Cronologicamente parlando, il primo dei miei quattro nonni morì l'undici di agosto del 1985. Ricordo ancora quella data, perché la sua scomparsa rappresentò, per la mia giovane vita, una sorta di spartiacque; avevo previsto, ovviamente, che prima o poi i miei nonni sarebbero deceduti, ma, comunque quell'evento luttuoso mi rimase impresso nella mente, ed ancora oggi lo ricordo perfettamente, molto di più degli altri tre, verificatisi dopo alcuni anni. Questa personale riflessione mi è utile per introdurre i versi di seguito riportati, di un poeta sconosciuto, il cui nome è Giuseppe Tadini; di lui non sono riuscito a trovare dati biografici, so soltanto che pubblicò una raccolta poetica intitolata Primi fantasmi (Tip. dell'Esercente, Milano 1907) e due opere teatrali; si potrebbe aggiungere, da qualche notizia non sicurissima rintracciata nel web, che nacque a Milano. Il testo qui presente è tratto dal volume di versi in precedenza citato, e il tema principale è proprio la morte del nonno del poeta. L'avo perì quando Giuseppe era ancora un fanciullo, e, come ben spiega la poesia, non poteva ancora comprendere pienamente il senso reale della morte. Quando, la sera stessa del tragico evento, chiese alla mamma dove fosse andato il nonno, la donna, piangendo un po' gli rispose semplicemente che stava dormendo. Una volta cresciuto, il poeta capì che il nonno era scomparso per sempre, e che la morte delle persone care è qualcosa di estremamente doloroso e nel contempo non comprensibile. Le riflessioni finali del Tadini, dimostrano la sua abilità e la sua non comune sensibilità poetica, perché esprime in pochi versi il nonsenso dell'esistenza, che porta tutti noi verso la fine (ovvero il nulla), senza la possibilità di capire perché si nasce e poi si muore, e tanto meno di tornare indietro nel tempo, per rivivere i momenti più felici della nostra vita, trascorsi insieme alle persone più care che ormai abbiamo perso definitivamente.
Nonno, quel giorno che la morte fredda
ti colse, ero fanciullo e non compresi.
Vidi una cassa bianca, un sacerdote...
vidi piangere tutti e piansi anch'io.
Ma non sapevo; solo quando a sera
venne la mamma a pormi nel lettuccio,
timidamente domandai del nonno
per il solito bacio, e mamma allora
singhiozzando mi disse: il nonno... dorme.
Ora... se penso che il tuo dolce sguardo
più non mi scende all’anima, se penso
che non mi baci più, non m’accarezzi,
è un arido rimpianto, e vorrei darti,
nonno, la vita e ritornar fanciullo.
Ma non lo posso: questa forza grande,
fatale che ci spinge o ci trascina,
verso la tomba, verso lo sfacelo,
anch'io la sento, o nonno, e questa vita,
oggi feconda, sterile domani,
anch'io la vivo... e corro e corro avanti,
incontro al... nulla, dove turbinando
l'atomo vile si disperde infranto!
(da "Primi fantasmi", Tip. dell'Esercente, Milano 1907, p. 22)