giovedì 5 ottobre 2023

"Un mite ottobre"

 Un mite ottobre è il titolo di una breve poesia di Gian Carlo Conti (Piacenza 1928 - Parma 1983); si tratta di soli 5 versi che descrivono un periodo temporale molto simile a quello che stiamo vivendo oggi. Quelle che a Roma vengono definite "ottobrate", quando il poeta emiliano scrisse questa poesia, si stavano verificando anche nella sua terra natale. Conti, in un momento di pausa o di ozio durante la giornata, guarda in cielo le rondini che stanno per partire; quindi fa una riflessione e si chiede: «In quale stagione mi trovo? Siamo in ottobre ma non sembra: è possibile rimanere con gli abiti estivi senza provare freddo malgrado l'autunno sia iniziato già da diversi giorni». Gian Carlo Conti si può definire, oggi, un poeta dimenticato; Un mite ottobre e altre poesie («Il Raccoglitore», Parma 1952) è il titolo della sua prima raccolta di versi. Io ho trascritto la poesia che segue dal volume Non si ricordano più. Le poesie, Guanda, Parma 1991, dove è possibile leggere quasi tutta l'opera poetica di Conti.





UN MITE OTTOBRE


Pigri voli d'addio

sulla casa fanno

le ultime ali dell'anno.

Quale dolce stagione è mai la nostra:

stare con le braccia nude senza tremare.

"Mamma, questa d’ottobre..."

 Esistono dei poeti che vengono citati o ricordati soltanto per una poesia. In questa categoria credo si possa far rientrare anche Giovanni Cena (Montanaro 1870 - Roma 1917). Lo scrittore piemontese, autore di romanzi, saggi critici e volumi poetici, scrisse un sonetto incluso nel poemetto Madre (uscito per la prima volta nel 1897) in cui si parla di una giornata ottobrina molto simile a quelle che si stanno susseguendo in questo periodo: tiepida, serena e, come la definisce il poeta stesso, primaverile; tale sonetto, che fa parte di una vicenda molto drammatica (Madre parla della malattia e infine della morte della mamma di Cena) subito dopo la pubblicazione del poemetto e nei decenni successivi, fu staccato dal contesto al quale apparteneva, divenendo una poesia a sé stante, e fu inserito in molte antologie scolastiche e non; col tempo diventò l'unica poesia di Giovanni Cena conosciuta dal grande pubblico. Nei versi del sonetto si descrive un momento di calma apparente, in cui coincidono due realtà positive ma temporanee: le belle condizioni del tempo e una tregua della malattia di cui soffriva la madre del poeta. Ma entrambe le situazioni favorevoli, come detto, sono destinate a terminare in breve tempo: non poteva durare la "primavera ultima", poiché ormai l'autunno era già cominciato da alcune settimane, e neppure poteva protrarsi a lungo la momentanea buona salute della mamma di Cena, che era molto malata e perì poco tempo dopo. Ciò che piacque, in questi versi di Cena, è la descrizione di un momento felice vissuto da una famiglia unita; il bel tempo, i lieti rumori intorno, i figli che s'incoraggiano a vicenda vedendo la mamma in buone condizioni di salute, pur nelle privazioni dovute all'estrema povertà di tutti i componenti della famiglia, fanno sì che la speranza per un futuro migliore prevalga su tutto il resto. Il sorriso della mamma basta agli occhi dei suoi cari per essere felici, magari soltanto in quel giorno. Il sonetto che ho trascritto di seguito, è il capitolo X del poemetto Madre, e si trova nel volume Poesie, Bemporad & Figlio, Firenze 1922, (p. 21). 





MAMMA, QUESTA D'OTTOBRE...


Mamma, questa d’ottobre così gaia

giornata, sembra d’una primavera

ultima. Senti? rondinelle a schiera

empiono di bisbigli la grondaia.


Senti? tutto è brusio. Biondo nell’aia

il sol, tiepido ancora. Ma l’intera

famiglia è qui d’intorno, e prega e spera

che dalla casa il reo morbo scompaia.


Oggi si spilla il vino e si ripone

il grano turco: a noi il buon Signore

nulla di queste cose diede, mamma.


Pur siamo lieti: poi che 'l buon Signore

ancor ci appresta molte cose buone,

la tua salute, il tuo sorriso, mamma.


mercoledì 4 ottobre 2023

"Addio!"

 Molto probabilmente le rondini, anche quest'anno, hanno già lasciato il luogo dove vivo e dove erano giunte - se non sbaglio - un po' in ritardo rispetto a quelli che erano considerati, una volta, i tempi tradizionali, ovvero tra la fine di marzo e l'inizio di aprile. Io sinceramente non me ne sono accorto, ma se guardo il cielo in queste prime giornate d'ottobre, mi sembra di non vederne alcuna. Ma oggi chi fa più caso all'arrivo o alla partenza delle rondini? Credo ben pochi. Una volta non era così: le numerose poesie dedicate alle rondini (e non soltanto ad esse), stava a significare che c'era un'attenzione maggiore nei confronti di eventi stagionali ritenuti importanti. Più di cento anni fa, gli occhi degli esseri umani non erano concentrati sul piccolo schermo facente parte dello smartphone: l'oggetto più usato da tutte le generazioni, che ai tempi nostri rappresenta qualcosa d'imprescindibile, in assenza del quale la vita non è vita. Allora, gli occhi degli uomini, delle donne e dei bambini guardavano altrove e, spesso, succedeva che notassero la presenza delle rondini nel cielo primaverile o estivo. Il poeta Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna, 31 dicembre 1855 – Bologna, 6 aprile 1912) , nella poesia intitolata Addio!, dedica dei versi a questi uccelli che ci fanno visita dai tempi dei tempi a primavera, e che ci lasciano nel periodo autunnale, poiché vanno sempre alla ricerca di luoghi caldi, dove poter vivere in condizioni accettabili. Pascoli, in questi versi, è come se volesse parlare alle rondini, per salutarle. Forse perché aveva studiato da anni e anni il loro comportamento, fatto sta che il poeta romagnolo riusciva a capire il loro linguaggio, intuiva, dai loro movimenti, la loro imminente partenza verso le isole della Grecia e le regioni del Nordafrica. Ma dal verso 37 alla fine del componimento, Pascoli confessa la sua intima sofferenza per una mancata paternità che gl'impedisce - come fanno le rondini - di protrarre la sua esistenza attraverso quella dei figli. È come se, i cosiddetti "quattro rondinotti" desiderati dal poeta, gli permettessero di non morire; essi, secondo il suo pensiero, avrebbero rappresentato una virtuale prosecuzione della vita dei genitori, così come avviene per le rondini, che nascono, vivono e muoiono, ma generazione dopo generazione non mutano le loro abitudini. Addio! fu pubblicata per la prima volta nel volume "Canti di Castelvecchio", Zanichelli, Bologna 1903. Io l'ho trascritta da una riedizione della raccolta citata, curata Giuseppe Nava e pubblicata dalla Rizzoli di Milano nel 1993 (4° edizione).



ADDIO!


Dunque, rondini rondini, addio! 


Dunque andate, dunque ci lasciate 

per paesi tanto a noi lontani. 

È finita qui la rossa estate. 

Appassisce l'orto: i miei gerani 

  più non hanno che i becchi di gru. 


Dunque, rondini rondini, addio! 


Il rosaio qui non fa più rose. 

Lungo il Nilo voi le rivedrete. 

Volerete sopra le mimose 

della Khala, dentro le ulivete 

  del solingo Achilleo di Corfù. 


Oh! se, rondini rondini, anch'io... 


Voi cantate forse morti eroi, 

su quest'albe, dalle vostre altane, 

quando ascolto voi parlar tra voi 

nella vostra lingua di gitane, 

  una lingua che più non si sa. 


Oh! se, rondini rondini, anch'io... 


O son forse gli ultimi consigli 

ai piccini per il lungo volo. 

Rampicati stanno al muro i figli 

che al lor nido con un grido solo 

  si rivolgono a dire: Si va? 


Dunque, rondini rondini, addio! 


Non saranno quelle che le case 

han murato questo marzo scorso, 

che a rifarne forse le cimase 

strisceranno sopra il Rio dell'Orso, 

  che rugliava, e non mormora più. 


Dunque, rondini rondini, addio! 


Ma saranno pur gli stessi voli; 

ma saranno pur gli stessi gridi; 

quella gioia, per gli stessi soli; 

quell'amore, negli stessi nidi; 

  risarà tutto quello che fu. 


Oh! se, rondini rondini, anch'io... 


io li avessi quattro rondinotti 

dentro questo nido mio di sassi! 

ch'io vegliassi nelle dolci notti, 

che in un mesto giorno abbandonassi 

  alla libera serenità! 


Oh! se, rondini rondini, anch'io... 


rivolando su le vite loro, 

ritrovando l'alba del mio giorno, 

rimurassi sempre il mio lavoro, 

ricantassi sempre il mio ritorno, 

  mio ritorno dal mondo di là! 


(da: Giovanni Pascoli, "Canti di Castelvecchio", Rizzoli, Milano 1993, pp. 341-342)

Due conventi francescani in due poesie

 Nella ricorrenza annuale che festeggia San Francesco d'Assisi, ho voluto rispolverare due vecchie poesie dove protagonista non è il santo patrono d'Italia, bensì alcuni dei tantissimi luoghi che il poverello d'Assisi ci ha lasciato in eredità: i conventi dei frati francescani. Nella prima poesia: San Francesco del Deserto di Angiolo Orvieto (Firenze 1869. ivi 1967), si parla, per l'appunto, di un convento francescano situato in un luogo bellissimo: una piccola isola della laguna veneziana che ha il nome equivalente al titolo della lirica; San Francesco del Deserto si trova tra altre due isole: Burano e Sant'Erasmo; come ben spiegano i versi del poeta, in quel luogo così isolato si respira un'atmosfera di profonda pace, accentuata dal silenzio (si odono, a volte, soltanto i leggeri rumori provenienti dall'isola di Burano); questa quiete unita alla bellezza del posto, fanno sì che la solitudine, aggettivata dal poeta, diviene "beata", poiché chi rimane da solo non soffre, anzi si gode quelle sensazioni uniche, mistiche e rasserenanti, in grado d'isolarlo da tutto il resto del mondo, e di dargli la netta sensazione di essere in un paradiso terrestre. San Francesco del Deserto fu pubblicata per la prima volta nella raccolta poetica di Angiolo Orvieto intitolata La sposa mistica. Il velo di Maya (Treves, Milano 1898). Io l'ho trascritta da un altro volume, pubblicato dopo dodici anni dalla morte dello scrittore toscano: Poesie scelte, Olschki, Firenze 1979. 


SAN FRANCESCO DEL DESERTO


San Francesco del deserto,

romitaggio lagunare,

d’un settemplice filare

di cipressi ricoperto;


questo vento vien dal mare

e disfiora il tuo convento,

e d’un lieve movimento

ti fa l’acqua scintillare.


S’ode un vivo cinguettare

per le tue paludi intorno,

e nel pieno mezzogiorno

una navicella appare.


Essa muove piano piano 

sovra l’alighe palustri;

fra quei tremuli ligustri

lenta va verso Burano.


Da Burano non lontano

giunge suono di campane,

che le belle popolane

chiama al desco rusticano.


Sosta l’opra della mano

che tessea merletti vaghi;

hanno tregua fili ed aghi

nel tepore meridiano.


Sulla lastre, che fragore

di sonanti zoccoletti,

o Burano dei merletti,

o Burano dell’amore!


Ma non giunge quel rumore

qui, nell’ombra claustrale,

nel silenzio sempre uguale,

sempre uguale a tutte l’ore.


Qui la pace delle aurore

dura tutta la giornata:

solitudine beata

per chi vive e per chi muore.


«O beatitudo sola,

o beata solitudo!»

Sull’antico muro ignudo

sta la mistica parola.


La parola che consola

il mio spirito dolente,

e lo culla dolcemente

come suono di viola.


Siimi tu lucente scudo,

siimi tu divina scuola,

«O beatitudo sola,

o beata solitudo!»


(da "Poesie scelte", Olschki, Firenze 1979, pp. 78-79)





Anche la seconda poesia: Convento francescano di Silvio Cucinotta (Pace del Mela 1873 - Santa Lucia del Mela 1928), parla di un luogo appartato, in cui risulta facile farsi attrarre dalle atmosfere mitiche e, nello stesso tempo, da un senso di pace non riscontrabile altrove. Questo convento di cui parla il poeta siciliano, si trova a pochi passi dal mare, ed è circondato da un panorama bellissimo. Qui, come nell'isoletta descritta dalla poesia di Orvieto, sembra di vivere fuori dal mondo; si è soli, è vero, ma ciò non comporta affatto sofferenza; la solitudine diviene "gioconda", e i rumori piacevoli che si ascoltano, come le voci dei frati in preghiera, o il "din don" delle campane del convento, fanno sì che l'anima risorga da uno stato di angoscia, che si riappacifichi col mondo intero, proiettandosi verso il futuro con nuova speranza.  



CONVENTO FRANCESCANO


Il convento guarda il mare

co' suoi cento occhi d'asceta:

vien da 'l mare un palpitare

qual frusciar molle di seta.


Dorme l'orto ne la bruna

povertà del suo verdore

lusingato da 'l candore

palpitante de la luna.


Frate vento con un lene

sospirar di cella in cella

tenta l'anima e cancella

le misteriose pene.


Dolce pace di convento

dove l'anima traduce

ne l'angoscia di un accento

una speme che riluce!


Ecco l'anima risorta

da la collera de l'onda,

ha picchiato a la tua porta,

solitudine gioconda.


Ne la notte, mentre il mare

mugghia e il fremito del vento

con un sordo brontolare

scuote il tetto del convento,


grave spandesi da 'l coro

la preghiera francescana,

cui risponde la campana

co 'l suo fremito sonoro;


cui risponde questo cuore

che sa i fremiti del male,

sa le nenie del dolore,

il fragor del temporale.


Dolce pace di convento

dove l'anima traduce

ne l'angoscia d'un accento

una speme che riluce!


Ora picchio a la tua porta,

solitudine di pace:

cerca l'anima risorta

pace pace pace pace...


(da "Brume", Trinchera, Messina 1913, pp. 22-24)


Silvio Cucinotta



sabato 30 settembre 2023

Poeti dimenticati: Alberto Viviani

 Nacque a Firenze nel 1894 e ivi morì nel 1970. Esordì in letteratura molto giovane, pubblicando delle poesie nella rivista Lacerba; alcune tra queste, comparvero poi nelle prime raccolte di versi che Viviani pubblicò tra il 1914 ed il 1916, in cui il poeta fiorentino si dimostrò un fervente seguace delle migliori avanguardie poetiche attive nei primissimi anni del XX secolo, in particolare del crepuscolarismo e del futurismo. Saltuariamente, Viviani continuò a scrivere poesie anche dopo la gioventù, inserendole in nuovi volumi che spesso comprendevano anche i suoi primi versi. Ma Viviani oggi è ricordato soprattutto per alcuni suoi libri di prosa, in cui rievocò i tempi in cui, frequentando il famoso caffè del capoluogo toscano: Le Giubbe Rosse, conobbe alcuni tra i più noti letterati italiani che a quei tempi pubblicavano i loro scritti in riviste come La Voce e, per l’appunto, Lacerba.

 

 

Opere poetiche

 

“Il mio cuore”, Tip. Galileiana, Firenze 1914.

“Le ville silenziose”, Gonnelli, Firenze 1915.

“Rose d'argento”, Tip. Galileiana, Firenze 1916.

“Il mio cuore” (2° ed.), Istituto Editoriale Italiano, Milano 1919.

“Sole mio”, Carra, Roma 1923.

“Han dato fuoco al Sole”, Alpes, Milano 1928.

“Fiordelmondo”, Studio Editoriale Moderno, Catania 1928.

 

 


 

Presenze in antologie

 

"I poeti del Futurismo 1909-1944" a cura di Glauco Viazzi, Longanesi & C., Milano 1978 (pp. 276-281).

"Dal simbolismo al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981 (tomo secondo, pp. 539-544).

 

 

Testi

 

 

LA SALA GIALLA

 

Di giallo è parata la sala che dorme

nel grande castello.

Le sedie, i divani, le tende, i tappeti

son gialli,

le mura gli specchi ed i quadri

colore ottocento.

Arcigne le tele dei vecchi antenati in cornice

guardano incerte la porta

se mai vi apparisse

il servo vestito alla moda.

Respirano ansiosi i vecchi antenati

quell'aria che dentro vi spira,

quell'aria che odora

ancora

di dame vestite di raso

di cavalieri con le calze bianche e la parrucca,

con l'occhialetto

e i fiocchi color rosa.

Il vecchio orologio che ormai

non segna più l'ora

è casa ad un ragno.

E il ragno tesse e si affaccia stupito

alla mostra, da quel silenzio,

guardando melanconico

tutto quel giallo.

E tesse - Tesse senza posa la tela

che pende leggera nell'aria

color oro pallido,

che scende qual nebbia a velare la mostra di smalto.

Nell'angolo riposa (la tastiera aperta)

il pianoforte,

e la musica sgualcita è sul leggìo

che attende.

Quali manine avranno strappato

a quelle corde l'ultimo pianto? -

Chissà - Mistero.

 

La vecchia dama guarda sempre arcigna

la porta della sala

e l'impiantito sembra solcato

da frementi piedini

che vanno dietro, spasimosi,

a l'ultimo singhiozzo

del minuetto di Boccherini.

 

(da "Le ville silenziose", Gonnelli, Firenze 1915, pp. 19-20)

 

 

 

 

DALLA FINESTRA DEL MIO CASTELLO

 

I.

Oh come stranamente

singhiozza

questa notte nella via

l'organo di Barberia.

Suona con voce fiacca

quella strana, solita canzone polacca

che popola la via bianca

di una folla dolorosa

e stanca,

e pare quasi che le note lente

suonino l'agonia

di quella gente.

 

II.

Dalla cappella vicina

delle suore di Maria Riparata

come un'ondata

sale alle stelle la voce bambina

della spinetta scordata.

 

III.

(Voce di falsetto accompagnata dalla chitarra).

 

"Vieni alla finestra dolce amore

cuore del mio cuore

non mi far penar più..."

 

IV.

L'organo singhiozza ancòra

la canzone polacca

interminabile

che tanto, tanto addolora...

 

V.

Nell'aiola di rose dell'altare

un piccolo cristo

con gli occhi cerchiati di bistro

piange

lacrime amare.

 

(da "Rose d'argento", Tip. Galileiana, Firenze 1916, pp. 19-20)

domenica 24 settembre 2023

"Le Evocazioni" di Guido Ruberti

 Le Evocazioni (sottotitolo: Odi) è il titolo della seconda ed ultima opera poetica di Guido Ruberti (Roma 1885 – ivi 1955). Poeta soltanto in gioventù, Ruberti appartenne al gruppo o cenacolo di poeti romani che avevano, quale punto di riferimento e guida spirituale, Sergio Corazzini: poeta crepuscolare per eccellenza, morto appena ventunenne a causa della tisi. Ruberti fu amico di Corazzini, e quest’ultimo a lui dedicò un paio di poesie. Le Evocazioni è un volumetto di 96 pagine, che fu stampato a Roma, nel 1909, dalla Casa Editrice Centrale. Al suo interno si possono leggere 27 poesie di Ruberti, suddivise in tre sezioni. La prima di queste, che non ha titolo, ne comprende solamente quattro: Il Pendolo; Monte Cavallo; Dopo il veleno; Il faro. Nella seconda sezione, che è la più corposa, si trovano alcune tra le migliori composizioni poetiche del Nostro, in cui è facile ritrovare quelle particolari atmosfere care ai poeti crepuscolari; ecco tutti i titoli delle poesie qui presenti: Mattino di pioggia; Domenica; Chopin: notturno; Nevrastenia; La Devota; I suicidi; All’amica lontana; Anemica; Il soliloquio di Lady Currie; A Marcella; Case in demolizione; L’infanticida; Nell’arsenale di Spezia; Alla soglia…; Alla luce; Vas spirituale; Nozze di sangue; Il ratto. L’ultima sezione - a mio avviso la meno interessante del volumetto - s’intitola Sonetti, e comprende i seguenti componimenti poetici: Volontà; La città dei venti; La città della pietra; L’astronomo; Per un ritratto di Napoleone. La seconda e la terza poesia dell’ultima sezione sono composte da tre sonetti ciascuna. Chiudo, con la trascrizione di un testo poetico appartenente alla seconda sezione, dove, come già accennato in precedenza, si notano delle peculiarità che avvicinano Ruberti al crepuscolarismo, di cui in sostanza fu un esponente minore.

 

 


 

 

A MARCELLA

 

Marcella, che cosa hai tu fatto

dal dì che spezzammo l'incanto

d'amore in reciproci inganni?

Discesa è la torma degli anni

qual orda di barbari in preda...

Ma quanti! perch'io ti riveda

bisogna che levi una pietra

da questa mia sepoltura

e senta, becchino, il ribrezzo

de la putredine oscura

e invano tenti il labirinto

di un sotterraneo estinto.

 

Tu, già non rammenti... stamane

sfiorandomi quasi per via

andasti impassibile e muta;

ma non forse una nostalgia

ti assalse siccome una acuta

fragranza di sale rinchiuse

da tempo, una strana malia?

 

Marcella, che cosa hai tu fatto

dal dì che eravamo fanciulli

e le anime come trastulli

spezzammo per noia al finire

di un sogno? Che cuore! che fede!

Mutammo già tanto? di udire

mi sembra una voce ascoltata

nel regno delle ombre: il tuo viso

è men che uno spento sorriso...

Oh come la vita è passata,

fanciulla, e non siamo gli stessi

di quelli che fummo una volta:

la nostra memoria è sepolta.

 

Marcella, che cosa hai tu fatto

dal dì che spezzammo l'incanto?

la grave opulenza ha disfatto

il giovine corpo; e la mente?

i saggi consigli che accanto

ti sussurrai scaltramente!

tu certo obliati non gli hai,

poiché l'innocenza è sfiorita...

io guardo, sorrido, che mai

trovata ho sì gaia la vita.

 

L'antica vergogna fu come

un morbo di primavera,

che l'anima n'esce leggera

e aspersa da puro lavacro.

Marcella, passandoci accanto

ormai che ne val ricordare?

tu più non sapresti arrossare

io più trovar pianto.

 

(da "Le Evocazioni", Casa Editrice Centrale, Roma 1909, pp. 50-51)

 

martedì 19 settembre 2023

"Una casina di cristallo"

 Uno scrittore geniale che risponde al nome di Aldo Palazzeschi (pseudonimo di Aldo Giurlani, nato a Firenze nel 1885 e morto a Roma nel 1974), più di cento anni fa scrisse e pubblicò una poesia intitolata Una casina di cristallo, in cui si parlava di un poeta (forse egli stesso) che aveva deciso di andare a vivere in una abitazione edificata totalmente col solo cristallo. La fantasiosa casa, abitata dal solo poeta, permetteva a tutti coloro che avessero voluto, di curiosare sulla sua vita intima e di poterlo fare tranquillamente, poiché le pareti trasparenti dell'edificio consentivano ai curiosi di guardare, in qualunque momento della giornata, cosa stesse accadendo all'interno di esso.

Palazzeschi, in questi versi anticipa i tempi di quasi un secolo; pur essendo ancora giovane, lo scrittore fiorentino già conosceva a fondo il pensiero della maggioranza dell'umanità, sapeva della morbosa curiosità che pervade le menti di tantissimi esseri umani, desiderosi di spiare i comportamenti di altri esseri umani, di invadere la loro privacy e di conoscerne per filo e per segno ogni vizio e ogni difetto, per poi poterne parlare con quelli che si nutrono delle medesime indiscrezioni. A causa di questi comportamenti, che non so quanto possano essere definiti "normali", qualche decennio fa è nato un genere televisivo aberrante, denominato "reality", dove i protagonisti sono degli individui più o meno famosi, che per un determinato lasso di tempo vivono in determinati luoghi; consapevoli di essere spiati dalle telecamere anche 24 ore su 24, così come di essere giudicati per i loro comportamenti e le loro azioni, iniziano una specie di gara da cui, inesorabilmente, esce un vincitore (quali siano i meriti di chi primeggia non so).

Tornando alla poesia di Palazzeschi, fu pubblicata nella 2° edizione de L'incendiario (1913) e poi nelle raccolte che comprendevano l'intera opera in versi dello scrittore fiorentino. Il testo che segue, l'ho trascritto dal volume Gozzano e i crepuscolari, Garzanti, Milano 1983.






UNA CASINA DI CRISTALLO


Non sogno più castelli rovinati,

decrepite ville abbandonate

dalle mura screpolate

dove ci passa il sole.

Non palazzi provinciali disabitati,

dalle porte misteriose

le vetrate colorate

le finestre ferrate,

non più.

Non più colli soleggiati,

non cime di montagne,

isole luminose,

non più.

Non solitarie vie

infinite, polverose,

dove sfogare le mie malinconie.

Mi son venute a noia queste cose.

Non prati sconfinati

ricoperti di margherite,

circondati di stupore.

Non parchi bagnati di dolore.

Non fontane, non cancelli,

attonite folle mute

non più;

non più il croscio dei ruscelli

rapito ascoltare

all'ombre silenziose;

non le grida degli uccelli,

non più.

Sogno tutt'altre cose

che con queste non han nulla che fare.

Non me ne dovete volere

se oggi ho cambiato parere.


Io sogno una casina di cristallo

proprio nel mezzo della città,

nel folto dell'abitato.

Una casina semplice, modesta,

piccolina piccolina:

tre stanzette e la cucina.

Una casina

come un qualunque mortale

può possedere,

che di straordinario non abbia niente,

ma che sia tutta trasparente:

di cristallo.

Si veda bene dai quattro lati la via,

e di sopra bene il cielo,

e che sia tutta mia.

L'antico solitario nascosto

non nasconderà più niente

alla gente.

Mi vedrete mangiare,

mi potrete vedere

quando sono a dormire,

sorprendere i miei sogni,

mi vedrete quando vado a fare i miei bisogni,

mi vedrete quando cambio la camicia.

Se in un giorno di malumore

mi parrà di litigare colla serva,

prenderete la sua parte, lo so,

e farete benone,

non c'è niente di male;

v'accorgerete dalla mia cera

come va la mia arte,

mi vedrete chino sopra le carte

dalla mattina alla sera.

E passando mi potrete salutare,

augurare il buongiorno e la buonanotte:

io vi risponderò.

Se ogni tanto mi vedrete

che faccio la pipì,

non vi scandalizzate,

o ditemi: «piscione!»

se no peggio per voi,

non vi dovete voltare

quando passate di lì.

«All'erta dormiglione,

è alto il sole!»

La mattina vi sentirò gridare.

«Pigrizia e poesia vanno a braccetto».

Vi sentirò borbottare.

Ma farò finta di non sentire

per restare un altro poco

a cucciare dentro il letto.

E quando non ne potrò proprio più

mi butterò giù.

- Riso e cavolo per desinare.

— Dev'essere in bolletta.

— Mangia la minestra colla forchetta!

— Che razza d'animale.

— Beve acqua per risparmiare.

— Beve acqua perché gli piace.

— Che ci sia qualche cosa

con quella cameriera?

— Mamma mia che indecenza!

— Brutta a quella maniera?

Ma la notte cosa fanno?

— Bella, vanno a dormire.

— Quella è la stanza di lui,

quella è la stanza di lei,

accanto la cucina...

— Ti piacerebbe di stare in quella casina?

— No davvero no davvero,

vivere a quel modo in berlina.

— Due camere un salotto e la cucina.

— Hai visto il cesso com'è bello?

— È di vetro anche il carìllo.

— Ma cosa è andato a inventare?

— Guarda guarda, va al cassettone...

Ah! no... che cosa anderà a fare?

— Mamma mia!

— Che si butti un po' sul letto?

— Bambine venite via!

— Sarà stanco poveretto.

— Non vedi che viso bianco?

— Qui bisogna riparare!

— E il comune, che gli ha dato il permesso

di fabbricare una casa di quel genere.

— Vi sbagliate!

— Ha ragione, per Dio!

Me ne sto facendo una anch'io!

Quando gli uomini vivranno

tutti in case di cristallo

faranno meno porcherie,

o almeno si vedranno.

— Sostenete delle tesi sbagliate.

— È un pazzo come lui.

— E come se ne sta tranquillo,

quel po' po' di salame.

— Guarda guarda, ci saluta!

— Ah, ci ha detto: «buona passeggiata».

— Buon lavoro, poeta.

— È una gran puttanata!

— Ma che bella trovata!


(da "Gozzano e i crepuscolari", Garzanti, Milano 1983, pp. 591-594)