martedì 7 agosto 2012

Da "Feria d'agosto" di Cesare Pavese


Nessun bambino ha coscienza di vivere in un mondo mitico. Ciò s’accompagna all’altro noto fatto che nessun bambino sa nulla del «paradiso infantile» a cui a suo tempo l’uomo s’accorgerà d’esser vissuto. La ragione è che negli anni mitici il bambino ha assai di meglio da fare che dare un nome al suo stato. Gli tocca vivere questo stato e conoscere il mondo. Ora, da bambini il mondo si impara a conoscerlo non - come parrebbe - con immediato e originario contatto alle cose, ma attraverso i segni di queste: parole, vignette, racconti. Se si risale un qualunque momento di commozione estatica davanti a qualcosa del mondo, si trova che ci commoviamo perché ci siamo già commossi; e ci siamo già commossi perché un giorno qualcosa ci apparve trasfigurato, staccato dal resto, per una parola, una favola, una fantasia che vi si riferiva e lo conteneva. Al bambino questo segno si fa simbolo, perché naturalmente a quel tempo la fantasia gli giunge come realtà, come conoscenza oggettiva e non come invenzione.

(Da "Feria d'agosto" di Cesare Pavese, Einaudi, Torino 2011, p. 152)





Bellissimo frammento che ho tratto dal volume Feria d’agosto di Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo 1908 – Torno 1950), in cui lo scrittore piemontese descrive, in modo ineccepibile, i sentimenti, i pensieri, le emozioni e le fantasie dell’età infantile; è un modo del tutto personale d’intendere e d’interpretare questo meraviglioso periodo della vita degli esseri umani, in cui mi è riuscito facile essere d’accordo, ripensando io stesso a quella che considero di gran lunga la parte più bella della vita: la fanciullezza. Ma Feria d’agosto non si concentra soltanto su questo argomento, che viene trattato nel capitolo Del mito, del simbolo ed altro: in questo memorabile libro, pubblicato per la prima volta nel 1946, si possono leggere racconti e prose di altro genere, altrettanto interessanti; è, insomma, una delle opere in prosa più significative di Pavese: uno dei nostri miglior scrittori del Novecento.



domenica 29 luglio 2012

Il caldo nella poesia italiana decadente e simbolista

Il caldo nella poesia decadente e simbolista è spesso associato a situazioni di dissolvimento o di profonda stasi: così in "Meriggio di luglio" di Augusto Ferrero, la canicola causa uno scioglimento del pensiero che si dilegua lentamente; situazioni simili si trovano anche in "Afa di luglio il canto che non varia" di Camillo Sbarbaro e in "Al Sangone" di Fausto M. Bongioanni, mentre in "Afa" di Corrado Govoni, l'arrivo di un terribile uragano causato dal troppo caldo assume una sorta di divino ammonimento. Un altro ricorrente simbolo che si riscontra associato al caldo è quello della forza, trasmessa in questo caso dalla potenza del sole che coi suoi penetranti raggi si insinua nelle carni umane e gli dona una vigoria inusitata, è il caso di alcuni sonetti di Carlo Vallini presenti nella raccolta "La rinunzia". A proposito del caldo, è utile ricordare l'eloquente titolo dell'opera poetica più famosa di Maurice Maeterlinck: "Serres chaudes", che vuole porre in risalto, tornando a monte, una presenza di calma assoluta, di calore intenso e di immobilità perpetua, e a tal riguardo si legga la poesia di Tito Marrone "La stufa".



Poesie sull'argomento 

Diego Angeli: "Sogno di un pomeriggio di estate" in "L'Oratorio d'Amore" (1904).
Fausto M. Bongioanni: "Al Sangone" in "Venti poesie" (1924).
Giovanni Camerana: "Canicola" in "Poesie" (1968).
Giovanni Alfredo Cesareo: "Calmeria di scirocco" in "Le consolatrici" (1905).
Federico De Maria: "Camino" in "La Ritornata" (1932).
Augusto Ferrero: "Meriggio di luglio" in "Nostalgie d'amore" (1893).
Corrado Govoni: "Afa" in "Poesie elettriche" (1911).
Giuseppe Lipparini: "Hesperos" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Tito Marrone: "La Stufa" in "Le Gemme e gli Spettri" (1901).
Nino Oxilia: "Batte sull'aia brillando il fulgido" e "Posa il meriggio..." in "Canti brevi" (1909).
Nino Oxilia: "Il canto dell'ira" in "Gli orti" (1918).
Guido Ruberti: "Nubila" in "Le fiaccole" (1905).
Camillo Sbarbaro: "Afa di luglio il canto che non varia" in "Resine" (1911).
Domenico Tumiati: "Calore precoce" in "Musica antica per chitarra" (1897).
Carlo Vallini: "Agosto, la vertigine solare" in "La rinunzia" (1907).
 
 

Testi 

CALORE PRECOCE
di Domenico Tumiati

. . . . . . . . . . . . .
L'olezzo violento
dei tuberosi viene,
e percuote le vene
lungo serpeggiamento:

quale ricordo spento
d'un'estate lontana;
d'afa meridiana
torpido spossamento,

quale corsa sfrenata
senza sapere dove,
mentre il sudore piove
da la guancia infocata.

(Da "Musica antica per chitarra")

venerdì 27 luglio 2012

A proposito di alcuni poeti dimenticati

Tra i poeti italiani dimenticati, e in particolare tra coloro che vissero e pubblicarono le loro opere a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, ne andrebbero rivalutati almeno una decina; uno di questi è senz'altro Cosimo Giorgieri Contri (1870-1945), che scrisse versi anticipatori del crepuscolarismo, specialmente in libri come "Il convegno dei cipressi"(1895), "Primavere del Desiderio e dell'Oblio" (1903) e "La donna del velo "(1905). Simile alla sua è l'opera poetica di Guelfo Civinini (1873-1954), che, pur subendo una evidente influenza dai versi di Pascoli e di D'Annunzio, apre la strada ad una lirica dai toni malinconici già nella sua prima opera poetica: "L'urna"(1901), e poi nella successiva "I sentieri e le nuvole"(1911).Nell'area simbolista (in cui l'esponente italiano più illustre è senz'altro Gian Pietro Lucini) non trascurerei la poesia di Giovanni Tecchio (1872 - ?), che in "Mysterium"(1893) e in "Le visioni"(1896) si dimostrò eccellente interprete di una corrente che nel nostro paese rimase nell'ombra; insieme a lui è da citare Alessandro Giribaldi (1874-1928), poeta sfortunato, ebbe vita assai travagliata, la sua unica raccolta poetica fu pubblicata postuma col titolo: "I Canti del Prigioniero"(1940). Un altro poeta che fu attratto dalle maniere simboliste fu Gustavo Botta (1880-1948), svolse soprattutto l'attività del critico letterario e le sue poesie, quasi tutte pubblicate in riviste del primo decennio del Novecento, uscirono in volume dopo la sua morte ("Alcuni scritti", 1952) insieme alle sue prose. Un seguace di D'Annunzio che, però, seppe interpretare in modo originale ed esteticamente ineccepibile il clima letterario di questo periodo, fu senz'altro Diego Angeli (1869-1937) il quale pubblicò un primo libricino dal titolo: "La Città di Vita" nel 1896, seguito nel 1904 dal più cospicuo: "L'oratorio d'amore". Infine ricorderei una poetessa: Luisa Giaconi (1870-1908), morta prematuramente, le sue stupende liriche, emananti atmosfere suggestive e misteriose, uscirono postume col titolo "Tebaide" (la 1° edizione è del 1909, la 2°, ampliata, fu pubblicata nel 1912) e influenzarono perfino il grande poeta Dino Campana.


Guelfo Civinini





Cosimo Giorgieri Contri




Luisa Giaconi

giovedì 26 luglio 2012

"Dal vivere" di Gaetano Arcangeli

"Dal vivere" è il titolo della prima opera letteraria firmata da Gaetano Arcangeli (Bologna 1910 - ivi 1970), poeta che ebbe il suo breve periodo di gloria per essere poi ignorato a lungo, fino alla ripubblicazione, grazie all'editore Scheiwiller, dell'intera sua opera in versi; tale evento è iniziato nel 1994 con l'uscita di "Dal vivere", un libro in cui le prose prevalgono sulle poesie e che si contraddistingue per l'estrema facilità di lettura e la palpabile schiettezza degli intimi sentimenti che lo scrittore confessa. Iniziando a parlare delle prose di questo volume, pubblicato per la prima volta dall'editore Testa in Bologna nel 1939, si potrebbe supporre che l'influenza esercitata sull'Arcangeli sia quella dei vociani, e in particolare di Vincenzo Cardarelli, sia per la prevalenza di decrizioni paesaggistiche in cui l'elemento poetico è determinante, sia per la presenza di pensieri e considerazioni molto care allo scrittore di Tarquinia. Le poesie, così come le prose, risultano estremamente semplici, senza nessun artifizio o virtuosismo di sorta, come invece accadrà nelle opere successive dell'Arcangeli; per questo motivo ritengo che "Dal vivere", malgrado alcune ingenuità e acerbità presenti, sia da ritenere la migliore opera del poeta emiliano. Ecco a riprova un saggio tratto dai versi presenti nel volume citato.
 

CREPUSCOLO DI LIBECCIO

Crepuscolo violento
già preso dall'ansia
di una notte di vento;
e l'ultima luce azzurrina
di un lembo di cielo
è spenta da un cortinaggio
di nubi consumate
da un tediosissimo viaggio.
E nell'aria tremante
passano brevi folate,
alito febbricitante
di giornate malate
rabbia imprecante
di ore dannate;
aliti di veleno
sopra le cose terrene
ch'erano così serene
nel giorno sereno.
Crepuscolo malato
di un male indefinito,
mezzo annuvolato
cielo scolorito,
scolorita città
presa da sconsolazione;
dal grido di disperazione
dell'aridità.

[1927]


mercoledì 25 luglio 2012

[La terra sogna l'ultime farfalle]

La terra sogna l'ultime farfalle
prima di risvegliarsi autunnalmente
dai veli del suo sonno trasparente
ammassati nel cavo della valle.

Volano, insieme con le foglie gialle,
sui prati, ove l'erbette macilente
s'estènuano in un soffio ond'ella sente
crescere, in ombra, funghi, muschi e galle.

Battono l'ali pavide, al riparo
delle fratte, palpandovi di fuga
fiori non più, ma qualche sterpo amaro.

Umida luce ombreggia di viola
la terra in dormiveglia, che si ruga
già del risveglio che nell'aria vola.
 
 
Una poesia di Arturo Onofri (1885-1928), tratta dall'ultima raccolta pubblicata dal poeta romano prima di morire: "Vincere il drago!" (1928). I versi si addicono molto al periodo dell'anno quando l'estate offre le sue ultime giornate miti; la terra è qui considerata come un organismo vivente che si addormenta e sogna le "ultime farfalle" per poi risvegliarsi quando è ormai autunno. Bellissima l'immagine dei lepidotteri che volano insieme alle foglie gialle staccatesi dagli alberi, magari per un colpo di vento, e che scendono sui prati dove compaiono, insieme alle erbette già secche per la lunga siccità estiva, i primi segni autunnali rappresentati da funghi (galle) e da piante (muschi).

domenica 22 luglio 2012

Lo spaventapasseri

Che tenerezza m’infonde la visione degli spaventapasseri! Questi pupazzi che si trovano, spesso, in mezzo a dei campi coltivati, sempre soli e sempre in piedi, sempre zitti e sempre dritti, con le braccia allargate e con quei loro volti così buffi…

Restano immobili sempre e comunque, con il cappellaccio squarciato, che se tira un po’ di vento gli cade in terra; coi loro stracci: una maglia sfibrata e logora oppure una giacca ammuffita, dei pantaloni stravecchi e, nel migliore dei casi, con un fazzoletto dai colori sfolgoranti al collo. Se ne stanno lì, a fare la guardia, a proteggere il campo seminato dagli uccelli affamati.

E poi piove, a volte nevica addirittura, ma loro non si muovono: non abbandonano il campo, fedelissimi al compito che gli è stato assegnato. E anche quando, ormai, gli uccelli si avvicinano a loro sempre di più, e non li temono ma quasi li sbeffeggiano, non demordono dal loro lavoro.

Ciao, poveri spaventapasseri, creati dagli esseri umani per sostituirli, per fare ciò che a loro scoccerebbe, non gli somigliate per nulla agli uomini, e non fate paura a nessuno; siete soltanto dei cenciosi pupazzi capaci d’ispirare una grande simpatia ed una enorme tenerezza! 




Un signore di paglia

che indossa vestiti
poveri, vecchi e brutti
è in mezzo ad un campo.

Non dice parole,
non piange e non ride,
è sempre all'impiedi
e non dorme mai.

Ha le braccia aperte
ogni notte e ogni dì,
guarda sempre davanti
l'orizzonte lontano.

Gli uccelli temendolo
distanti si aggirano
da quello stranissimo
orribil tipaccio.

Ma poi piano piano
si fanno coraggio
giungendo a due passi
dal mite spauracchio.

Poi il più coraggioso
gli vola sul capo
posandosi proprio
sul suo cappellaccio;

nessuna reazione
quel losco figuro,
quel tristo individuo
si prova a mostrare.

Allora altri uccelli
trovato il coraggio
raggiungono il primo
spavaldo compagno.

E In pochi minuti
quel bravo guardiano
si trova coperto
da cento animali,

ben presto per questo
sarà eliminato,
avendo fallito
la grande missione

cui egli, paziente,
serioso e preciso
si è dedicato
con tutte le forze.

Ma, ahimè, tutto ciò
a nulla gli valse
e infin, tristemente
sparire dovrà.

giovedì 19 luglio 2012

Poeti dimenticati: Giovanni Antonelli

Giovanni Antonelli


Giovanni Antonelli nacque a Sant'Elpidio al Mare nel 1851 da una famiglia benestante marchigiana. Non ancora adolescente fuggì di casa e ben presto si arruolò nella Marina militare, dove scontò numerosi periodi di reclusione in seguito a punizioni drastiche che ebbero nella sua psiche un effetto devastante. Congedatosi nel 1873, il suo ritorno a Sant'Elpidio non fu gradito, così cominciò a vagabondare in giro per l'Italia, vivendo di espedienti e di elemosine e subendo anche lunghi anni di internamento in ospedali psichiatrici. Una volta uscito definitivamente dal manicomio, visse per poco tempo in un alloggio del Comune di nascita fino a quando, nel 1909, scomparve non lasciando più alcuna traccia. Scrisse molte poesie, per lo più sonetti raccolti quasi tutti in "Il libro di un pazzo", volume pubblicato nel 1893 che mostra un uomo dalle idee decisamente rivoluzionarie che non nasconde una grande sofferenza per le oppressive leggi della società e una autentica indole libertaria.
 


Opere poetiche
"Poesie", C. Corradetti, Sanseverino Marche 1880.
"Il libro di un pazzo", Natalucci, Civitanova Marche 1892.
"Il libro di un pazzo", Tip. Economica, Reggio Emilia 1893.
"Alcuni sonetti", Premiato Stab. Tip. Cooperativo, Fermo 1907.
"Altri sonetti", Stab. Tip. Cooperativo, Fermo 1909.
 
 

Presenze in antologie
"Poeti della rivolta", a cura di Pier Carlo Masini, Rizzoli, Milano 1978 (pp. 291-295).
 
 

Testi
IL MIO PENSIERO

Vaga attraverso un caos il pensier mio
senza fren, senza meta e senza posa;
e ovunque sorge l'orma spaventosa
che solca il viver tempestoso e rio.

Ei scende e sale il lubrico pendio,
l'orror bevendo d'ogni umana cosa;
e per la via sì vasta e faticosa
nonché la speme mancagli il desìo.

Sì del calice suggo amari i sorsi,
nella piena travolto degli affanni,
che assidui sento nel mio cor dar morsi.

Che tale è il pensier mio son già lung'anni;
ma se arridesse amor co' bei soccorsi
amar tutti vorrei, sino i tiranni.

(da "Il libro di un pazzo")