domenica 30 novembre 2025

Riviste: "Aretusa"

 Aretusa è il titolo di una rivista fondata a Napoli nel 1944 da Francesco Flora. Dal 4° numero (settembre-ottobre 1944), a Flora subentrò Fausto Nicolini. Una nuova e decisiva svolta per la rivista si ebbe a partire dal 7° numero (marzo 1945), perché la sede si trasferì a Roma, da bimestrale divenne mensile e alla sua direzione passò Carlo Muscetta. Aretusa chiuse i battenti nell'agosto del 1946. Nata quando ancora non erano del tutto chiare le sorti dell'Italia in guerra, la rivista si pose subito in contrasto con la dittatura fascista, rivendicando una purezza della parola scritta e un umanesimo volto alla libertà in senso lato. Con Muscetta alla direzione, Aretusa si incanalò verso temi concernenti una disamina del ventennio appena trascorso, e di una nuova, fruttuosa collaborazione tra anime appartenenti a varie e diverse opinioni di pensiero. Le pagine della rivista romana non videro soltanto articoli e testi letterari, poiché vi comparvero anche saggi di politica, storia e arte in generale. Tra i collaboratori più illustri di Aretusa si ricordano i nomi di Benedetto Croce, Corrado Alvaro, Vitaliano Brancati, Walter Binni, Alberto Moravia e Libero Bigiaretti. Ecco, per finire, tre poesie comparse per la prima volta su Aretusa.


Prima pagina del primo numero di "Aretusa"
(da questa pagina web)



LA CASA SUL MARE

di Sergio Ortolani


Avevo, nel tempo, una casa

toccata ogn'intorno dal mare.

S'udiva per dentro la scala

il succhio delle onde gonfiare.


Al sommo le cento vetrate

tinnivano fragili ai venti:

era una materia vibratile

musicata dagli elementi.


In quella casa solitaria

cresciuta per me dalle spume

tanto era il mare che l'aria

prendeva un verdissimo lume.


E sulle ignude pareti

che aveano la grana del sale

mettean le tempeste magnetiche

cangianti fluori d'opale.


A volte cortine di fiamme

iridate d'arcobaleni,

come siderali orifiamme

frangiavano i cieli sereni.


Poi diaccia la notte d'acciaio

rendeva ogni luce dal mondo.

I denti d'un solo ghiacciaio

bucavano il mare di piombo.


Passavano bastimenti

con velature d'argento,

senza ciurma, a lumi spenti,

le sartie fischiavano al vento.


Con la fronte alla vetrata

li vedea naufragare pian piano

e quella musica delirata

mi strappava il cuore lontano.


(da «Aretusa», maggio/giugno 1944)





VERSI A GIAIME PINTOR

di Antonio Russi


È permesso a chi cadde nella lotta

di marcire

solo?

È permesso alla foglia imputridita dall'autunno

di sciogliersi nella terra

per sempre?


È permesso alla rondine

abbandonata all'inverno straniero

di nascondersi tra la neve

la testa sotto l'ala?


È permesso al figlio di un paese defunto

di lasciarsi morire con in bocca

un pugno della terra

che si chiama ancora

Italia?


(da «Aretusa» maggio/giugno 1944)





SERENATA

di Giorgio Bassani


Ora che in lenti vortici come una chioma di neve

che oscure dita tormentano, la nebbia delle paludi

fuma alla tua finestra, e una bufera di buie

lacrime ti ridesta dentro sudate e grevi


coltrici; ora che è gelo e tenebra, dà voce

chiusa forma in ascolto a quel tuo tetro grammofono.

Uscita dalla nube al vetro, atroce

calma mano salutami, amaro riso sepolto.


(da «Aretusa», gennaio/febbraio 1946)



domenica 23 novembre 2025

Porta Venezia

 I castagnai dei bastioni 

Di nuovo accendono i fuochi. 

La giostra della nebbia 

I lumi di Porta Venezia. 

Seduta al parapetto 

Mi parli all'orecchio. 

L'odore  di neve, 

Le tue parole. 

Piove non piove.





COMMENTO

Porta Venezia è il titolo di una poesia di Raffaele Carrieri (Taranto 1905 - Pietrasanta 1984). Io l'ho trascritta dal volume Stellacuore, pubblicato dalla Mondadori di Milano nel 1970, dove la si può leggere alla pagina 176 (vedi foto sopra); in questo volume c'è la possibilità di leggere anche quasi tutti i versi di Carrieri, dai suoi esordi (la prima raccolta poetica che diede alle stampe nel 1945 s'intitola Lamento del Gabelliere) al 1970. Io lessi per la prima volta questi versi in una antologia della poesia italiana del Novecento pubblicata dalla Garzanti di Milano nel 1980 (ma la comperai una dozzina di anni dopo). Fu tramite la lettura delle sei poesie presenti in quest'opera antologica, che mi accorsi della indubbia bravura di Raffaele Carrieri: un poeta ancora oggi sottovalutato o addirittura dimenticato. I nove versi di questa composizione poetica si concentrano su alcuni particolari fondamentali per chi li ha scritti, perché gli hanno destato di più l'attenzione, lasciandogli un ricordo incancellabile di una parte di una giornata trascorsa al centro di Milano. Innanzi tutto c'è da dire che Porta Venezia è una delle sei porte principali di Milano, e si trova nella zona est del capoluogo lombardo; c'è da aggiungere che Carrieri trascorse a Milano diversi anni della sua esistenza, lavorando irregolarmente in svariati settori. Volendoci ora dedicare alla mera descrizione dei versi, si può affermare che fotografino un giorno tra la fine dell'autunno e l'inizio dell'inverno; l'ora, stando ad alcuni particolari come i lumi accesi, potrebbe essere tardo-pomeridiana o serale; il luogo, come detto, è il centro di Milano (presso Porta Venezia), dove il poeta si trovava forse per una passeggiata, insieme ad una donna che, probabilmente, era la sua compagna. Ed ecco una serie di piccoli accadimenti che si susseguono in questo preciso contesto, descritti in modo magistrale, che praticamente immortalano quel momento: i castagnai che si sono appostati presso le mura spagnole di Milano (i famosi bastioni), stanno accendendo i fuochi sui quali pongono - all'interno di una padella forata - le castagne, per poterle cuocere e quindi venderle (le squisite caldarroste che è possibile gustare anche al centro di Roma); l'immancabile, tipica nebbia milanese che si muove come fosse una giostra; i lumi già accesi nella piazza per il calare della visibilità; le parole segrete, dette sottovoce dalla donna (che è seduta su un parapetto) vicino all'orecchio del poeta; un odore di neve che preannuncia l'inizio della stagione invernale e che fa pensare ad una temperatura vicina allo zero; l'eco delle parole della donna che rimane impresso nella mente del poeta e infine una pioviggine discontinua. Una serie di elementi, quindi, che possono essere paragonati ad una serie di scatti fotografici atti a cristallizzare dei momenti particolari, all'apparenza di un giorno qualunque, ma in realtà importanti, perché è molto probabile che il poeta stesse vivendo un giorno o un periodo d'intensa felicità, e volesse immortalarlo con una piccola sequenza di versi, capaci di ben rappresentare quello stato di benessere fisico e mentale. 

domenica 16 novembre 2025

I rumori nella poesia italiana decadente e simbolista

I rumori, nei versi di questi poeti hanno diverse origini e variegate simbologie. La Aganoor, associa il suono delle sonagliere nel cuore della notte a pensieri “miti” e “mansueti” di “rinuncia”. Un rumore notturno è anche quello udito da Enrico Annibale Butti, seppure di diversa natura: il poeta infatti viene bruscamente svegliato da una sorta di sibilo; difficile è capire quale sia l’origine del rumore percepito dall’uomo, il quale si fa delle domande al riguardo, non trovando alcuna risposta. Notturni sono anche i passi del poeta Dino Campana, che cammina sulla prora di una nave e rimane quasi incantato dal ritmico battere delle sue scarpe sul pavimento dell’imbarcazione. Rimanendo in ambito notturno, inquietante a dir poco è il suono di un misterioso squillo di tromba udito dagli esseri umani di ogni parte del globo terrestre che, spaventati da quell’intenso e improvviso rumore si riversano sui campi e sulle strade cittadine in cerca dell’origine di quel suono che si perpetua in una notte infinita, e sembra annunciare la fine del mondo. Ancora la notte, e ancora dei rumori inquietanti sono i protagonisti della poesia di Satta, dove il poeta non può riposare perché infastidito e tormentato dal martellare continuo di un corvo su “rotte rupi”, così come dal ronzio ininterrotto del fuso che fila una parca: entrambi i rumori simboleggiano qualcosa di sinistro, forse le ossessioni che angustiano lo stesso poeta. Assillante, continuo e infinito è anche il rumore provocato dai colpi di un’accetta, proveniente dalla parte più profonda di un parco, presente nella poesia di Guelfo Civinini; ovviamente è misteriosa l’origine di questi colpi, anch’essi di valore simbolico. Il ronzio di un bombo che sbatte sul vetro esterno della finestra di una casa, diviene, nella poesia del Pascoli, qualcosa di particolarmente enigmatico: è come se l’insetto cercasse di entrare nell’abitazione del poeta, perché fortemente intenzionato a riferirgli una notizia importante, che lo riguarda direttamente; oppure nel bombo potrebbe essersi reincarnata una persona deceduta, cara al poeta, ansiosa di rimettersi in contatto con lui. Due tarli: uno reale ed uno simbolico, sono i protagonisti della poesia di Arturo Colautti; il primo è quello che erode il legno del vecchio letto che si trova nella casa dove vive, e dove vissero i suoi antenati; il secondo invece dimora nella testa del poeta, e scava anche lui – non il legno ma il cervello del malcapitato – che si affligge perché incerto sulla sincerità dell’amore dichiaratogli dalla donna che lui sa di amare alla follia.

 

 

Poesie sull’argomento

 

Vittoria Aganoor: "Sonagliere" in "Nuove liriche" (1908).

Ugo Betti: "Il cuore sepolto" in "Il Re pensieroso" (1922).

Enrico Annibale Butti: "Sonno interrotto" in "Dai nostri poeti viventi" (1903).

Dino Campana: "Batte botte" in "Canti Orfici" (1914).

Enrico Cavacchioli: "Rêverie" in "L'Incubo Velato" (1906).

Francesco Cazzamini Mussi: "Veglia" in «Poesia», ottobre 1909.

Giovanni Alfredo Cesareo: "Il campanello" in "Poesie" (1912).

Guelfo Civinini: "L'accetta" in "I sentieri e le nuvole" (1911).

Arturo Colautti: "Il tarlo" in "Canti virili" (1896).

Alessandro Giribaldi: "Su l'alba" in "Canti del prigioniero e altre liriche" (1940).

Arturo Graf: "Lo squillo" in "Morgana" (1901).

Angiolo Orvieto: "Selva e mare" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).

Aldo Palazzeschi: "La ferita del silenzio" in "I cavalli bianchi" (1905).

Giovanni Pascoli: "Il nunzio" in "Myricae" (1900).

Francesco Pastonchi: "Tramontata è la luna" in "Il pilota dorme" (1913).

Antonio Rubino: "Cavalcata" in «Poesia», ottobre 1908.

Sebastiano Satta: "Notte tra i monti" in "Canti barbaricini" (1910).

Mario Venditti, "Notturno" in "Il terzetto" (1911).

 

 

 

Testi

 

LA FERITA DEL SILENZIO

di Aldo Palazzeschi

 

Fa un lento romore costante

la fonte ch'è sotto l'arcata del ponte

che il monte riunisce pel passo dei treni.

 

(da "I cavalli bianchi. Lanterna. Poemi", Empirìa, Roma 1996, p. 27)

 

 

 

 CAVALCATA

di Antonio Rubino

 

Varca i cieli un velario di festoni

straziato dal vento a brano a brano:

in sui confini dei settentrioni

rigurgita di nembi l'uragano.

 

Le mostruose conflagrazioni

covano un sordo brontolio lontano:

flagella il vento gli ermi torrioni

dell'erma rupe, mugolando vano.

 

Ma un inno, un corruscar d'armi lucenti,

vivi rompendo dai più folti grembi,

pervadono il dominio dei venti;

 

qual fremito di trilli e di nitriti

corre, o Notte, la tua chioma di nembi,

o Notte, o madre dei cantanti miti?

 

(da «Poesia», ottobre 1908, p. 5)

 

 

Ferdinand Hodler," Holzfaeller"
(da questa pagina Web)

domenica 9 novembre 2025

Antologie: "Poeti italiani del secondo Novecento 1945-1995"

 Poeti italiani del secondo Novecento 1945-1995 è il titolo di un'antologia che fu pubblicata nella collana dei Meridiani della Mondadori di Milano nel 1996; i curatori dell'opera sono Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi. Personalmente ricordo che, subito dopo l'uscita di questo libro, uno dei due curatori partecipò ad una trasmissione televisiva di Rai Tre, il cui argomento principale era la letteratura; io guardavo regolarmente questo programma che, se non erro, andava in onda dal lunedì al venerdì; quel giorno, insieme al curatore dell'antologia, erano presenti nello studio televisivo diversi poeti inclusi o meno nelle pagine dell'antologia citata; rimasi colpito dalle accese discussioni, nate sulla struttura e su altri dettagli riguardanti questo nuovo libro, che evidentemente non piacque a tutti. Io non mi feci certamente influenzare da tali discussioni e, qualche giorno dopo mi recai in una libreria ad acquistare l'opera antologica, sapendo che vi avrei trovato cose interessanti. Così, ebbi modo di fare ulteriori scoperte, nell'ambito della poesia italiana del secondo Novecento. Il periodo preso in considerazione, giustamente parte dal 1945: anno cruciale per l'Europa e per il mondo intero, perché fu proprio nel '45 che terminò la guerra più devastante del XX secolo. Il termine, per far sì che venga considerato un intero cinquantennio, è il 1995. La selezione comprende in tutto sessanta poeti ed è divisa in dodici sezioni; si parte dai "maestri", ovvero dalla generazione dei poeti nati negli anni Dieci del Novecento, e che poeticamente esordì prima del 1945; si arriva agli "Anni Ottanta", ossia alla generazione di coloro che nacquero negli anni Cinquanta. Soltanto due poeti: Andrea Zanzotto e Giovanni Giudici, occupano intere sezioni a loro dedicate. Sempre parlando personalmente, furono tre gli scrittori che "scoprii" grazie a quest'antologia: Giampiero Neri, Michele Ranchetti e Giuseppe Piccoli; presenti in sezioni diverse, questi poeti sono stati sicuramente trascurati dai critici, almeno per quel che concerne la fase iniziale della loro attività poetica; qualcuno, sebbene in ritardo, è stato in seguito rivalutato e consacrato ed oggi gode di buona fama; qualcun altro, scomparso prematuramente, ancora oggi è negletto. Da leggere attentamente sono sia l'introduzione che le presentazioni dei poeti, scritte dai due curatori dell'opera; meticolosa e dettagliata è la parte intitolata Profili biobibliografici degli autori, che si trova a conclusione del libro. Chiudo, come sempre, riportando i nomi di tutti i poeti compresi in quest'antologia, inseriti nelle sezioni di cui ho parlato. 



POETI ITALIANI DEL SECONDO NOVECENTO






LA PRESENZA DEI MAESTRI

Attilio Bertolucci, Mario Luzi, Giorgio Caproni, Vittorio Sereni.


OFFICINA

Pier Paolo Pasolini, Franco Fortini, Roberto Roversi.


QUARTA GENERAZIONE

Luciano Erba, Nelo Risi, Bartolo Cattafi, Giorgio Orelli, Rocco Scotellaro, Maria Luisa Spaziani, Umberto Bellintani, Alda Merini.


ZANZOTTO, L'ONTOLOGIA DEL LINGUAGGIO

Andrea Zanzotto.


L'AVANGUARDIA

Elio Pagliarani, Edoardo Sanguineti, Alfredo Giuliani, Nanni Balestrini, Antonio Porta, Amelia Rosselli.


GIUDICI, LA VITA IN VERSI

Giovanni Giudici.


L'ETICA DEL QUOTIDIANO

Giovanni Raboni, Giancarlo Majorino, Giampiero Neri, Giorgio Cesarano, Tiziano Rossi.


QUATTRO PERCORSI APPARTATI

Lucio Piccolo, Lorenzo Calogero, Fernando Bandini, Michele Ranchetti.


IN DIALETTO

Tonino Guerra, Albino Pierro, Franco Loi, Raffaello Baldini, Franco Scataglini.


NARRATORI POETI

Elsa Morante, Giorgio Bassani, Paolo Volponi, Ottiero Ottieri, Alberto Bevilacqua, Nico Orengo.


IL PUBBLICO DELLA POESIA

Dario Bellezza, Cesare Viviani, Patrizia Cavalli, Valentino Zeichen, Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Gregorio Scalise, Giuseppe Conte, Mario Santagostini, Giuseppe Piccoli, Biancamaria Frabotta, Paolo Ruffilli, Vivian Lamarque.


ANNI OTTANTA

Valerio Magrelli, Patrizia Valduga, Roberto Mussapi, Gianni D'Elia.

domenica 2 novembre 2025

'A livella

 Non è certamente il caso di spendere ulteriori parole riguardanti lo straordinario e direi ineguagliabile talento che appartiene all'attore Totò (pseudonimo di Antonio De Curtis, Napoli 1898 - Roma 1967); in questo post voglio invece ricordarlo come artista a tutto tondo, ovvero come poeta (fu anche autore di canzoni famose come Malafemmena). Non sono sicuramente io a scoprire Totò da questo punto di vista, poiché la poesia di seguito riportata, è assai celebre, probabilmente più di tante altre scritte da poeti insigni. È - come tutte le altre di Totò - in dialetto napoletano, ma questo non significa minimamente che vi siano delle parti poco chiare. Il tema di 'A livella - così s'intitola la poesia, prendendo a simbolo uno strumento di misura utilizzato per determinare la pendenza di una superficie rispetto a un piano orizzontale di riferimento -, è quello della morte quale equiparatrice di tutte le ineguaglianze della vita. In un cimitero, nel giorno della commemorazione dei defunti, un uomo per caso si ritrova presso due tombe assai differenti tra loro; all'interno ci sono i corpi e le anime di due personaggi appartenenti a ceti sociali totalmente opposti: un marchese e uno spazzino. Il marchese è sepolto all'interno di una tomba lussuosa, ornata da vistosi lumi e da fiori particolarmente belli; lo spazzino invece è stato seppellito sotto un mucchio di terra, e per ricordarlo ci sono solamente un lumicino e una scabra croce di legno con su scritto a mala pena il suo nome. Nei versi di Totò è come se, dopo il trapasso, le anime del marchese e dello spazzino dimorassero proprio nelle loro tombe, e avessero quindi anche il modo d'incontrarsi e colloquiare. È ciò che accade quel giorno davanti agli occhi increduli dell'occasionale visitatore; tra i due fantasmi nasce una discussione, poiché il marchese si lamenta della presenza - accanto al suo sepolcro - di una tomba così misera, che nulla ha a che vedere con la sua; dopo aver sollecitato lo spazzino ad allontanarsi da lui, e dopo che quest'ultimo ha umilmente presentato le sue scuse al marchese, attribuendo la colpa dell'accaduto alla moglie, i toni si alzano e in seguito alle reiterate lamentele del marchese, il poveruomo reagisce in modo rabbioso, cercando di far comprendere all'altro defunto quale sia la realtà dei fatti: in vita esistono i marchesi e gli spazzini ovvero i ricchi e i poveri, ma una volta giunta la morte, tutti quanti sono uguali e non esistono differenze sociali; le tombe sono state edificate dai vivi, e rappresentano quei valori sbagliati che secondo i viventi hanno gli individui: i ricchi sono sepolti in tombe monumentali, i poveri sotto un po' di misera terra. Il fatto è che i morti, dovunque si trovino i loro tumuli, non solo sono impossibilitati a qualunque azione, ma - secondo il pensiero di Totò - hanno o dovrebbero avere atteggiamenti più realistici e consapevoli perché, come recita l'ultimo verso della poesia: nuje simmo serie... appartenimmo â morte!



'A LIVELLA


Ogn'anno, il due novembre, c'è l'usanza

per i defunti andare al Cimitero.

Ognuno ll'adda fa' chesta crianza;

ognuno adda tené chistu penziero.


Ogn'anno, puntualmente, in questo giorno,

di questa triste e mesta ricorrenza,

anch'io ci vado, e con dei fiori adorno

il loculo marmoreo 'e zi' Vicenza.


St'anno m'é capitato 'n'avventura...

dopo di aver compiuto il triste omaggio

(Madonna!), si ce penzo, che paura!

ma po' facette un'anema e curaggio.


'O fatto è chisto, statemi a sentire:

s'avvicinava ll'ora d''a chiusura:

io, tomo tomo, stavo per uscire

buttando un occhio a qualche sepoltura.


«QUI DORME IN PACE IL NOBILE MARCHESE

SIGNORE DI ROVIGO E DI BELLUNO

ARDIMENTOSO EROE DI MILLE IMPRESE

MORTO L’11 MAGGIO DEL TRENTUNO.»


'O stemma cu 'a curona 'ncoppa a tutto...

...sotto 'na croce fatta 'e lampadine;

tre mazze 'e rose cu 'na lista 'e lutto:

cannele, cannelotte e sei lumine.


Proprio azzeccata 'a tomba 'e stu signore

nce stava 'n ata tomba piccerella,

abbandunata, senza manco un fiore;

pe' segno, sulamente 'na crucella.


E ncoppa 'a croce appena se liggeva:

«ESPOSITO GENNARO NETTURBINO».

Guardannola, che ppena me faceva

stu muorto senza manco nu lumino!


Questa è la vita! 'Ncapo a me penzavo...

chi ha avuto tanto e chi nun ave niente!

Stu povero maronna s'aspettava

ca pur all'atu munno era pezzente?


Mentre fantasticavo stu penziero,

s'era ggià fatta quase mezanotte,

e i' rimanette 'nchiuso priggiuniero,

muorto 'e paura... nnanze 'e cannelotte.


Tutto a 'nu tratto, che veco 'a luntano?

Ddoje ombre avvicenarse 'a parte mia...

Penzaje: stu fatto a me mme pare strano...

Stongo scetato... dormo, o è fantasia?


Ate che fantasia; era 'o Marchese:

c'o' tubbo, 'a caramella e c''o pastrano;

chill'ato apriesso a isso un brutto arnese;

tutto fetente e cu 'na scopa mmano.


E chillo certamente è don Gennaro...

'omuorto puveriello...'o scupatore.

'Int' a stu fatto i' nun ce veco chiaro:

so' muorte e se ritirano a chest'ora?


Putevano stà 'a me quase 'nu palmo,

quando 'o Marchese se fermaje 'e botto,

s'avota e, tomo tomo... calmo calmo,

dicette a don Gennaro: «Giovanotto!


Da Voi vorrei saper, vile carogna,

con quale ardire e come avete osato

di farvi seppellir, per mia vergogna,

accanto a me che sono blasonato?!


La casta è casta e va, sì, rispettata,

ma voi perdeste il senso e la misura;

la vostra salma andava, sì, inumata;

ma seppellita nella spazzatura!


Ancora oltre sopportar non posso

la vostra vicinanza puzzolente.

Fa d'uopo, quindi, che cerchiate un fosso

tra i vostri pari, tra la vostra gente».


«Signor Marchese, nun è colpa mia,

i' nun v'avesse fatto chistu tuorto;

mia moglie è stata a ffa' sta fesseria,

i' che putevo fa' si ero muorto?


Si fosse vivo ve farrie cuntento,

pigliasse 'a casciulella cu 'e qquatt'osse,

e proprio mo, obbj'... 'nd'a stu mumento

mme ne trasesse dinto a n'ata fossa.»


«E cosa aspetti, oh turpe malcreato,

che l'ira mia raggiunga l'eccedenza?

Se io non fossi stato un titolato

avrei già dato piglio alla violenza!»


«Famme vedé… - piglia 'sta violenza...

'A verità, Marché', mme so' scucciato

'e te sentì; e si perdo 'a pacienza,

mme scordo ca so' muorto e so mazzate!...


Ma chi te cride d'essere... nu ddio?

Ccà dinto, 'o vvuò capì, ca simmo eguale?...

...Muorto si' tu e muorto so' pur'io;

ognuno comme a 'na'ato è tale e qquale.»


«Lurido porco!... Come ti permetti

paragonarti a me ch'ebbi natali

illustri, nobilissimi e perfetti,

da fare invidia a Principi Reali?»


«Tu qua' Natale... Pasca e Ppifania!!!

T''o vvuo' mettere 'ncapo... 'int''a cervella

che staje malato ancora e' fantasia?...

'A morte 'o ssaje ched'è?... è una livella.


'Nu rre, 'nu maggistrato, 'nu grand'ommo,

trasenno stu canciello ha fatt''o punto

c'ha perzo tutto, 'a vita e pure 'o nomme:

tu nu t'hè fatto ancora chistu cunto?


Perciò, stamme a ssentì... nun fa' 'o restivo,

suppuorteme vicino - che te 'mporta?

Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive:

nuje simmo serie... appartenimmo â morte!»


(da 'A livella e Poesie d'amore, Newton Compton, Roma 1995, pp. 31-35)