domenica 16 giugno 2019

Poeti dimenticati: Luigi Conforti


Nacque a Torino nel 1854 e morì a Napoli nel 1907. Figlio di Raffaele, famoso avvocato, patriota e politico (fu ministro di Grazia e Giustizia per diversi anni nella neonata nazione italiana), studiò a Siena e ivi si laureò in giurisprudenza; si spostò quindi a Firenze e nel capoluogo toscano iniziò i suoi studi letterari. Trasferitosi infine a Napoli, nella città partenopea trovò un impiego dapprima nel Banco di Napoli, poi al Museo Nazionale, dove trovò il modo di occuparsi anche di archeologia. È autore di libri di storia napoletana e di versi; questi ultimi, quasi tutti dalla struttura poematica, si distinguono per una evidente propensione verso il paganesimo, unita ad una spiccata tendenza verso il romanticismo e l'erotismo.



Opere poetiche

"Pompei", Pierro, Napoli 1888.
"Esperia", Vecchi, Trani 1889.
"Poema dei baci", Pierro, Napoli 1892.
"Poema della passione", Chiurazzi, Napoli 1898.
"I dodici Cesari", D'Auria, Napoli 1902.
"La Spiaggia delle Sirene", Marzano, Napoli 1905 (1910²)
"Sibari", Pironti, Napoli 1907.




Presenze in antologie

"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (p. 116).
"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (vol. V, pp. 49-53).




Testi

DIONISIACA

O cagne de la rabbia andate, andate
al monte, dove il coro
de le figlie di Cadmo furioso
move la danza bacchica; agitate
dei veli l'ampie spire
in orgia di baccanti.
Da la cima rocciosa, ove s'inalza
il sacro albero, erranti
le Menadi vedrete a le montane
balze discender ebbre,
agitando dei cembali
sonanti i crepitacoli.
Chi lor fu madre? Nate
da fiera leonessa o da gorgone
ne le libiche tane,
insaziate di lascivia, alternansi
quai bisce in sozzi talami,
che non le partorir viscere umane!
Chi son queste femine,
che mai non furon vergini?
Esse sen vanno in corsa scapigliata
in lunga teoria, là sovra l'erte
del Citerone e vanno ognor ne l'ansia
di nove ebbrezze,
invase da lo spirito del Dio.
Quando scintilla il vino
su per le coronate
mense, i colmi boccali
chiamano a l'orgia i cori vendemmiali
di Cadmo; sotto i pini
le dissennate figlie, cui nel fianco
arde la voluttà, fatta di morsi
di vipere e assetate
tigri, quando a Penteo
diedero strazio con l'ugne voraci.
E canti Bromio ardito:
La vita ha breve fine,
e chi l'eletta mente
volge a sublimi cure,
non consegue il presente.
Altro non v'ha per noi che il dolce oblio
dei mali, e lo concede amor soltanto!...
A le donne, che Bacco ama, ed è vanto
piacere ai giovinetti,
da le ricciute chiome
e vellutate guance,
fragranti di disio,
dolce è sfrenar le bianche
membra nei baci inconsci de l'oblio.
Il Dio con tempia carche
di draghi in serti ed angui,
d'edera i crin conserti,
per la distesa ascolta
il suon dei timballi,
e grida: A le sorgenti
del foco entro a le maschie
viscere, o ditrambo,
disfrena le tue molli
spire al vischio dei baci.
Il racemoso Iddio chiede ai celesti
non più che sonno e oblio?...

(da "Sibari")

domenica 9 giugno 2019

In ritardo


E l’acqua cade su la morta estate,
e l’acqua scroscia su le morte foglie;
e tutto è chiuso, e intorno le ventate
gettano l’acqua alle inverdite soglie;

e intorno i tuoni brontolano in aria;
se non qualcuno che rotola giù.

Apersi un poco la finestra: udii
rugliare in piena due torrenti e un fiume;
e mi parve d’udir due scoppiettìi
e di vedere un nereggiar di piume.

O rondinella spersa e solitaria,
per questo tempo come sei qui tu?

Oh! non è questo un temporale estivo
col giorno buio e con la rosea sera,
sera che par la sera dell’arrivo,
tenera e fresca come a primavera,

quando, trovati i vecchi nidi al tetto,
li salutava allegra la tribù.

Se n’è partita la tribù, da tanto!
tanto, che forse pensano al ritorno,
tanto, che forse già provano il canto
che canteranno all’alba di quel giorno:

sognano l’alba di San Benedetto
nel lontano Baghirmi e nel Bornù.

E chiudo i vetri. Il freddo mi percuote,
l’acqua mi sferza, mi respinge il vento.
Non più gli scoppiettìi, ma le remote
voci dei fiumi, ma sgrondare io sento

sempre più l’acqua, rotolare il tuono,
il vento alzare ogni minuto più.

E fuori vedo due ombre, due voli,
due volastrucci nella sera mesta,
rimasti qui nel grigio autunno soli,
ch’aliano soli in mezzo alla tempesta:

rimasti addietro il giorno del frastuono,
delle grida d’amore e gioventù.

Son padre e madre. C’è sotto le gronde
un nido, in fila con quei nidi muti,
il lor nido che geme e che nasconde
sei rondinini non ancor pennuti.

Al primo nido già toccò sventura.
Fecero questo accanto a quel che fu.

Oh! tardi! Il nido ch’è due nidi al cuore,
ha fame in mezzo a tante cose morte;
e l’anno è morto, ed anche il giorno muore,
e il tuono muglia, e il vento urla più forte,

e l’acqua fruscia, ed è già notte oscura,
e quello ch’era non sarà mai più.

 
Frontespizio di una ristampa dei "Canti di Castelvecchio" di Giovanni Pascoli

Questa che ho riportato è una delle poesie più disperate e malinconiche presenti nella raccolta di Giovanni Pascoli intitolata Canti di Castelvecchio. Apparve fin dalla prima edizione dell'opera citata, uscita nel 1903; è, più precisamente, l'ultima lirica della sezione principale che porta il titolo della raccolta, e si pone come componimento finale di una successione che ha, come struttura progettuale, quella del trascorrere delle stagioni, partendo dall'inverno e terminando con l'autunno. Praticamente ignorata dalle antologie più importanti, ricordo che la lessi per la prima volta quando comperai una ristampa di questa opera poetica che considero, insieme a Myricae, la migliore del poeta emiliano. Come già accennato, i versi di In ritardo evidenziano uno stato d'animo decisamente malinconico del poeta, dovuto alla fine dell'estate e del bel tempo, come dimostra l'ambientazione autunnale, con la caduta di una pioggia intensa, che, insieme al sinistro rumore dei tuoni, si pone a simbolo di disfacimento e rovina. Altri simboli si possono identificare nei nidi - uno vuoto ed uno occupato dai rondinini - citati al verso 39, attorno ai quali si aggirano i genitori della nidiata: due volastrucci (sono i balestrucci, ovvero un tipo di rondini dai colori bianco-azzurri), preoccupati per la sorte dei rondinini affamati; ebbene quei nidi molto ricordano la vicenda familiare del Pascoli: il nido abbandonato, ovvero la prima cova stagionale dei balestrucci, rappresenta la perdita dei genitori e dei fratelli del poeta; il secondo invece, simboleggia la precarietà e il pericolo in cui si trovava a vivere il Pascoli dopo tanti lutti familiari mai superati né rimpiazzati da altri affetti. L'ultimo verso, sentenzioso e palesemente pessimista, dichiara senza mezzi termini l'impossibilità di un ritorno del tempo trascorso - che poi coincide col tempo felice del poeta - mettendo quindi a sigillo della composizione una totale assenza di speranza ed un senso di vuoto assolutamente incolmabile.


Ruggero Pascoli (1815-1867) coi tre figli maggiori: da sinistra Giacomo (1852-1876), Luigi (1854-1871) e Giovanni (1855-1912)

domenica 2 giugno 2019

Il mattino nella poesia italiana decadente e simbolista


Il mattino nell'interpretazione dei sogni, si riferisce all’inizio di qualche cosa, alla freschezza di nuovi progetti e relazioni, alla speranza ed alla forza per agire che sono tipiche della prima parte della giornata; ma in alcuni casi (come nella poesia di Ferrero) il mattino rappresenta qualcosa da evitare: l'inizio di una nuova giornata faticosa. Nella prosa lirica Grottesco di Luigi Fallacara si evidenzia una riproposizione (riferita al mattino anziché all'alba) di una notissima poesia in prosa di Arthur Rimbaud; sempre a proposito di Fallacara, in un'altra poesia intitolata Queste mattine (che fa parte di una raccolta avente un titolo decisamente rimbaudiano) la prima parte del giorno è spesso associata alla parola "luce" e ciò avviene anche in una poesia di Girolamo Comi (poeta assai somigliante al Fallacara) come si evince da questi versi: luce pensata - giaciglio / casto e lussurioso / d'ogni giornata ch'è stata / felice nel suo volume / caldo di balsami e arioso / di giovani voli di piume... Concetti relativi alla serenità e all'idillio sono espressi anche nella poesia di Botta, mentre nei meditabondi versi di Adobati e di Cazzamini Mussi s'insinua, perfino nei mattini più pregni di rinascita quali sono quelli primaverili, una idea ed una sensazione di morte; altresì, un mattino incerto della prima primavera, può suscitare, in un poeta come De Bosis, rimpianti per la gioventù ormai lontana; pure Diego Valeri, in un caldo mattino estivo, prova un rimpianto profondo per la giovinezza che, così come la vita, lo abbandona lentamente; Donati Petteni, invece, trae spunto da un mattino senza vento, chiaro / e dolce, per rievocare il favoloso tempo dell'infanzia, e constatare di aver perso tutto l'entusiasmo verso la vita che in quel periodo possedeva. Pace e malinconia la fanno da padroni nei versi della poesia Sensazione di mattino autunnale di Roccatagliata Ceccardi; dello stesso autore è anche Melodia mattutina, qui però, sebbene si tratti ancora una volta di un mattino autunnale, s'instaura un'atmosfera tutt'altro che malinconica, ma, piuttosto, incantata e sognante. Un'estasi religiosa, come si evince dal titolo, predomina nei versi di Mattino di grazia, di Pietro Mastri, che descrive le sensazioni piacevoli del poeta, in una mattina di tardo autunno piovosa e tutt'altro che suadente. Infine Giuseppe Casalinuovo parla di un mattino primaverile indimenticabile, nel quale, invitato da una splendida creatura femminile ad allontanarsi con lei in luoghi meravigliosi, ha assaporato le più coinvolgenti gioie della natura rinascente e dell'amore.


Poesie sull'argomento
Mario Adobati: "Serenità" in "I cipressi e le sorgenti".
Gustavo Botta: "Mattinata" in "Alcuni scritti" (1952).
Giuseppe Casalinuovo: "Mattinata" in "Dall'ombra" (1907).
Francesco Cazzamini Mussi: "Pensieri d'un mattino d'aprile" in "Le amare voluttà" (1910).
Guelfo Civinini: "Mattinata" in "L'Urna" (1900).
Girolamo Comi: "luce pensata - giaciglio" in "Smeraldi" (1925).
Girolamo Comi: "Forze che vela un sonno, risalite" in "Cantico del Tempo e del Seme" (1930).
Adolfo De Bosis: "Mattino di marzo" in "Amori ac silentio e Le rime sparse" (1914).
Luigi Donati: "Mattino di Maggio" in "Le ballate d'amore e di dolore" (1897).
Giuliano Donati Pétteni: "A Renata" in "Intimità" (1926).
Luigi Fallacara: "Grottesco" in «Lacerba», febbraio 1915.
Luigi Fallacara: "Queste mattine" in "Illuminazioni" (1925).
Augusto Ferrero: "Triste risveglio" in "Nostalgie d'amore" (1893).
Corrado Govoni "Il mattino" e "Quando s'aprono le finestre" in "Gli aborti" (1907).
Tito Marrone: "Su le cupole d'oro" in "Le rime del commiato" (1901).
Pietro Mastri: "Mattino di grazia" in "La fronda oscillante" (1923).
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: "Sensazione di mattino autunnale" in «Idea Liberale», ottobre 1897.
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: "Melodia mattutina" in "Sonetti e poemi" (1910).
Diego Valeri: "Mattino d'estate" in "Umana" (1916).
Carlo Vallini: "O mattino, mattino che m'appari" in "La rinunzia" (1907).



Testi

MATTINATA
di Gustavo Botta

Salutai l'alba di perla
e l'aurora di rubino;
poi, lo sfarzoso mattino
che di rugiade s'imperla.

Sotto la fùmida gerla
de' sogni, via, tutto chino,
falòtico pellegrino,
era sparito, al vederla

la prim'alba, nel barlume,
il vecchione in bigi veli.
Oh stupori antelucani!

Ma versaste a piene mani
voi, buoni angioli, dai cieli
fiori e luce: e rise il fiume.

(da "Alcuni scritti")




SENSAZIONE DI MATTINO AUTUNNALE
di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi

La nebbia azzurra e pigra
su l'alberete gialle
torpe - una nube emigra
tacitamente a valle:
oh il bianco-azzurro velo
per la terra e sul cielo!

E di tra 'l bianco-azzurro
velo che move in lente
parvenze pel sussurro
del fogliame cadente
la veste d'or trascina
il sole in su la brina.

E in suo viaggio posa
tra fronda e fronda come
augel di radiosa
penna che da le chiome,
scenda, di folti rami,
lontanando richiami.

O pace de la villa
ne la stagion che accuora,
una gronda che stilla,
una zolla che infiora
per consolarne il verno,
un fior di Sampiterno!

- Pace misteriosa
di chi sognando cede
a un lento errore; e n'osa
meditar, e ancor crede!
ma a tratti ode da presso
un fruscìo di Cipresso...

Solitaria mattina
dal rassegnato viso,
che risplende di brina
in suo quieto riso,
tu somigli la mia
vaga melanconia:

quelle onde il cor m'agogna
profonde vie di cieli,
e lucid'ombre sogna
tra bianchi e azzurri veli:
e d'un tumulto in cima
s'infiora d'una rima.

[da "Colloqui d'ombre. Tutte le poesie (1891-1919)"]


Julian Ashton - Tamarama Beach, forty years ago, a summer morning
(da questa pagina web)


sabato 18 maggio 2019

L'intensa e breve stagione di una generazione sfortunata


  Circa un secolo fa la gloriosa storia della nostra letteratura poté contare su una generazione di scrittori molto validi, che però non furono altrettanto fortunati, tanto è vero che un numero cospicuo di essi morì prematuramente (chi nel fiore della giovinezza, chi un po' dopo) per motivi che vanno dalla grave malattia, alla guerra, al suicidio; alcuni smisero di scrivere ancor giovani, altri ancora diradarono moltissimo le loro pubblicazioni e qualcuno finì in manicomio. La generazione di cui voglio parlare è quella di letterati italiani nati pressappoco tra il 1882 ed il 1889; tra di essi ci sono poeti, prosatori, commediografi, filosofi e critici letterari che lasciarono un segno indelebile nella letteratura italiana. Chi non ricorda infatti i nomi di alcuni poeti che furono definiti crepuscolari (Guido Gozzano e Sergio Corazzini su tutti), di intellettuali che si imposero per il loro talento e le loro innovazioni, facendosi notare soprattutto per le cose pubblicate in famose riviste quali La Voce, Riviera Ligure e Lacerba; mi riferisco sia a poeti (Clemente Rebora, Dino Campana, Arturo OnofriCamillo Sbarbaro) sia a prosatori (Scipio Slataper, Federigo Tozzi) sia a critici (Giovanni Boine, Renato Serra) sia a filosofi (Carlo Michelstaedter) sia a commediografi (Sandro Camasio, Nino Oxilia). Penso che sia arduo trovare una situazione simile, per il gran numero di talenti ma anche per i fermenti ed i fervori creativi, ripercorrendo l'intera storia letteraria dell'Italia; per questo motivo mi preme ricordarli ad uno ad uno, riassumendo i loro dati biografici e le loro opere più rilevanti. Preciso che nella lista sottostante sono esclusi tutti quegli scrittori che, pur essendo altrettanto validi e pur essendo nati nel periodo di anni citati in precedenza, hanno continuato a scrivere per tutta la vita e quindi sono rimasti attivi e presenti per lungo tempo nello scenario letterario nazionale; non sarebbe spiegabile altrimenti l'esclusione di alcuni nomi importanti (per citarne alcuni: Giuseppe Ungaretti, Umberto Saba, Vincenzo Cardarelli, Emilio Cecchi e Aldo Palazzeschi).




GIOVANNI BOINE (Finalmarina 1887 - Porto Maurizio 1917). Critico letterario e scrittore, fu un assiduo collaboratore della "Voce". Di lui si ricordano le pungenti e impeccabili recensioni letterarie di Plausi e botte (postumo, 1918), un romanzo sperimantale: Il peccato (1914) e le prose liriche, anch'esse sperimentali e pregne di una espressività nuova, che furono raccolte, dopo la sua morte, col titolo Frantumi (1918). Morì di tisi a soli trent'anni.

SANDRO CAMASIO (Isola della Scala 1886 - Torino 1913). Commediografo, il suo nome è indissolublimente legato a quello di Nino Oxilia col quale scrisse commedie come La zingara (1909) e Addio giovinezza! (1911); fu anche regista cinematografico. Morì a causa di una meningite a ventisette anni.

DINO CAMPANA (Marradi 1885 - Castel Pulci 1932). Poeta visionario, fu autore di un unico volume di versi: Canti orfici (1914) che lo pone al vertice della poesia italiana primonovecentesca grazie ad alcuni elementi che molto ricordano le "Illuminations" di Arthur Rimbaud. Fu afflitto da problemi mentali e passò lunghi periodi in cliniche psichiatriche, fino al ricovero definitivo in manicomio avvenuto nel 1918.

Dino Campana


CARLO CHIAVES (Torino 1882 - ivi 1919). Poeta crepuscolare, è autore di un unico volume di versi: Sogno e ironia (1910) che pure gli diede dicreta fama, grazie anche al critico Giuseppe Antonio Borgese che parlò del suo libro in un articolo in cui ebbe a chiamare le poesie di Chiaves, così come quelle di Marino Moretti e di Fausto Maria Martini, "crepuscolari". Morì a trentasette anni nella sua Torino.

SERGIO CORAZZINI (Roma 1886 - ivi 1907). Poeta crepuscolare, scrisse versi languidi e malinconici in cui si percepisce una predisposizione alla morte, che d'altra parte lo colpì giovanissimo, a causa della tisi. Le sue opere poetiche più importanti sono: L'amaro calice (1905), Piccolo libro inutile (1906) e Libro per la sera della domenica (1906). Postumo uscì il volume riassuntivo Liriche (1908).

Sergio Corazzini


GUIDO GOZZANO (Torino 1883 - ivi 1916). Tra i maggiori poeti italiani del XX secolo fu definito da alcuni critici come l'ultimo dei classici; i suoi versi, raccolti nei volumi La via del rifugio (1907) e I colloqui (1911), mostrano la propensione di Gozzano verso l'ironia e la malinconia, motivo per il quale fu associato ai poeti crepuscolari. Morì di tisi a trentatre anni.

Guido Gozzano


PIERO JAHIER (Genova 1884 - Firenze 1966). Figlio di un pastore protestante, si dimostrò scrittore fortemente "moralista" sia nelle sue prose che nelle sue poesie presenti in opere come Resultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi (1915), Ragazzo (1919) e Con me e con gli alpini (1919); fu anche assiduo collaboratore di riviste letterarie come "La Voce" e "Riviera Ligure". Dopo l'avvento del fascismo tacque perchè in forte contrasto col regime, per tale motivo la sua opera si riassume tutta nel primo ventennio del Novecento.

TITO MARRONE (Trapani 1882 - Roma 1967). Poeta che, per certi aspetti, anticipò il crepuscolarismo, pubblicò due sole raccolte: Cesellature (1899) e Liriche (1904); tra il 1905 ed il 1907 pubblicò su varie riviste molte poesie che, secondo un progetto mai realizzato dal poeta, avrebbero dovuto far parte, insieme ad altre rimaste inedite, di un volume che però non fu mai stampato. A seguito di delusioni amorose e di gravi lutti che lo colpirono profondamente, a partire dal 1908 e per un lunghissimo periodo di tempo si assentò dal mondo letterario, tornando a dedicarsi alla letteratura e al teatro soltanto in tarda età.

CARLO MICHELSTAEDTER (Gorizia 1887 - ivi 1910). Si impegnò negli studi filosofici con assiduità e pubblicò uno scritto: La persuasione e la rettorica (1912), in cui si afferma il tema che si ritrova anche nei suoi versi (mai pubblicati in vita): il contrasto tra la vita e la morte, vissuto da Michelstaedter con particolare intensità fino alla decisione, avvenuta quando lo scrittore aveva appena ultimato la sua tesi di laurea a soli ventitre anni, di togliersi la vita.

Carlo Michelstaedter

ARTURO ONOFRI (Roma 1885 - ivi 1928). Poeta, lavorò per lungo tempo alla Croce Rossa; fondò la rivista Lirica e collaborò alla Vita Letteraria e alla Diana. Dopo le prime raccolte influenzate dalla poesia di D'Annunzio e di Pascoli, si orientò dapprima verso un frammentismo impressionista, quindi, la lettura delle opere di R. Steiner lo fece indirizzare verso un tipo di poesia trascendente e esoterica che anticipa l'ermetismo. Opere poetiche: Liriche (1907), Poemi tragici (1908), Canti delle oasi (1909), Liriche (1914), Orchestrine (1917), Arioso (1921), Le trombe d'argento (1924), Terrestrità del sole (1927), Vincere il drago! (1928), Simili a melodie rapprese in mondo (1929), Zolla ritorna cosmo (1930), Suoni del Graal (1932), Aprirsi fiore (1935).

NINO OXILIA (Torino 1889 - Monte Tomba 1917). Commediografo e poeta, scrisse in collaborazione con Sandro Camasio Addio giovinezza! (1911), commedia che riscosse un tale, eccezionale successo da farla tramutare in operetta. Fu autore di versi a metà strada tra tendenze crepuscolari e futuriste, le sue poesie migliori furono raccolte postume in Gli orti (1918). Fece in tempo a dedicarsi anche al cinema prima di perire nella Grande Guerra a soli ventotto anni.

CLEMENTE REBORA (Milano 1885 - Stresa 1957). Dopo la laurea in lettere cominciò a collaborare con varie riviste, tra cui "La Voce", per le edizioni della quale pubblicò la sua opera poetica più importante: Frammenti lirici (1913), caratterizzata da un espressionismo ed una intensa vitalità che ne fanno una tra le più originali del XX secolo. L'esperienza della Grande Guerra lo colpì drammaticamente (si possono leggere a tal proposito le sue prose liriche scritte in quel preciso periodo) e, dopo una esigua raccolta: Canti anonimi (1922) in cui già è possibile preconizzare il futuro del poeta milanese, Rebora smise di scrivere. In seguito abbracciò la fede cattolica e prese i sacramenti. Le poesie religiose che episodicamente scrisse dopo la svolta religiosa della sua vita non sono significative come il resto della sua opera in versi. Morì a seguito di una lunga e dolorosa malattia a settantadue anni.

CAMILLO SBARBARO (Santa Margherita Ligure 1888 - Savona 1967). Dopo una raccolta di versi tradizionali (Resine, 1911), si pose in evidenza con Pianissimo (1914), opera poetica di grande valore dove Sbarbaro esprime la sua estraneità, la sua passività nei confronti della vita e dell'umanità, il tutto utilizzando un linguaggio semplice, essenziale e particolarmente efficace. Non trascurabili le sue prose liriche raccolte in Trucioli (1920). Col passare degli anni diradò di molto le sue pubblicazioni sia in prosa che in versi e rielaborò la sua opera principale: Pianissimo, con risultati in verità non apprezzabili.

Camillo Sbarbaro


RENATO SERRA (Cesena 1884 - Monte Podgora 1915). Insigne critico letterario, dopo la laurea in lettere visse quasi sempre nella sua Cesena dove, oltre a dirigere una biblioteca, si dedicò assiduamente a studi, letture e ricerche da cui nacquero poi i suoi saggi più famosi e in particolare Esame di coscienza di un letterato (1915), una meditazione profonda sulla guerra cui partecipò perdendo la vita durante un combattimento a soli trentuno anni.

SCIPIO SLATAPER (Trieste 1888 - Monte Podgora 1915). Fu tra i primi collaboratori de "La Voce", nel 1912 pubblicò Il mio Carso, sorta di diario lirico che rimane la sua unica e notevole opera, sono infatti meno significativi gli Scritti letterari e critici, riuniti postumi (1920) a cura del suo concittadino Giani Stuparich. Deciso interventista, partì per la prima guerra mondiale dove cadde a soli ventisette anni.

FEDERIGO TOZZI (Siena 1883 - Roma 1920). Si dedicò inizialmente alla poesia con modesti risultati; dopo varie vicissitudini che lo portarono ad una situazione di indigenza, trovò il modo d'imporsi pubblicando le prose liriche Bestie (1917) cui seguirono i più famosi romanzi Con gli occhi chiusi (1919), Tre croci (1920) e Il podere (postumo, 1921) in cui, oltre a caratteristici personaggi della provincia toscana, lo scrittore senese inserisce alcuni elementi autobiografici. Tozzi morì a trentasette anni a causa di una epidemia di influenza spagnola.

Federigo Tozzi


CARLO VALLINI (Milano 1885 - ivi 1920). Dopo un'adolescenza turbolenta frequentò l'università di Torino ed arrivò alla laurea in lettere. Sempre a Torino conobbe Guido Gozzano di cui divenne amico; è a quel periodo che risalgono le sue due raccolte poetiche: La rinunzia e Un giorno, entrambe del 1907; è degna di nota soprattutto la seconda: sostanzialmente un poemetto filosofico che contiene ironiche e sconsolate riflessioni sulla vita e sulla morte. Negli anni successivi interruppe la sua produzione letteraria e partecipò alla Grande Guerra dove rimase gravemente ferito e, per questo motivo, morì a soli trentacinque anni.