scritta in versi liberi, il che, nell'anno in cui apparì, era qualcosa di rarissimo. L'argomento trattato in questi versi, che ha a che fare con la perdita di una persona amata, ma che, soprattutto è finalizzato a mettere in risalto determinati aspetti della natura: la stagione autunnale, le foglie cadute, il cielo grigio ecc., è anch'esso una novità nell'ambito della poesia italiana, che finalmente inaugura un fare poetico già presente da anni in Francia, e che corrisponde alla «variante (per lo più intimista ed elegiaca) del simbolismo» - parole di Viazzi -, poi diffusasi anche da noi grazie ad altri poeti come Cosimo Giorgieri Contri (1870-1943), Guelfo Civinini (1873-1954) ed i crepuscolari. A proposito di questi ultimi, Sormani potrebbe essere definito un precursore della scuola crepuscolare, se non fosse che, molto probabilmente, Sergio Corazzini (1886-1907) e sodali non conoscevano affatto i versi del poeta milanese. Certamente Sormani era conosciuto da molti intellettuali della sua generazione, lombardi e non, e uno di essi era Gian Pietro Lucini (1867-1914), che nel suo importantissimo saggio Il Verso Libero (1908), lo prende in considerazione, affermando:


[...] Il quale, prima di tutti, aveva saputo dispacciarsi dai viluppi consuetudinari di pensiero e d'espressione, novissimo filosofo d'integrazione moderna, in sui fogli eletti dell'Italia liberale, sciupata dopo con glabre pretese e con dittatoriali ambizioni forcajuole, da chi sopravvenne, e non seppe conservarle, né il programma, né la disputa garbata, né la dignità, caprioleggiando, ogni due giorni, a comizio per far rumore e per nulla concludere, come è uso dei policastri. Altro fu il costume del Sormani, premorto al suo completo sbocciare, di cui era ferma speranza e deciso rigoglio; se già, quindici anni or sono, aveva osato un verso libero di individual fattura [...]¹.


Da questo frammento si evince anche il carattere di Sormani: pacato, garbato e profondamente sensibile. Per questo - ma non solamente - vale la pena leggere e rileggere per intero la sua bellissima Ultima passeggiata.




ULTIMA PASSEGGIATA


Mi è dolce e triste, prima di partire,

prima di andare lontano,

in una giornata così desolatamente malinconica,

di ripassare a passo lento e pensieroso

i luoghi del dolore immenso, i luoghi dei ricordi

infinitamente angosciosi.

Piante dell'Orrido, come siete alte

e tristi!

Come slanciate in alto verso il cielo

la vostra noia mortale,

la vostra grave disperazione,

la vostra irreparabile sventura! -

Avete freddo già?

Sentite il freddo della morte?

Sentite già la neve

che vi grava e vi irrigidisce?

Perché perché tanto dolore,

perché una così triste desolazione?

Avete l'anima?

Avete un cuore

che sente e che patisce nel profondo?

L'autunno ch'ella cominciava a morire

io pensavo che il vostro dolore fosse per lei,

pensavo che fosse una disperazione in voi

a vedere la vostra povera regina

che si incamminava malinconica e pallida

verso la morte.

Ora lei non c'è più. Ella è nelle regioni oscure

e non può più venire insieme a me. Io vengo solo,

io sono solo, io sono forte, io sono anche

malinconicamente felice, -

e voi piangete ancora,

voi vi addolorate e vi disperate sempre egualmente...

Oh, natura, così grande come sei,

forse tu non ti curi di nulla che ci tocchi, noi.

Eppure io, eppure lei

abbiamo ben lungamente sognato

di vivere con te, di palpitare

con l'anima tua divina ed immortale,

di confonderci alle tue gioie ed ai tuoi dolori,

agli odii, agli amori, ai furori tuoi. -

Non avevi l'anima forse?

Non ci ascoltavi tu?

Non ci seguivi tu col tuo pensiero profondo e sterminato,

come un Dio, come una madre,

come una sorella onnipotente

dell'anima nostra?

Fu quella l'ultima passeggiata

prima di morire.

Io l'accompagnavo. Ella si sentiva stanca,

si appoggiava soavemente al mio braccio,

e mi guardava negli occhi profondamente, angosciosamente,

come ferita a morte.

Che cosa potevo farle io? Quale conforto,

quale parola dolce le potevo dire?

Cercavo di mostrarmi sorridente,

e riuscivo almeno a non piangere.

Pensate, pensate, o povere piante,

i suoi occhi dicevano che non voleva morire,

ch'era così giovane ancora e così bella,

che voleva vivere ancora,

per me, per me,

per amare sempre me, -

che non voleva morire, -

che doveva morire, e non voleva!

Che cosa potevo farle io?

Tutta la povera natura desolata intorno

pronunciava la immensa sventura: -

Anche lei, anche lei

doveva morire!

Guardò senza parlare

il largo sedile formato dalla roccia

dove avevamo letto insieme

un tragico romanzo di Dostoevskij.

Rabbrividii pensando a quella lettura.

Mentre io leggevo, ella mi seguiva

cogli occhi cupi e fiammeggianti:

la lettura metteva terrore

fino in fondo all'anima.

Siamo passati insieme di qui. Ella sorrise

a vedere l'antico torniché di legno, disfatto dal tempo,

dove avevamo giuocato tante volte

da ragazzi.

Ella sorrise

perché la sua bontà e la sua soavità

erano infinite.

Io la feci passare per prima, e le feci un grande inchino

per farla sorridere ancora.

Ma ella non sorrise più.

Sembrava che entrasse nel regno della morte.

Il suo passo era più incerto ancora,

come esitante, in un mondo nuovo in cui il corpo contava poco.

Scendeva sempre tacendo

per le roccie tagliate a gradini:

guardava le acque piangenti, come sorelle,

le piante spogliate, come sorelle,

le foglie morte in terra, come sorelle morte.

Non pianse, come inaridita.

Appoggiò la sua guancia così dolcemente scarna e patita

sulla mia spalla,

e mi disse, guardando il dolore e la morte che la circondavano: - Alberto, io vado.

Alberto! ho pochi giorni da vivere ancora. -

Diceva questo, e non trovava neppure lagrime da piangere.

Non avendo altro, mi dava dei baci,

molti baci silenziosi sulla mia spalla

e giù, vicino al cuore, -

cosa tremenda - baci invece di lagrime. -

La sua miseria era infinita; -

ma era eguale quella della natura:

sembrava una sola anima di morte e di dolore, -

sembrava che finissero insieme

i giorni ultimi.

Era come una musica fatale.

Mi sembrava ch'ella cantasse cantasse

d'un canto straziato senza voce e senza moto,

ed ogni cosa la seguisse

nel canto, nel pianto mesto e soffocato,

il cielo torbido, le piante spogliate,

le acque, le foglie morte.

Ora, vedendovi ancora,

o cose tristi, come quel giorno,

cerco ancora di lei,

e vorrei ancora sentire il suo viso dolente

ad appoggiarsi sulla mia spalla.

Perché non la trovo? Perché sono solo? E perché voi,

o piante, siete sempre eguali?

Perché piangete ancora e vi disperate

ora che la regina della morte e del dolore

non viene più a piangere tra voi?

E voi acque, perché vi lamentate ancora

come quando vi ascoltava lei?

E voi, o foglie, perché vi distendete in terra

così dolorosamente,

perché vi posate morte sui bacini di acqua morta,

se lei non vi deve vedere e compatire mai più?

Ah dunque tutto è una commedia eterna,

una illusione amara,

un vano simulacro di un'anima che non c'è?

Autunno santo, o mio amore triste,

sei una chimera anche tu?


(da Dal simbolismo al déco, Einaudi, Torino 1981, tomo secondo, pp. 323-326)





NOTE

¹) Da: Gian Pietro Lucini, Il Verso Libero, ristampa anastatica, Interlinea, Novara 2008, pp. 605-606. 

   

Nessun commento:

Posta un commento