venerdì 7 febbraio 2014

Il carnevale in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo

Le poesie sul carnevale dovrebbero essere allegre ma così non è quasi mai: lo stanno a dimostrare queste dieci composizioni in versi di scrittori italiani ottocenteschi. Chi racconta di tradimenti, chi di vecchiaia, chi di delirii; chi ancora narra di abusi perpetrati da uomini di potere nei confronti dei poveri festanti; chi rimpiange tempi in cui la festa era più entusiasmante e viva; chi cammina lungo le strade con la morte nel cuore e chi si accorge che, perfino una maschera allegra e scanzonata all'apparenza, quale è Arlecchino, in realtà è celatamente trafitta dal dolore.





ER CARNOVALE SMASCHERATO
di Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863)

Nonna, a li tempi ch’èrimo frittura 
e jje sfilamio la conocchia e ’r fuso,
se schiaffava una mmaschera, e cco st’uso
sce fasceva stà bboni e avé ppavura.

Me capischi? È ll’età cquella che scuso:
cos’ha da fà una povera cratura
cuanno sta sgangherata prelatura
nun pò vvéde le mmaschere sur muso?

Leva cuer po’ de mmaschere, che rresta
der Carnovale? un torzo lisscesbrisscio, 
un urinale che nnun abbi vesta.

Ma sti cazzacci cqui ppieni de pisscio
ar Papa j’arivòrteno la testa
come fussi una bboccia ar gioco-lisscio.

(Da "I sonetti romaneschi", vol. II, Lapi, Città di Castello 1886)





NOTTE DI CARNEVALE
di Emilio Praga (1839-1875)


É notte: azzurro il ciel, tonda la luna
che disegna sul lastrico i ritratti
dei comignoli; dormono i tranquilli
umani, e i gatti per le note gronde
sospirano d'amor come i poeti
dell'Arcadia; le orchestre nei teatri
fremono melodie, travolgon balli,
e delle donne, come cigni bianche,
dai palchetti la mostra è generosa.
Qui, sulle piazze il carneval sonnecchia,
e tranne il rombo di qualche carretto
che si perde nei vicoli lontani,
tutto è quiete...

Ma un canto ecco s'innalza,
e un uomo, al muro brancicando, arriva.

- Chi è, chi non è?
Oh povero me!...
Il prete lo giura,
ma nulla io ne so:
chi dice di sì, chi dice di no...
Gli è il coro dei matti che Adamo intonò!

Eppure costì
finiscono i dì:
andrem nella luna,
negli astri, o nel sol?
Non so, ma però mi esercito al vol
ché il vino le aluccie prestarmi può sol.

Ma vedi lassù...
Che avvenne, che fu?
Oh domine!... un gatto
che coda non ha!
É un vecchio ; io lo so : la gelida età
con furti siffatti burlando ci va.

Oh gatto gentil...
ti sono simil!
Che mai non perdetti
da quando fioccò
I figli morir, la moglie spirò...
Ma, basta!... io non dico, non dico di no!"

Povero vecchierello! bevi, bevi,
ché il vin ti accende un lumicin di fede!...
Se il confessor così ti sente e vede
d'ora in poi dall'altar ti caccia via,
e ti manda a buscarti i sacramenti
all'osteria.

Ma or rincasa; gelato è il primo albore;
torna, torna ubbriaco al mesto tetto
che orbò la morte d'ogni tuo diletto;
alzerà il vino un lembo al velo bruno,
rivedrai, brancolando, i tuoi parenti,
ad uno ad uno. 
- Chi sei tu? - Non ricordo...- E il domicilio?...
- Sulla terra! - Ma dove ? - É il mio segreto!
E di seguirmi vi faccio divieto;
or sulla terra, e presto sotto terra,
e presto in cielo...me lo ha detto il vino,
 e il vin non erra! -

Vattene a casa... arrivano i monelli,
la tua canizie burlata non sia;
dimmi, tua moglie la era saggia e pia?
Quante volte avrà pianto al tuo ritorno!
Per la memoria sua la brutta scena
non vegga il giorno.

Si terse una lagrima - poi disse: - o signore,
di tenero cuore - la mamma vi fe'!
Ebben, tante grazie - lasciatemi andare,
io voglio ammazzare - la fame con me.

Quei soldi eran gli ultimi - ed or son bevuti;
accetti i saluti - lasciatemi andar.
Quel bruto d'orefice...- sei lire...un anello!..
sì grosso, sì bello...- mi volle rubar.

L'anel della moglie - mio dolce signore.
un dono del core - che più non vedrò!...
Venduti son gli abiti - del povero Tonio..
la larva di un conio - più in tasca non ho.

Sa lei chi era Tonio? - mio figlio! un bel bruno!
Lavoro e digiuno - l'han fatto morir.
Gli ostieri, sa domine? - son tutti testardi...
" Eh vecchio! gli è tardi - bisogna partir ".

Partire! ma...e l'anima? - sù, lei...che ne dice?
Di un vecchio infelice - la morte cos'è?
Ha fatto i suoi studii? - ebben, che ha imparato?
Se Cristo ha burlato - oh povero me! ".

Partì brancolando. Nel ciel porporino
le pallide stelle svanivano già,
e desta al sussurro di un gaio mattino
dal sonno sorgeva la immensa città.

Le mani affilate, la faccia barbuta
del povero vecchio biancheggiano al sol...
Ma il vecchio la luce del dì non saluta,
e brontola: "Intanto mi esercito al vol!".

(Da "Penombre", Casa Editrice degli Autori-Editori, Milano 1864)





CARNEVALE
di Gaetano Leonello Patuzzi (1841-1909)

POETA
   La più ridente maschera
E la più bella vesta,
La festa - ora e la gioia!
   Domani panni laceri,
La maschera usuale,
Il male - e tetra noia!

ARLECCHINO
   Poesia! la tua nenia
Meglio non val del riso
Sul viso - all'Arlecchino.
   A te diletto è il piangere
Il tuo, l'altrui martire
E l'ire - del destino;
   E il mio diletto è il ridere
Di te, di me, di tutto
Il lutto - universale.

POETA
   Sotto la larva ipocrita
Tu sei dal duol trafitto!

ARLECCHINO
Sta zitto! - è Carnevale.

(Da "Bolle di sapone", Roux e Favale, torino 1878)





DI CARNOVALE
di Arturo Graf (1848-1913)

 Così, simile ad uno
 Spirito fulminato,
Quando il giorno si spegne e nell’arcato
 Cielo s’addensa il bruno

 Aere; a capo basso
 Per le piazze, pei trivi,
Ove si mesce il popolo dei vivi,
 Traggo lo stanco passo.

 A me d’attorno ondeggia
 La moltitudin varia;
Di risa e motti un sonito nell’aria
 Vivo e festoso echeggia.

 Intorno a me di mille
 Fiamme un barbaglio acuto,
E gale e pompe e scintillar minute
 Di gemme e di pupille.

 Erompono dagli atri
 Rumoreggiando i cocchi;
Volan le belle a folgorar con gli occhi
 I lucidi teatri.

Traggono i lieti cori
 Alle ritmiche danze,
Sogni intrecciando, voluttà, speranze,
 Desiderii ed amori.

 Pallido, affranto, muto,
 Tra i felici sol io,
Trascino il passo, memore del mio
 Paradiso perduto.

 E alcuno in me rivolto
 Guata e m’accenna altrui,
E dice: Mira; chi sarà costui
 C’ha la morte nel volto?

(Da "Medusa", Loescher, Torino 1880)





GIÀ LE STELLE SI PERDONO...
di Corrado Ricci (1858-1934)

Già le stelle si perdono a l'aurora
che di luce soave il ciel rischiara;
                      io veglio ancora,
io piango ; intanto a le fulgenti sale
pazzamente s'inneggia al carnevale!

Anch'io teco nel vortice travolto
d'allegre danze, ti vorrei furtivo
                      baciare in volto;
nello sguardo vorrei leggerti il core,
rammentarti vorrei tutto il mio amore!

Descriverti le notti insonni, i pianti
sopra i tuoi fiori amaramente sparsi,
                      i mesti canti
ch'io lagrimando sciolsi, i canti miei
pur lagrimando dirteli vorrei!

Ma tu dormi, che più non t'ange il core
la rimembranza dei passati giorni,
                      del nostro amore...
Già il ciel rischiara la tacita aurora
d'una luce soave e io veglio ancora!

(Da "I miei canti", Zanichelli, Bologna 1880)





CARNEVALE ROMANO
di Enrico Panzacchi (1840-1904)

O stanco carneval, gli allegri suoni
tu désti ancora; ancor sugli alti trampoli
urli pe'l Corso; ancor gridi a' balconi:
            «Fuori! giù, giù coriandoli!»

Ma con te la follia scuote i sonagli
torpidamente! In frotte i bimbi accorrono
meravigliati ai languidi barbagli
            de' suoi grandi occhi ceruli.

O stanco carneval, le vecchie istorie
rammenti? Uscivi dal pagan Lupercolo,
tutti intronando delle tue baldorie
            i vichi di Trastevere;

E le figlie dei papi avidamente
sugl'ignudi giudei correnti il palio
pasceano gli occhi; e il volgo penitente
            sentia più forte i pungoli


contenuti del senso. Aspro il divieto,
piantato a guardia d'ogni umano anelito,
addoppiava le fibre, e via più lieto
            erompeva il tripudio.

Passò stagione, o carnevale stanco;
passò stagione! La consuetudine
pigra or ti spinge; e tu tramuti il fianco
            briaco di cantaridi.

(Da "Poesie", Zanichelli, Bologna 1908)





AL BANCHETTO DELL'AMICO COMM. G. BERTOLDI
di Domenico Carbone (1823-1883)

Io sono il gaio spirto del Boccaccio,
Che, tra uomini allegri, onesti e dotti,
Qui scendo, ogni anno, il dì di berlingaccio,
A novellar d' arrosti e d'agnellotti.

Per vezzo antico volentier mi caccio
Dove ride allegria, .tra cibi ghiotti;
E, genio convivale, io scoppiar faccio
Le celie, i frizzi e i ribattuti motti.

Poi quando, ai fumi del Chianti natio,
S'accende il viso e l'occhio brilla, io godo,
Godo del chiasso e del giovial ciarlio.

Così, l'alito mio diffuso intorno,
In più salde amicizie i cori annodo,
E, piacevoleggiando, al ciel ritorno.

L'ultimo di Carnevale in Firenze, li 21 febbraio 1882

(Da "Poesie", Barbera, Firenze 1885)





CARNEVALE
di Giuseppe Deabate (1857-1928)

Un barbaglio di festa e di mercato,
Un delirio di rauche voci urlanti....
— Ultimo avanzo d'un tripudio andato —
Echeggia e splende in mezzo ad assordanti

Inviti e risa che paiono pianti.
— In un angolo un bimbo accovacciato
Guata dai luminosi occhi imploranti....
Passa la folla indifferente a lato;

E in quell'informe pandemonio strano
Di squallide baracche, ove schiamazza
Tutta l'ebbrezza del cervello umano,

Sferrasi e sale l'ultimo fragore....
Il Carnevale, nato dalla piazza,
Sovra la piazza delirando muore.

(Da "Il canzoniere del villaggio", Casanova, Torino 1897)





GIOVEDÌ GRASSO
di Olindo Guerrini (1845-1916)

I.

Quando il giorno apparì, livido, lento,
tra la nebbia del ciel rannuvolato,
l'ultimo lume per le vie fu spento
e l'ultimo cancan fu galoppato.

Le mascherine allor, col sonnolento
passo e col volto dalla veglia enfiato,
luride di sudor, gialle di stento,
usciron barcollando e senza fiato.

Pierrot, disfatto che mettea spavento,
mezzo briaco e mezzo addormentato,
il ritratto parea del pentimento

e Colombina intanto a lui da lato,
balbettando dicea: «Bada... mi sento...»
E con la testa al muro ha vomitato.


II.

Sotto i cenci di seta entrava il vento
che le carni mordea freddo, spietato,
e la lordura che cadea dal mento
colava a fiotti dentro il sen slacciato.

Il povero Pierrot tutto sgomento,
tossendo le chiedea: «Che cosa è stato?»
e guardava sorpreso il pavimento
dalla compagna sua contaminato.

Poi quando quell'orror fu terminato,
la mascherina si frugò un momento
in sen col fazzoletto ricamato:

indi, ripreso un poco il sentimento,
ruppe in un riso stridulo, ammalato
e sparì urlando: «Ah, che divertimento!»

(Da "Le Rime di Lorenzo Stecchetti", Zanichelli, Bologna 1903)





LA FESTA DA BALLO
di Alfredo Oriani (1852-1909)

Poc'oltre mezzanotte in carnevale,
mentre più ferve delle danze l'ora,
scheletro muto salirò le scale
del tuo palazzo per vederti ancora.

Nelle notturne, fiammeggianti sale
rosea passerai come l'aurora,
ma dai cavi miei occhi un freddo strale
ti colpirà nel cor, bella signora.

E ti dirò, non visto cavaliero
fra tanta luce, d'aurei riflessi:
V'è ballo questa notte in cimitero,
danzano i morti in mezzo dei cipressi.

I fidi amanti van sotto le arcate
per l'ombra avvolti in candidi lenzuoli
e tornano a sognar la grande estate,
odor di rose e canti d' usignuoli.

Vieni. La luna solitaria imbianca
di freddo argento il nostro camposanto;
non ti ricordi? Non ti senti stanca
d'esser sola tu che mi amavi tanto?

Non ti ricordi i baci, i giuramenti
e quello sguardo, che mi ardeva il cuore,
quando toccando colle dita aulenti
le mie ferite sospiravi: «Amore,

amore mio, che fu? Perchè ferito
ti sei a morte, amore mio crudele?
Portami teco o solo mio marito,
o solo amante del mio cor fedele.

Portami teco: il cor non s'impaura
se a te la morte nell'amor sorrise;
eternamente dormirò sicura
sopra il tuo cuore, che per me s'uccise».

Ma lungamente nella tomba attesi
la tua promessa, o nobile signora.
Oh! quante volte ai nuovi morti chiesi
s'eri venuta, s'eri bella ancora.

Bella, infedele ad altri cor suggevi
un altro sangue dalle ree ferite;
o mio vampiro dagli artigli brevi,
o bianca donna dalla faccia mite,

vieni a danzar nel muto cimitero,
poiché danzando non fan chiasso i morti;
non ebbe mai più fido cavaliero superba
dama superba di regali corti.

Ballano dentro quel pallor d'argento
gli spettri avvolti in candidi lenzuoli;
vieni, la danza in lungo avvolgimento
ci rapirà con amorosi voli,

finchè del gallo al terzo canto, quando
l'avara luce noi spiriti caccia,
nel mio sepolcro dormirai posando,
o dolce amor, fra le mie scarne braccia.

Né temere per cosa che ti desti
sciorti più mai dal freddo abbracciamento;
le promesse d'amor che mi facesti,
lassù nel mondo, non le sparse il vento.

Se la stanza nuzial non ha lucerna,
né s'apre al sole che nel ciel rimonta,
non ti lagnare qui nell'ombra eterna
son fidi i morti ed è l'amor senz'onta.

Son fidi i morti. Ancor Francesca al vento
della bufera che giammai non resta,
fra pianti fiochi e voci di lamento,
levando al cielo la superba testa,

guarda i beati nell'eterna brama
lungi da Dio girar pel paradiso,
e stretta al collo dell'amante esclama:
«Questi che mai da me non fia diviso!».


(Da "Monotonie", Cappelli, Bologna 1934)

mercoledì 29 gennaio 2014

Poeti dimenticati: Giulio Pinchetti

Nacque a Como nel 1844 e morì a Milano nel 1870, dopo essersi sparato due colpi d'arma da fuoco. Laureatosi in Legge a Pavia, iniziò a subire quella grave sofferenza psicologica che lo avrebbe portato alla prematura morte, ciò è dovuto anche ai gravi lutti che dovette affrontare (gli morì prima il padre e poi la fidanzata). Dopo aver lasciato la scuola militare di Asti si trasferì di nuovo a Como per intraprendere l'attività di notaio; nel contempo si dedicò al giornalismo. Andò quindi ad abitare a Milano dove collaborò con la "Gazzetta di Milano"; l'anno dopo altri gravi lutti colpirono definitivamente il suo fragile animo che non riuscì più a sopportare il peso della vita. L'unico suo volume poetico uscì nel 1868: qui emerge lo spirito ribelle del Pinchetti, ma anche si nota una leopardiana vena malinconica e, in alcuni casi, una disperazione senza sbocchi. Nel 1974 presso l'editore Marzorati di Milano uscì un volume di "Opere" che raccoglie, oltre alle poesie edite e inedite, anche articoli, lettere, appunti e pensieri dello scrittore comasco.


Opere poetiche

"Versi", Ostinelli, Como 1868.





Presenze in antologie

"Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 242-243).
"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (vol. III, pp. 45-47).
"Poeti della rivolta", a cura di Pier Carlo Masini, Rizzoli, Milano 1978 (pp. 109-118).
"Lirici della Scapigliatura", seconda edizione aggiornata a cura di Gilberto Finzi, Mondadori, Milano 1997 (pp. 173-184).

"La poesia scapigliata", a cura di Roberto Carnero, Rizzoli, Milano 2007 (pp. 327-342).



Testi

Placata alfin ti spero, ombra di morte!
Non più terror, non più bugiarda speme
Al grand'atto or mi fan tremulo il ferro.
Preclusa è l'ora e la preclude il mio
Disperato dolor. Tregua ai consigli:
Giovane io moro, e non però lamento
I molti dì ch'anco durar potea,
Ché della vita omai nessun mistero
È a me celato, e ben mi so che tutto,
Tutto è dolor...

(Da "Opere")




[...] No, non è effetto d'esaltazione o di delirio questa mia estrema risoluzione, mentre non sono mai stato calmo né logico come adesso: è frutto di sei mesi, intendete bene, di sei mesi di lotte acerbissime, di scoraggiamenti e di illusioni, di vera agonia di spirito: e tutte queste lotte, tutti questi scoraggiamenti m'hanno condotto a dire: il mondo è cattivo; tu non eri nato per essere uomo. Vi figurate voi, il non posare mai il pensiero, né di giorno né di notte, il veder tutto nero come un funerale, il sentirsi l'anima che se ne va, e la materia che cresce di imbecillità, il sospirare sempre un passato irrevocabile e non scoprire nessun avvenire più mai: dite: vi figurate voi tutto ciò? Vi figurate voi uno spirito infermo alle prese con un demonio tenace, astuto, minuto, che ti scivola da una parte e che giammai puoi afferrare? Che ti offende, ti strazia freddamente e non si lascia mai guardare in volto? Vi figurate voi un'anima che sente, che non vorrebbe che amare, costretta a rodersi, a piangere, a maledire?... Ebbene: in questa lotta io cedo: sono stanco di stringer fantasmi;... nel segreto della tomba, nella mia cappella mortuaria avrò, almeno là, lo spero... un po' di pace! [...]

(Da "Opere")

domenica 26 gennaio 2014

La neve in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo

Le dieci poesie seguenti furono scritte tutte negli anni del XIX secolo. Gli autori sono poeti italiani attivi particolarmente nella seconda metà dell'Ottocento e molti di loro furono (a torto) considerati minori. Leggendole si intuirà che spesso si privilegia la visione, la descrizione dell'evento atmosferico e, secondariamente, le emozioni, i pensieri che tale evento suscita nelle anime nobili di chi scrive dei versi. Si differenziano dalle altre le poesie di Corrado Corradino, Severino Ferrari e Enrico Panzacchi (potrebbe essere aggiunto anche Giovanni Pascoli, ma ciò che cambia l'atmosfera rassicurante del testo è, nel suo caso, il solo titolo); questi tre poeti non si soffermano ad elencare i particolari del paesaggio innevato, ma si concentrano su temi spiccatamente sociali: vogliono cioè mettere in risalto il fatto che la neve e il freddo possono divenire una tragedia per chi non ha i mezzi per affrontarli adeguatamente.





FOLTA È LA NEVE
di Giovanni Camerana (1845-1905)

    Folta è la neve
Sui nodi biechi dei tronchi e sui rami
Atteggiati da scheletro
Nel cielo buio e greve.

    Laggiù i tugùri
Sonnecchiano di freddo e di tristezza;
Paion sepolcri e tumuli
I lor profili oscuri.

    Torpido fuma
Un comignolo, il segno unico vivo;
Filo vago e nericcio
Sopra il fondo di bruma.

    Vedi! è deserta
La strada, è tutta candida, e si perde
In mezzo alle casupole
Tortuosa ed incerta;

    È bianca, è queta,
Fa pensare al Natale ed ai Re Magi;
Rivolge la memoria
Verso l’infanzia lieta;

    Verso le aurore
Traversate dai cento cherubini
Della speranza, e i rosei
Nimbi del primo amore;

    Giorni lontani
Come una vela nel mare, e svaniti
Come fanno le nuvole
E i grandi echi montani;

    Ed io ripenso
Le precoci sepolte, e guardo i rami
Atteggiati da scheletro
Nel grigio umido e denso.

(Da "Versi", Streglio, Torino 1907)





NEVICATA
di Giosuè Carducci (1835-1907)

Lenta fiocca la neve pe 'l cielo cinerëo: gridi,
suoni di vita piú non salgon da la città,

non d'erbaiola il grido o corrente rumore di carro,
non d'amor la canzon ilare e di gioventú.

Da la torre di piazza roche per l'aere le ore
gemon, come sospir d'un mondo lungi dal dí.

Picchiano uccelli raminghi a' vetri appannati: gli amici
spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.

In breve, o cari, in breve - tu càlmati, indomito cuore -
giú al silenzio verrò, ne l'ombra riposerò.

(Da "Odi barbare", Zanichelli, Bologna 1910)





IDILLIO NOTTURNO
di Corrado Corradino (1852-1923)

«Noi veniamo dal ciel, dove più d'uno
Direbbe volentieri: io ci rimango.
Noi veniamo dal ciel vuoto, importuno,
E discendiamo in terra a far del fango.»

Così diceano i fiocchi della neve
Lenti per la notturna aria danzando:
Era tutto silenzio, e solo un lieve
Fischio di vento udivi a quando a quando.

Delle case i domestici genietti
Seduti sulle cappe dei camini
Si narravano certo a denti stretti
I misteri dei tepidi stanzini,

'U l'aria è piena del romor dei baci
Sotto le molli coltrici sonanti,
E nel sonno si stringono tenaci
I corpi dei bambini e degli amanti;

Ove sul capo degli addormentati
Si addensan l'ombre del divino oblio,
E nei cor dalle veglie affaticati
La quiete discende, unico iddio.

Allor sì, che i domestici genietti
Gridavan per le canne dei camini:
«State tranquilli dentro i vostri letti;
Che freddo acuto fuor degli stanzini!»

Che freddo! e di che sconce lividure
Segnava d'una misera la faccia!
Si trascinava per le strade oscure
E nude al ciel levava ambo le braccia.

Nel suo cammino ell'era tutta sola
E i muri rasentando barcollava;
Dicea la neve: Povera figliola!
Ma intorno e accanto a lei l'uomo russava.

Con le gonne facea velo alla testa
La sciagurata, ed al livido seno;
E per gli squarci della poca vesta
Apparia degli strani occhi il baleno.

E intanto camminava, camminava
Pel fangoso sentier, pur barcollando;
E così fra sé stessa bestemmiava
Pazzamente come ebbra sghignazzando:

— Viva il mondo perdio! con la sua prole
Il buon Signore fa le cose spicce;
Figlie, a noi dice, scaldatevi al sole!
E alle dame : Per voi ci ho le pellicce.

Damine immacolate, al vigil lume
Della lucerna oh come il sonno è grato,
Mentre distesa in sul guancial di piume
La comoda virtù vi russa allato!

Intanto che col placido sposino
Voi ricambiate un bacio e uno sbadiglio
Io qui, megera lurida, trascino
Il mio vizio e me stessa nel motriglio.

(Da "Su pe 'l calvario", Casanova, Torino 1889)





NEVICATA (VICINO A LEIDA)
di Edmondo De Amicis (1846-1908)

I.

Sulla campagna squallida e pensosa
Scende la neve a larghi fiocchi e lenti,
E sui morbidi strati rilucenti,
Immaculata e tacita si posa;

Scende, d'un fitto vel copre ogni cosa,
Copre casette, ponti, acque dormenti,
E colma fossi e imbianca bastimenti.
E scende senza fine e senza posa;

E via pei campi, dietro al bianco velo,
Gli alti mulini in grande atto severo
Tendon le braccia irrigidite al cielo;

E del piano bianchissimo al confine
Segna la vecchia Leida un arco nero...
Nevica senza posa e senza fine.


II.

Io veggo nelle tepide casine
Gli olandesi panciuti ed opulenti
Seduti intorno ai caminetti ardenti
Sbuffare il fumo in larghe onde azzurrino,

Stare a mensa con le fronti chine
Argomentando in riposati accenti,
E macinar gli arrosti succulenti
Con le lente mascelle elefantine;

Veggo le caste mogli e i grossi putti,
E il placido gatton lucido e bello
E monti di formaggi e di prosciutti;

E i larghi letti insidiati invano
Su cui l'Amore ha scritto a stampatello:
Chi va piano va sano e va lontano.

(Da "Poesie", Treves, Milano 1880)





NEVE
di Severino Ferrari (1856-1905)

Neve, te canti allegra fata il poeta stolto,
mentre coi piedi caldi sta centellando il ponce;
e a chi 'l granaio scricchia nel peso del raccolto
e s'alzano legnaie d'olmi e querciuoli acconce.

Ma t'odia cui l'inverno con doppia spada offende,
la fame e il freddo acuti. Chi poi sotterra ha care
memorie, ad ogni falda che sulle tombe scende
dentro ti sente crescere e sopra il cuor pesare.

(Da "Nuovi versi", Stab. tipo-litografico Pietro conti, Faenza 1888)





NEVE IN CITTÀ
di Giovanni Marradi (1852-1922)

E da una striscia argentea di cielo,
che fra i neri edifici alta serpeggia,
neve e neve giù giù fiocca e volteggia
muta al tuo muto soffio, aria di gelo.

E nel freddo silenzio, a quando a quando,
fra i palagi di marmo, ove ancor bella
vive in refugi tepidi la vita,
qualche ombra umana affrettasi, pestando,
sotto il fioccar che ogni orma ne cancella,
quel candor molle come una fiorita.
E in bianca pioggia di fiori infinita
vien danzando giù giù neve su neve,
lieve a ogni soffio che tu soffii lieve
fra i palagi di marmo, aria di gelo.

(Da "Poesie", Barbera, Firenze 1907)





LA NEVE
di Guido Mazzoni (1859-1943)

Mite è la neve. Lieve vien giù da un cielo di perla
Come il piovente fiore de' biancospini;

Silenziosa vien giù, s'aggira volando, sussulta,
Come farfalle lungo la siepe nuova.

Sopra le vie fangose, su le arse campagne da' ghiacci,
Morbida, bianca, scende la neve pia,

Ed al maligno verno che sta su le terre domate
Tanto squallore splendidamente cela.

Crescon per lei sicure le timide punte del grano:
Sognano il raggio de' rinfiammati soli;

Cresce per lei la speme di messi fiorenti; e il colono
Sogna la falce tra le mature spighe.

Mira il fanciullo a' vetri che il fiato fumante gli appanna;
Forti trastulli dona la neve a lui.

Mira alla lente il dotto; di stelle e di rigidi fiori
Studio sagace dona la neve a lui.

Tace per lei l'imbelle stridor delle vie cittadine;
Tra gli alti monti bollono urlando i fiumi:

D'una feroce gioia esultano i fiumi, che presto
Gonfi a ruina diserteranno il piano.

Colpa ne ha la neve. Lei, vergine bianca, dall'alto
Delle montagne traggono a forza seco,

Strappanle il manto puro. Di que' lutolenti all'amplesso
Cede la neve, vergine bianca, e muore.

(Da "Poesie", Zanichelli, Bologna 1913)





NEVICATA
di Ada Negri (1870-1945)

Sui campi e su le strade
Silenziosa e lieve,
Volteggiando, la neve
                    Cade.

Danza la falda bianca
Ne l'ampio ciel scherzosa
Poi sul terren si posa
                    Stanca.

In mille immote torme
Sui tetti e sui camini,
Sui cippi e nei giardini
                    Dorme.

Tutto dintorno è pace:
Chiuso in oblio profondo,
Indifferente il mondo
                    Tace....

Ma ne la calma immensa
Torna ai ricordi il core,
E ad un sopito amore
                    Pensa.

(Da "Fatalità", Treves, Milano 1892)





NELLA NEVE
di Enrico Panzacchi (1840-1904)

Sull'alba, è intatta al suolo
la grande nevicata
che fioccò tutta notte.

Poi sul bianco lenzuolo
appar qualche pedata:
piè grandi e scarpe rotte.

Soffre la vita o dorme.
Ai bimbi il verno è crudo
come all'età cadente.

Veggo, fra l'altre, l'orme
d'un picciol piede ignudo
che m' attrista la mente.

Ahi, ahi!, chi vi ristora,
o tremanti piedini
di fanciullo errabondo?

E vi son dunque ancora
dei poveri bambini
che van, scalzi, pe'l mondo?

(Da "Poesie", Zanichelli, Bologna 1908)





ORFANO
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca.
Senti: una zana dondola pian piano.
Un bimbo piange, il piccol dito in bocca;
canta una vecchia, il mento sulla mano.

La vecchia canta: Intorno al tuo lettino
c’è rose e gigli, tutto un bel giardino.
Nel bel giardino il bimbo s’addormenta.
La neve fiocca lenta, lenta, lenta.

(Da "Myricae", Giusti, Livorno 1903)


John Henry Twachtman, "Snow"
(da questa pagina Web)

mercoledì 22 gennaio 2014

Poeti dimenticati: Antonello Caprino

Antonello Caprino nacque a Sassari nel 1886 e morì a Roma, 1954. Dalla Sardegna si trasferì ben presto con la famiglia a Roma. Nella capitale italiana completò gli studi (si laureò in Giurisprudenza nel 1911). Negli anni della gioventù si interessò di poesia ed entrò in contatto col cenacolo romano che faceva riferimento a Sergio Corazzini; con quest'ultimo nacque un'amicizia testimoniata da alcune lettere che i due si scrissero. Pubblicò qualche poesia sulle riviste letterarie d'inizio Novecento ma non vide mai la luce un suo libro di versi.



Presenze in antologie

"Neoidealismo e rinascenza latina tra Ottocento e Novecento", a cura di Angela Ida Villa, LED, Milano 1999 (pp. 462-468).



Testi

A LA PAMPHILI

 Vagava già la nuova Primavera
per la serena villa dei Pamphili,
vergine esigua, bianca, di sottili
vesti fiorite, sovra i piè leggera.

E noi andavamo con la Primavera
per i quieti viali signorili,
e su l'anime nostre giovenili
piovevano i misteri de la sera.

E accese al respiro del sole
avvampavan le ciglia a la pineta,
custode degli accordi maliosi:

andavamo, così, senza parole,
avvinti da una musica segreta,
che ci facea più pallidi e pensosi!

(Da "Incontri con Fausto e altri crepuscolari", 1981)