Il Convito è il titolo di una preminente rivista letteraria fondata a Roma nel 1895 dal poeta Adolfo De Bosis, che ne fu anche il direttore. Sulle pagine della rivista romana si susseguirono saggi, articoli di vario genere e scritti in prosa o versi di autorevoli intellettuali italiani, tra cui Giovanni Pascoli, Gabriele D’Annunzio, Edoardo Scarfoglio, Giulio Aristide Sartorio e Enrico Panzacchi. Il XII ed ultimo libro del Convito fu pubblicato nel 1907. Ecco, infine, due testi poetici usciti per la prima volta sulla celebre rivista romana. Il primo, si compone di due sonetti dal titolo I notturni, scritti dal fondatore nonché direttore del Convito: Adolfo De Bosis (Ancona 1863 – ivi 1924); nel secondo si riporta il capitolo V del poema Rapsodia lirica di Enrico Nencioni (Firenze 1837 – Ardenza 1896).
I NOTTURNI
di Adolfo De
Bosis
I
Il Tramonto
disfiora
sue magiche
ghirlande,
lento; e una
dolce spande
malinconia per
l'ora.
Nuotano i Sogni,
ancora
naufraghi, a
elisie lande?
Ma l'Alma il puro
e grande
tuo bacio, o
Notte, implora.
Ben tu venga, o
possente
Notte! L'augusta
calma
piovi a le cose,
ed elle
bevan l'oblio
fluente
dal sen tuo
vasto, e l'Alma
vigili, con le
stelle.
II
Quali rive quiete
la nostra anima
corse
placida? O questa
è forse
la pigra acqua
d'un lete?
Quali or dunque
segrete
virtù piovver da
l'Orse
fatali? O chi mai
porse
l'onda a l'oscura
sete?
Notte, ahi me,
che improvviso
brivido fuor da
l'urna
gelida effondi! e
in lente
spire l'antico
riso
tenue, o
Taciturna,
dai
lacrimosamente.
(da «Il Convito»,
gennaio 1895)
Da "RAPSODIA
LIRICA"
di Enrico
Nencioni
V
Poi dai campi
luminosi
scendi a un
mistico giardino.
Su la soglia sta
la Morte
di cipresso
incoronata:
sta la Morte che
con gelide
immortali mani
accoglie
i fantasmi, le
memorie
di sepolti odi ed
amori;
sogni vani, amor
defunti,
germi uccisi
dalle nevi,
foglie morte, di
purpuree
tristi macchie
insanguinate;
bianche, lievi,
ultime rose;
gigli morti tra i
capelli
o sul petto a
bionde vergini
di sudore estremo
madide.
Essa a noi le sue
marmoree
braccia stende, e
al cuor ci chiude:
noi perdiam coscienza
ed essere,
noi siam morti
nella Morte.
Ma sognamo. Come
in fondo
all'oceano le
verdi alighe,
o le rame dei
coralli,
noi sognamo – ma
siam morti.
Noi sentiamo su
le palpebre
sigillate
eternamente,
sui due cuor che
più non battono,
lievi errar
l'ombre dei baci.
Noi sognamo
ardenti cantici
di purpurei
rosignoli,
lune più dei soli
splendide,
mari d'oro, e
fior di luce.
Noi sognamo
l'impossibile,
il divino,
l'ineffabile,
il gran sogno dei
poeti
noi sognamo... ma
siam morti!
(da «Il Convito»,
aprile-giugno 1896)