Sfogliando i Canti di Castelvecchio, ovvero una delle
raccolte poetiche più famose e più riuscite di Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna 1855 - Bologna 1912), è facile
scoprire che queste pagine contengono un numero non indifferente di poesie che
studiammo (e forse imparammo a memoria) sui banchi di scuola. Insieme a Myricae, ovvero alla raccolta d’esordio
del poeta emiliano, i Canti
rappresentano il punto più alto della lirica pascoliana. Non tutti, in verità,
la pensano in tal modo: critici famosi del passato e del presente, ritengono
che questa opera sia da considerare un sottoprodotto di Myricae. Ci sono, però, altrettanti critici e, penso, un
grandissimo numero di lettori, che reputano i Canti, se non la migliore raccolta del Pascoli, allo stesso livello delle Myricae. Uno di questi è Mario
Pazzaglia (1925-2017), curatore di una vecchia antologia scolastica di cui ho parlato in un
recente post, dalla quale ho estratto un frammento, che a mio avviso ben
spiega il contenuto di questo libro e, sinteticamente, coglie gli aspetti più
significativi della migliore poesia di Giovanni Pascoli.
La «situazione» tipica della
poesia pascoliana è quella del poeta solitario, immerse nella campagna vasta e
silenziosa e inteso non a confessare il proprio io, ma ad esprimere i palpiti
arcani, le rivelazioni delle cose e l’ombra che le prolunga in una distanza
indefinita, le illuminazioni che gli giungono dall’ignoto; oppure quella del
poeta sperduto nell’immensità degli spazi cosmici, con un senso sgomento di
vertigine davanti all’essenza indecifrabile dell’universo. Il paesaggio,
comunque, è sempre il protagonista della lirica pascoliana. L’anima del poeta
sembra calata nelle cose, intenta a coglierne il sorriso e la lacrima, la vita
arcana, anche se, in realtà, è essa a proiettare nel paesaggio la sua
perplessità smarrita, il senso d’una continua presenza della morte nella vita,
il suo sentimento dolente ma anche la sua ansia dell’ignoto.¹
Canti di Castelvecchio uscì, per la prima volta, nel 1903,
presso l’editore Zanichelli di Bologna; seguirono altre edizioni accresciute,
fino alla settima ed ultima, curata dalla sorella del poeta: Maria Pascoli, che
fu pubblicata postuma, nel 1914. Queste notizie le ho attinte dall’edizione
critica da me posseduta, la cui quarta edizione uscì nel 1993 presso la Rizzoli
di Milano; qui, nell’ottima introduzione di Giuseppe Nava, è possibile scoprire
quali furono i poeti che Pascoli tenne maggiormente presenti per la genesi
della sua opera poetica (Omero, Leopardi, Manzoni, Longfellow, Hugo, Shelley,
Poe e altri ancora). Da questo volume ho trascritto tre fra le poesie più
conosciute e belle dei Canti, con cui
chiudo questo post.
NOTE
1) Da “Antologia
della letteratura italiana”, Zanichelli, Bologna, p. 771.
NOTTE D’INVERNO
Il Tempo chiamò
dalla torre
lontana... Che
strepito! E` un treno
là, se non è il
fiume che corre.
O notte! Né prima
io l'udiva,
lo strepito
rapido, il pieno
fragore di treno
che arriva;
sì, quando la
voce straniera,
di bronzo, me
chiese; sì, quando
mi venne a
trovare ov'io era,
squillando
squillando
nell'oscurità.
Il treno
s'appressa... Già sento
la querula tromba
che geme,
là, se non è
l'urlo del vento.
E il vento
rintrona rimbomba,
rimbomba
rintrona, ed insieme
risuona una
querula tromba.
E un'altra, ed
un'altra. - Non essa
m'annunzia che
giunge? - io domando.
- Quest'altra! -
Ed il treno s'appressa
tremando
tremando
nell'oscurità.
Sei tu che
ritorni. Tra poco
ritorni, tu,
piccola dama,
sul mostro dagli
occhi di fuoco.
Hai freddo?
paura? C'è un tetto,
c'è un cuore, c'è
il cuore che t'ama
qui! Riameremo.
T'aspetto.
Già il treno
rallenta, trabalza,
sta... Mia
giovinezza, t'attendo!
Già l'ultimo
squillo s'inalza
gemendo
gemendo
nell'oscurità...
È il Tempo lassù
dalla torre
mi grida ch'è
giorno. Risento
la tromba e la
romba che corre.
Il giorno è
coperto di brume.
Quel flebile
suono è del vento,
quel labile tuono
è del fiume.
il fiume ed è il
vento, so bene,
che vengono
vengono, intendo,
così come
all'anima viene,
piangendo piangendo,
ciò
che se ne va.
(da “Canti di
Castelvecchio”, Zanichelli, Bologna 1993, pp. 109-111)
LA MIA SERA
Il giorno fu
pieno di lampi;
ma ora verranno
le stelle,
le tacite stelle.
Nei campi
c'è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie
dei pioppi
trascorre una
gioia leggiera.
Nel giorno, che
lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!
Si devono aprire
le stelle
nel cielo sì
tenero e vivo.
Là, presso le
allegre ranelle,
singhiozza
monotono un rivo.
Di tutto quel
cupo tumulto,
di tutta
quell'aspra bufera,
non resta che un
dolce singulto
nell'umida sera.
È, quella
infinita tempesta,
finita in un rivo
canoro.
Dei fulmini
fragili restano
cirri di porpora
e d'oro.
O stanco dolore,
riposa!
La nube nel
giorno più nera
fu quella che
vedo più rosa
nell'ultima sera.
Che voli di
rondini intorno!
che gridi
nell'aria serena!
La fame del
povero giorno
prolunga la
garrula cena.
La parte, sì
piccola, i nidi
nel giorno non
l'ebbero intera.
Né io... e che
voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don... Don... E mi dicono, Dormi!
mi cantano,
Dormi! sussurrano,
Dormi!
bisbigliano, Dormi!
là, voci di
tenebra azzurra...
Mi sembrano canti
di culla,
che fanno ch'io
torni com'era...
sentivo mia
madre... poi nulla...
sul far della sera.
(da "Canti di Castelvecchio", Rizzoli, Milano 1993, pp. 287-289)
LE RANE
Ho visto inondata
di rosso
la terra dal fior
di trifoglio;
ho visto nel
soffice fosso
le siepi di pruno
in rigoglio;
e i pioppi a
mezz'aria man mano
distendere un
penero verde
lunghesso la via
che si perde
lontano.
Qual è questa via
senza fine
che all'alba è sì
tremula d'ali?
chi chiamano le
canapine
coi lunghi lor
gemiti uguali?
Tra i rami
giallicci del moro
chi squilla il
suo tinnulo invito?
chi svolge dal
cielo i gomitoli
d'oro?
Io sento
gracchiare le rane
dai borri
dell'acque piovane
nell'umida
serenità.
E fanno nel lume
sereno
lo strepere nero
d'un treno
che va...
Un sufolo suona,
un gorgoglio
soave, solingo,
senz'eco.
Tra campi di
rosso trifoglio,
tra campi di
giallo fiengreco,
mi trovo; mi
trovo in un piano
che albeggia, tra
il verde, di chiese;
mi trovo nel
dolce paese
lontano.
Per l'aria, mi
giungono voci
con una sonorità
stanca.
Da siepi, lunghe
ombre di croci
si stendono su la
via bianca.
Notando nel cielo
di rosa
mi arriva un
ronzìo di campane,
che dice:
Ritorna! Rimane!
Riposa!
E sento nel lume
sereno
lo strepere nero
del treno
che non
s'allontana, e che va
cercando,
cercando mai sempre
ciò che non è
mai, ciò che sempre
sarà...
(da "Canti
di Castelvecchio”, Rizzoli, Milano 1993, pp.365-373)
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