Le poesie sul
carnevale dovrebbero essere allegre ma così non è quasi mai: lo stanno a
dimostrare queste dieci composizioni in versi di scrittori italiani
ottocenteschi. Chi racconta di tradimenti, chi di vecchiaia, chi di delirii;
chi ancora narra di abusi perpetrati da uomini di potere nei confronti dei
poveri festanti; chi rimpiange tempi in cui la festa era più entusiasmante e
viva; chi cammina lungo le strade con la morte nel cuore e chi si accorge che,
perfino una maschera allegra e scanzonata all'apparenza, quale è Arlecchino, in
realtà è celatamente trafitta dal dolore.
ER CARNOVALE
SMASCHERATO
di Giuseppe
Gioacchino Belli (1791-1863)
Nonna, a li tempi
ch’èrimo frittura
e jje sfilamio la
conocchia e ’r fuso,
se schiaffava una
mmaschera, e cco st’uso
sce fasceva stà bboni
e avé ppavura.
Me capischi? È ll’età
cquella che scuso:
cos’ha da fà una
povera cratura
cuanno sta
sgangherata prelatura
nun pò vvéde le
mmaschere sur muso?
Leva cuer po’ de
mmaschere, che rresta
der Carnovale? un
torzo lisscesbrisscio,
un urinale che nnun
abbi vesta.
Ma sti cazzacci cqui
ppieni de pisscio
ar Papa j’arivòrteno
la testa
come fussi una
bboccia ar gioco-lisscio.
(Da "I sonetti
romaneschi", vol. II, Lapi, Città di Castello 1886)
NOTTE DI CARNEVALE
di Emilio Praga (1839-1875)
É notte: azzurro il
ciel, tonda la luna
che disegna sul
lastrico i ritratti
dei comignoli;
dormono i tranquilli
umani, e i gatti per
le note gronde
sospirano d'amor come
i poeti
dell'Arcadia; le
orchestre nei teatri
fremono melodie,
travolgon balli,
e delle donne, come
cigni bianche,
dai palchetti la
mostra è generosa.
Qui, sulle piazze il
carneval sonnecchia,
e tranne il rombo di
qualche carretto
che si perde nei
vicoli lontani,
tutto è quiete...
Ma un canto ecco
s'innalza,
e un uomo, al muro
brancicando, arriva.
- Chi è, chi non è?
Oh povero me!...
Il prete lo giura,
ma nulla io ne so:
chi dice di sì, chi
dice di no...
Gli è il coro dei
matti che Adamo intonò!
Eppure costì
finiscono i dì:
andrem nella luna,
negli astri, o nel
sol?
Non so, ma però mi
esercito al vol
ché il vino le
aluccie prestarmi può sol.
Ma vedi lassù...
Che avvenne, che fu?
Oh domine!... un
gatto
che coda non ha!
É un vecchio ; io lo
so : la gelida età
con furti siffatti
burlando ci va.
Oh gatto gentil...
ti sono simil!
Che mai non perdetti
da quando fioccò
I figli morir, la
moglie spirò...
Ma, basta!... io non
dico, non dico di no!"
Povero vecchierello!
bevi, bevi,
ché il vin ti accende
un lumicin di fede!...
Se il confessor così
ti sente e vede
d'ora in poi
dall'altar ti caccia via,
e ti manda a buscarti
i sacramenti
all'osteria.
Ma or rincasa; gelato
è il primo albore;
torna, torna ubbriaco
al mesto tetto
che orbò la morte
d'ogni tuo diletto;
alzerà il vino un
lembo al velo bruno,
rivedrai,
brancolando, i tuoi parenti,
ad uno ad uno.
- Chi sei tu? - Non
ricordo...- E il domicilio?...
- Sulla terra! - Ma
dove ? - É il mio segreto!
E di seguirmi vi
faccio divieto;
or sulla terra, e
presto sotto terra,
e presto in
cielo...me lo ha detto il vino,
e il vin non erra! -
Vattene a casa...
arrivano i monelli,
la tua canizie
burlata non sia;
dimmi, tua moglie la
era saggia e pia?
Quante volte avrà
pianto al tuo ritorno!
Per la memoria sua la
brutta scena
non vegga il giorno.
Si terse una lagrima
- poi disse: - o signore,
di tenero cuore - la
mamma vi fe'!
Ebben, tante grazie -
lasciatemi andare,
io voglio ammazzare -
la fame con me.
Quei soldi eran gli
ultimi - ed or son bevuti;
accetti i saluti -
lasciatemi andar.
Quel bruto
d'orefice...- sei lire...un anello!..
sì grosso, sì
bello...- mi volle rubar.
L'anel della moglie -
mio dolce signore.
un dono del core -
che più non vedrò!...
Venduti son gli abiti
- del povero Tonio..
la larva di un conio
- più in tasca non ho.
Sa lei chi era Tonio?
- mio figlio! un bel bruno!
Lavoro e digiuno -
l'han fatto morir.
Gli ostieri, sa
domine? - son tutti testardi...
" Eh vecchio!
gli è tardi - bisogna partir ".
Partire! ma...e l'anima?
- sù, lei...che ne dice?
Di un vecchio
infelice - la morte cos'è?
Ha fatto i suoi
studii? - ebben, che ha imparato?
Se Cristo ha burlato
- oh povero me! ".
Partì brancolando.
Nel ciel porporino
le pallide stelle
svanivano già,
e desta al sussurro
di un gaio mattino
dal sonno sorgeva la
immensa città.
Le mani affilate, la
faccia barbuta
del povero vecchio
biancheggiano al sol...
Ma il vecchio la luce
del dì non saluta,
e brontola:
"Intanto mi esercito al vol!".
(Da
"Penombre", Casa Editrice degli Autori-Editori, Milano 1864)
CARNEVALE
di Gaetano Leonello
Patuzzi (1841-1909)
POETA
La più ridente maschera
E la più bella vesta,
La festa - ora e la
gioia!
Domani panni laceri,
La maschera usuale,
Il male - e tetra
noia!
ARLECCHINO
Poesia! la tua nenia
Meglio non val del
riso
Sul viso -
all'Arlecchino.
A te diletto è il piangere
Il tuo, l'altrui
martire
E l'ire - del
destino;
E il mio diletto è il ridere
Di te, di me, di
tutto
Il lutto -
universale.
POETA
Sotto la larva ipocrita
Tu sei dal duol
trafitto!
ARLECCHINO
Sta zitto! - è
Carnevale.
(Da "Bolle di
sapone", Roux e Favale, torino 1878)
DI CARNOVALE
di Arturo Graf (1848-1913)
Così, simile ad uno
Spirito fulminato,
Quando il giorno si
spegne e nell’arcato
Cielo s’addensa il bruno
Aere; a capo basso
Per le piazze, pei trivi,
Ove si mesce il
popolo dei vivi,
Traggo lo stanco passo.
A me d’attorno ondeggia
La moltitudin varia;
Di risa e motti un
sonito nell’aria
Vivo e festoso echeggia.
Intorno a me di mille
Fiamme un barbaglio acuto,
E gale e pompe e
scintillar minute
Di gemme e di pupille.
Erompono dagli atri
Rumoreggiando i cocchi;
Volan le belle a
folgorar con gli occhi
I lucidi teatri.
Traggono i lieti cori
Alle ritmiche danze,
Sogni intrecciando,
voluttà, speranze,
Desiderii ed amori.
Pallido, affranto, muto,
Tra i felici sol io,
Trascino il passo,
memore del mio
Paradiso perduto.
E alcuno in me rivolto
Guata e m’accenna altrui,
E dice: Mira; chi
sarà costui
C’ha la morte nel volto?
(Da
"Medusa", Loescher, Torino 1880)
GIÀ LE STELLE SI
PERDONO...
di Corrado Ricci (1858-1934)
Già le stelle si
perdono a l'aurora
che di luce soave il
ciel rischiara;
io veglio ancora,
io piango ; intanto a
le fulgenti sale
pazzamente s'inneggia
al carnevale!
Anch'io teco nel
vortice travolto
d'allegre danze, ti
vorrei furtivo
baciare in volto;
nello sguardo vorrei
leggerti il core,
rammentarti vorrei
tutto il mio amore!
Descriverti le notti
insonni, i pianti
sopra i tuoi fiori
amaramente sparsi,
i mesti canti
ch'io lagrimando
sciolsi, i canti miei
pur lagrimando
dirteli vorrei!
Ma tu dormi, che più
non t'ange il core
la rimembranza dei
passati giorni,
del nostro amore...
Già il ciel rischiara
la tacita aurora
d'una luce soave e io
veglio ancora!
(Da "I miei
canti", Zanichelli, Bologna 1880)
CARNEVALE ROMANO
di Enrico Panzacchi (1840-1904)
O stanco carneval,
gli allegri suoni
tu désti ancora;
ancor sugli alti trampoli
urli pe'l Corso;
ancor gridi a' balconi:
«Fuori! giù, giù coriandoli!»
Ma con te la follia
scuote i sonagli
torpidamente! In
frotte i bimbi accorrono
meravigliati ai
languidi barbagli
de' suoi grandi occhi ceruli.
O stanco carneval, le
vecchie istorie
rammenti? Uscivi dal
pagan Lupercolo,
tutti intronando
delle tue baldorie
i vichi di Trastevere;
E le figlie dei papi
avidamente
sugl'ignudi giudei
correnti il palio
pasceano gli occhi; e
il volgo penitente
sentia più forte i pungoli
contenuti del senso.
Aspro il divieto,
piantato a guardia
d'ogni umano anelito,
addoppiava le fibre,
e via più lieto
erompeva il tripudio.
Passò stagione, o
carnevale stanco;
passò stagione! La
consuetudine
pigra or ti spinge; e
tu tramuti il fianco
briaco di cantaridi.
(Da
"Poesie", Zanichelli, Bologna 1908)
AL BANCHETTO
DELL'AMICO COMM. G. BERTOLDI
di Domenico Carbone (1823-1883)
Io sono il gaio
spirto del Boccaccio,
Che, tra uomini
allegri, onesti e dotti,
Qui scendo, ogni
anno, il dì di berlingaccio,
A novellar d' arrosti
e d'agnellotti.
Per vezzo antico
volentier mi caccio
Dove ride allegria,
.tra cibi ghiotti;
E, genio convivale,
io scoppiar faccio
Le celie, i frizzi e
i ribattuti motti.
Poi quando, ai fumi
del Chianti natio,
S'accende il viso e
l'occhio brilla, io godo,
Godo del chiasso e
del giovial ciarlio.
Così, l'alito mio
diffuso intorno,
In più salde amicizie
i cori annodo,
E, piacevoleggiando,
al ciel ritorno.
L'ultimo di Carnevale
in Firenze, li 21 febbraio 1882
(Da
"Poesie", Barbera, Firenze 1885)
CARNEVALE
di Giuseppe Deabate (1857-1928)
Un barbaglio di festa
e di mercato,
Un delirio di rauche
voci urlanti....
— Ultimo avanzo d'un
tripudio andato —
Echeggia e splende in
mezzo ad assordanti
Inviti e risa che
paiono pianti.
— In un angolo un
bimbo accovacciato
Guata dai luminosi
occhi imploranti....
Passa la folla
indifferente a lato;
E in quell'informe
pandemonio strano
Di squallide
baracche, ove schiamazza
Tutta l'ebbrezza del
cervello umano,
Sferrasi e sale
l'ultimo fragore....
Il Carnevale, nato
dalla piazza,
Sovra la piazza
delirando muore.
(Da "Il
canzoniere del villaggio", Casanova, Torino 1897)
GIOVEDÌ GRASSO
di Olindo Guerrini (1845-1916)
I.
Quando il giorno
apparì, livido, lento,
tra la nebbia del
ciel rannuvolato,
l'ultimo lume per le
vie fu spento
e l'ultimo cancan fu
galoppato.
Le mascherine allor,
col sonnolento
passo e col volto
dalla veglia enfiato,
luride di sudor,
gialle di stento,
usciron barcollando e
senza fiato.
Pierrot, disfatto che
mettea spavento,
mezzo briaco e mezzo
addormentato,
il ritratto parea del
pentimento
e Colombina intanto a
lui da lato,
balbettando dicea:
«Bada... mi sento...»
E con la testa al
muro ha vomitato.
II.
Sotto i cenci di seta
entrava il vento
che le carni mordea
freddo, spietato,
e la lordura che
cadea dal mento
colava a fiotti dentro
il sen slacciato.
Il povero Pierrot
tutto sgomento,
tossendo le chiedea:
«Che cosa è stato?»
e guardava sorpreso
il pavimento
dalla compagna sua
contaminato.
Poi quando
quell'orror fu terminato,
la mascherina si
frugò un momento
in sen col fazzoletto
ricamato:
indi, ripreso un poco
il sentimento,
ruppe in un riso
stridulo, ammalato
e sparì urlando: «Ah,
che divertimento!»
(Da "Le Rime di
Lorenzo Stecchetti", Zanichelli, Bologna 1903)
LA FESTA DA BALLO
di Alfredo Oriani (1852-1909)
Poc'oltre mezzanotte
in carnevale,
mentre più ferve
delle danze l'ora,
scheletro muto salirò
le scale
del tuo palazzo per
vederti ancora.
Nelle notturne,
fiammeggianti sale
rosea passerai come
l'aurora,
ma dai cavi miei
occhi un freddo strale
ti colpirà nel cor,
bella signora.
E ti dirò, non visto
cavaliero
fra tanta luce,
d'aurei riflessi:
V'è ballo questa
notte in cimitero,
danzano i morti in
mezzo dei cipressi.
I fidi amanti van
sotto le arcate
per l'ombra avvolti
in candidi lenzuoli
e tornano a sognar la
grande estate,
odor di rose e canti
d' usignuoli.
Vieni. La luna
solitaria imbianca
di freddo argento il
nostro camposanto;
non ti ricordi? Non
ti senti stanca
d'esser sola tu che
mi amavi tanto?
Non ti ricordi i
baci, i giuramenti
e quello sguardo, che
mi ardeva il cuore,
quando toccando colle
dita aulenti
le mie ferite
sospiravi: «Amore,
amore mio, che fu?
Perchè ferito
ti sei a morte, amore
mio crudele?
Portami teco o solo
mio marito,
o solo amante del mio
cor fedele.
Portami teco: il cor
non s'impaura
se a te la morte
nell'amor sorrise;
eternamente dormirò
sicura
sopra il tuo cuore,
che per me s'uccise».
Ma lungamente nella
tomba attesi
la tua promessa, o
nobile signora.
Oh! quante volte ai
nuovi morti chiesi
s'eri venuta, s'eri
bella ancora.
Bella, infedele ad
altri cor suggevi
un altro sangue dalle
ree ferite;
o mio vampiro dagli
artigli brevi,
o bianca donna dalla
faccia mite,
vieni a danzar nel
muto cimitero,
poiché danzando non
fan chiasso i morti;
non ebbe mai più fido
cavaliero superba
dama superba di
regali corti.
Ballano dentro quel
pallor d'argento
gli spettri avvolti
in candidi lenzuoli;
vieni, la danza in
lungo avvolgimento
ci rapirà con amorosi
voli,
finchè del gallo al
terzo canto, quando
l'avara luce noi
spiriti caccia,
nel mio sepolcro
dormirai posando,
o dolce amor, fra le
mie scarne braccia.
Né temere per cosa
che ti desti
sciorti più mai dal
freddo abbracciamento;
le promesse d'amor
che mi facesti,
lassù nel mondo, non
le sparse il vento.
Se la stanza nuzial
non ha lucerna,
né s'apre al sole che
nel ciel rimonta,
non ti lagnare qui
nell'ombra eterna
son fidi i morti ed è
l'amor senz'onta.
Son fidi i morti.
Ancor Francesca al vento
della bufera che
giammai non resta,
fra pianti fiochi e
voci di lamento,
levando al cielo la
superba testa,
guarda i beati
nell'eterna brama
lungi da Dio girar
pel paradiso,
e stretta al collo
dell'amante esclama:
«Questi che mai da me
non fia diviso!».
(Da
"Monotonie", Cappelli, Bologna 1934)