domenica 9 ottobre 2022

Gli alberi in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 

Nelle dieci poesie che ho selezionato e pubblicato in questo post, quasi sempre non si parla di alberi specifici; i poeti qui, evidentemente, non attribuiscono eccessiva importanza al tipo di albero che vogliono porre in evidenza; d’altronde, quante volte io, come chissà quante altre persone, ho visitato un bosco, un viale alberato o un parco, rimanendo sorpreso dalla bellezza che quei luoghi possedevano, grazie alla cospicua presenza di alberi – qualunque essi fossero – che li abbellivano in modo ineguagliabile, rendendoli, a volte, unici (veri e propri paradisi in terra). Ma l’importanza degli alberi – lo sappiamo tutti – non risiede soltanto nella loro bellezza, ma in altre qualità, forse ben più importanti; gli alberi infatti, sono determinanti nel combattere il riscaldamento climatico, perché assorbono l’anidride carbonica; così facendo, rendono l’aria più pulita, poiché alcuni elementi fortemente inquinanti vengono da loro incamerati. E cosa dire, poi, dei frutti che tanti di essi producono, e che noi troviamo tutti i giorni nei negozi di frutta e verdura o nei supermercati? Si potrebbe continuare, ma ora voglio dire due parole sulle poesie dedicategli.

Ciò che spicca, nei versi qui presenti, è il riferimento alla solitudine dell’albero; spesso, infatti, i poeti vengono colpiti da questo aspetto che è proprio di certe piante legnose, a volte situate in luoghi impervi; chi li descrive, probabilmente si sente simile a tali alberi, e ci parla, oppure li ascolta parlare. In altri versi, l’albero è talmente simile all’uomo, che si confonde con esso, e assume i medesimi comportamenti. C’è, poi, chi rimane particolarmente colpito e affranto dalla “morte” di un albero, poiché esso rappresentava qualcosa di estremamente importante per intere popolazioni del passato, che lo consideravano alla stessa stregua di una vera e propria divinità. Troppi alberi scompaiono ogni anno a causa degli uomini, e sono troppo pochi quelli che ogni anno nascono; superfluo aggiungere che, in un futuro non molto lontano, pagheremo a caro prezzo la scarsa presenza di alberi sul nostro pianeta, causata dallo sciagurato comportamento di pochi, meschini esseri umani.

 

 

GLI ALBERI IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO

 

 

ALBERO SOLO

di Angelo Barile (1888-1967)

 

Eri l’albero solo,

l’alito verde

sul piombo fuso della mia piana:

a un filo di conforto

aprivi l’afa.

 

Nel tuo circolo d’ombra

Sono entrato leggero

Quasi nel gioco della fontana.

 

Mio rifugio solingo

di un’ora,

la tenerezza della tua chioma

m’è piovuta d’intorno, mi ha chiuso

come sotto una verde campana.

 

(da “Poesie”, Scheiwiller, Milano 1986, p. 158)

 

 

 

 

ALBERO SOLITARIO

di Arnaldo Calori (1892-1950)

 

All'ombra tua mi rifugio, albero,

e ascolto e, nel silenzio,

sento che vivi.

Sento filtrare

nel terreno all'intorno,

dove insinui le mille radici,

l'umor che ti nutre

e te che suggi e respiri,

naufrago in un mare di sole.

Felice creatura

che al tacere del vento riposi

e d'inverno dormi il tuo sonno:

il languore d'autunno ti è vespro,

alba la primavera.

 

(da «Quadrivio», 26 agosto 1934)

 

 

 

 

LA MORTE DELL'ALBERO

di Sergio Corazzini (1886-1907)

 

Era il tronco possente al suolo avvinto

con radici fortissime, che grave

dolce ombra copria, come un recinto

sacro a Mercurio, delle genti prave

 

Dio consigliere... Un dì venne per nave

un uomo audace che nel labirinto

della foresta si cacciò con schiave

genti che forse in guerra aveva vinto.

 

Vide l’albero e ne ordinò la morte...

Lampeggiaron le accette nelle mani

dei lavoranti per un giorno intero.

 

E a sera nel silenzio triste e nero,

lacerato da mille solchi immani

scrosciò a terra il colosso immenso e forte.

 

(da «Marforio», 26 febbraio 1903)

 

 

 

 

CHE FARÒ PER TE, ALBERO MIO?

di Libero De Libero (1906-1981)

 

Che farò per te, albero mio?

Delle stagioni alla siepe

futile pianta ti vidi e soave

nel rumore del vento e con te

misurato crescevo al tronco

che m'afflisse per molti inverni.

Al primo fiore il cielo si finse

azzurro e i frutti assaporò l'estate.

Non io te offesi, ma settembre

che a sé basta e gli altri non bada

e tanto a me ti fa nemico.

 

(da "Romanzo", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1965, p. 84) 

 

 

 


ALBERO

di Emilio Girardini (1858-1946)

 

Alberi ce n'è tanti e verdi e folti

ben più di questo pensile ne l'aria

sul ciglio di una roccia solitaria:

alberi, non lontano, ce n'è molti.

 

Ma questo abbandonato - un vero paria

tra i suoi fratelli - ha in sé tutti raccolti

i miei pensier, gli affetti miei sepolti

sovra cui stende un'ombra funeraria.

 

E che abitasse in lui credo una strega

chi sa in qual tempo, poi che, quando è sordo

il vento, a bisbigliarmi egli si piega

 

strane novelle che poi tosto scordo.

 

(da "Poesie scelte", Arti Grafiche Friulane, Udine 1938, p. 54)

 

 

 

 

ALBERO

di Carlo Levi (1902-1975)

 

Non scambiare la scorza con il legno,

natura con impegno,

la dolce mozartiana aria amorosa

con il dolore che sotto riposa.

 

                                              12 febbraio 1946

 

(da “Poesie”, Donzelli, Roma 2008, p. 183)

 

 

 

 

L'ALBERO E LA PRIMAVERA

di Giuseppe Lipparini (1877-1951)

 

Vedi quell'esile tronco che trema sul dorso del colle?

Qui nella valle è freddo, è buio: ci opprime Scirocco

umido, greve; le cose son piene di fango e di nebbia;

grondano i rami di brina, i muri hanno odore di muffa.

 

Pure, lassù, non la vedi? là dietro quell'albero solo,

s'apre una striscia di cielo; e l'albero gracile oscilla

verso il turchino, perché lontano lontano ha veduto

lungo le prode dei fiumi sovraggiungere la primavera.

 

(da "Le foglie dell'alloro", Zanichelli, Milano 1916, p. 426)

 

 

 

 

ALBERO

di Salvatore Quasimodo (1901-1968)

 

Da te un'ombra si scioglie

che par morta la mia

se pure al moto oscilla

o rompe fresca acqua azzurrina

in riva all'Ànapo, a cui torno stasera

che mi spinse marzo lunare

già d'erbe ricco e d'ali.

 

Non solo d'ombra vivo,

ché terra e sole e dolce dono d'acqua

t'ha fatto nuova ogni fronda,

mentr'io mi piego e secco

e sul mio viso tocco la tua scorza.


(da "Poesie", Newton Compton, Roma 1992, p. 29)

 

 

 

ALBERO VECCHIO

di Fernanda Romagnoli (1916-1986)

 

Fitto tremore insidiava il suo braccio

nella manica scura,

la stretta delle dita intorno al calice

non impediva al vino di oscillare.

(Ah, come antico olivo che si spacca,

- la frattura del ramo

- la segreta secchezza delle vene).

Proseguimmo i discorsi, fingevamo

di non vedere.

Ma in sé l'albero vecchio riceveva

l'alito muto delle nostre pene:

e grigie foglioline nei suoi occhi

- intrepide -

si rialzarono a stormire

tutte le primavere possedute.

 

(da "Il tredicesimo invitato e altre poesie", Milano 2003, p. 87)

 

 

 

 

L'ALBERO ADDORMENTATO

di Giuseppe Tròccoli (1901-1962)

 

Stanco e negletto, l'albero d'olivo

Lascia che i rami suoi cedano al poggio

L'antica forza che non torna più.

Capre, qua e laà, selvatiche rodendo

Vanno ai cespugli, indifferenti e sorde

Se da la strada il carrettiere passa

E guarda a valle ove la sera scende.

C'è la cicala sola tra le fronde

Che sempre canta e non dispera mai:

 

E c'è il saluto dell'Avemaria.

Il vecchio olivo s'addormenta e sogna.

 

(da "L'ombra che ne la mente passa", Vallecchi, Firenze 1947, p. 106)

 

 

Michelle MacNeill, "Landscape with Figure and Tree"
(da questa pagina web)


venerdì 30 settembre 2022

Ritorno

 

  Sono tornato là

dove non ero mai stato.

Nulla, da come non fu, è mutato.

Sul tavolo (sull'incerato

a quadretti) ammezzato

ho ritrovato il bicchiere

mai riempito. Tutto

è ancora rimasto quale

mai l'avevo lasciato.

 

 


 

COMMENTO

Ritorno è il titolo di una poesia di Giorgio Caproni (Livorno 1912 – Roma 1990). La si può leggere nella raccolta Il muro della terra, che il poeta ligure pubblicò presso Garzanti editore, a Milano nel 1975. É la seconda poesia della sezione Feuilleton, che si trova all’interno della medesima raccolta. Io l’ho trascritta dal volume Poesie 1932-1986 (Garzanti, Milano 1993); qui sono presenti tutti i versi che Caproni pubblicò in vita; è assente invece Res amissa, pubblicata postuma nel 1991. Ritorno ben rappresenta l’ultima fase poetica di Caproni, che iniziò proprio con Il muro della terra; questa fase si caratterizza per una scarificazione del testo, e con una totale differenziazione di luoghi, argomenti e pensieri, rispetto alle raccolte precedenti. Ciò che colpisce, in questi versi, è un profondo pessimismo, esternato dal poeta tramite paesaggi desolati, domande esistenziali prive di risposta, ed una certezza: l’assenza, nel mondo, di qualunque tipo di divinità; ciò rende la vita come qualcosa di completamente insensato, e oscuro. In Ritorno, Caproni dice di essere arrivato in un luogo che, come recita il titolo, dovrebbe essere familiare e riconoscibile, ma in verità non lo è; tutto quello che il poeta trova in tale luogo è nello stesso tempo reale e irreale; la sua stessa presenza, è tutt’altro che certa. Probabilmente, in questi versi Caproni vuole porre in risalto la totale insensatezza, così come l’assurdità della vita; e il “ritorno”, rappresentato dalla morte, è in quel luogo dove ognuno di noi si trovava prima di nascere; perché tutti gli esseri viventi provengono dal nulla, e nel nulla dovranno, una volta morti, ritornare.

domenica 25 settembre 2022

"Panem nostrum..." di Fausto Maria Martini

 

Panem nostrum… è il titolo della seconda raccolta poetica di Fausto Maria Martini (Roma 1886 - ivi 1931), uscita nel 1907. Fu preceduta da Le piccole morte - pubblicata l'anno precedente - che sancì l'esordio poetico del ventenne scrittore romano. Questo libriccino, che contiene 15 liriche, fa parte della collana dei cosiddetti “piccoli libri inutili” pubblicati, a spese degli autori, dalla Cromo-tipografia Commerciale che si trovava a Roma (esattamente in via Tomacelli), nei primissimi anni del XX secolo. Panem nostrum… è il terzo della serie. La raccolta si apre con una dedica al padre del poeta, seguita una breve citazione in francese, tratta da Les trésor des humbles di Maurice Maeterlinck. Quasi tutte le poesie sono dedicate agli amici dello scrittore romano, ovvero a molti di coloro che formarono un vero e proprio cenacolo poetico, al cui centro si trovava Sergio Corazzini; questo che in seguito venne chiamato “gruppo romano”, pose le fondamenta della corrente poetica che, a partire dal 1910, fu identificata col nome di crepuscolarismo. Tornando alla raccolta, la prima poesia: La sfinge, è ispirata ad un disegno di Dante Gabriel Rosseti (probabilmente The question, del 1875); la terza poesia: Invito francescano, fu riproposta dal Martini in Poesie provinciali - terza e più famosa raccolta del 1910 – leggermente tagliata e modificata; la quarta lirica, è una libera traduzione di un testo dello scrittore francese Henri Barbusse. Sfogliando ancora il libro, ci si imbatte in Il rosario dell’anima, che porta la dedica: per Sergio Corazzini; in questi versi Martini raggiunge uno dei livelli più alti della sua poesia, raffigurando il poeta-bambino immerso in un atmosfera notturna e misteriosa, che via via si arricchisce di personaggi inerenti alla religione cristiana, osservati malinconicamente dal fanciullo malato, già presago della sua imminente morte. Altra poesia di grande valore, è La canzonetta; qui, una musica da pianoforte (probabilmente lo strumento è suonato da un bambino) che giunge nella stanza di una casa dove si trova il poeta, suggerisce una serie di sensazioni particolarmente tristi, dovute all’assenza della donna amata; il poeta ripensa al giorno in cui, accompagnata da un pianoforte, essa intonava una canzonetta il cui ritornello è rimasto nell’aria della stanza, così come il profumo della donna. Concludo con la trascrizione di queste due ultime poesie, che sono, a mio avviso, le migliori di Panem nostrum…

 

 

Frontespizio di Panem nostrum...

 

 

IL ROSARIO DELL'ANIMA

 

                                                         Per Sergio Corazzini

 

Sanguina, fra le tegole, la sera.

 

Anima, non guardare:

   la vita, oggi, è vestita di giaggiolo.

   Ripensa quel che fu: tu leggerai

   il tuo passato nei messali d'oro!

 

I mobili più lunghe ombre protendono...

 

Anima, non guardare:

   per consolazione

   hai Sant'Anna che prega con Maria,

   e i piccoli re magi di cartone...

 

Il tarlo inizia l'opera notturna.

 

Tu resti sempre solo,

   romantico poeta, ammalerai!

   Anima, non udire, se ti chiama

   la Vita, ch'è vestita di giaggiolo.

 

Il bambino malato è a la finestra.

 

Anima, non guardare:

   fra gli alberi, sereni sacerdoti

   dell'ombra, leggerai, con la sorella,

   il tuo passato nei messali d'oro!

 

Sul bambino malato un pipistrello...

 

Anima, poverella,

   io so perché rimpiangi la mattina...

   era candida come tortorella:

   Anima, il tuo passato è il tuo destino!

 

La notte, senza palpebre, ti guarda!

 

Ma nell'ombra, Sant'Anna

   ora non prega più...

   con i doni regali, in processione,

   partirono i re magi di cartone.

 

Una lampada accesa s'è già spenta.

 

Verso un altro presepe

   partirono i re magi di cartone:

   con Maria non c'è più

   Anna, Sant'Anna, la nonna di Gesù...

 

(da Panem nostrum..., pp. 35-37)

 

 

 

 

LA CANZONETTA

 

                                           Per Alberto Tarchiani

 

Una mano ha toccato il pianoforte:

   il suono, nel meriggio sonnolento

   domandava l'accordo e s'è già spento...

   quale mano ha toccato il pianoforte?

 

Certo, un bambino che non arrivava,

   anche dritto sui piedi, ai tasti neri:

   suonò, perché fra gli altri suoi pensieri,

   uno, forse, dolcissimo passava...

 

Nella tua stanza, Dio! quanto squallore!

   che desiderio di dimenticare!

   appena cade, per non ridestare

   i mobili, la cenere dell'ore...

 

Ho mosso, sul divano, i due cuscini;

   oh! come gravi! E pieni mi parevano

   dell'oblio di colei che prometteva

   di ritornare... poveri cuscini!

 

La canzonetta che dalla tua bocca

   sull'anima mi scese ultimamente,

   è rimasta profumo tra le mente

   della finestra e con la violacciocca...

 

Se tu ritorni (e tu non tornerai!)

   apri la stanza con la chiave d'oro:

   se rechi la mia vita, nel canoro

   piccolo tempio tu risuonerai!

 

Ma se invece tu rechi la mia morte

   nel ritornello d'una canzonetta,

   oh! vieni ancora! Per la canzonetta

   della mia morte è pronto il pianoforte!


(da Panem nostrum..., pp. 49-51)