domenica 16 marzo 2025

"Canti di Castelvecchio" di Giovanni Pascoli

 

Sfogliando i Canti di Castelvecchio, ovvero una delle raccolte poetiche più famose e più riuscite di Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna 1855 - Bologna 1912), è facile scoprire che queste pagine contengono un numero non indifferente di poesie che studiammo (e forse imparammo a memoria) sui banchi di scuola. Insieme a Myricae, ovvero alla raccolta d’esordio del poeta emiliano, i Canti rappresentano il punto più alto della lirica pascoliana. Non tutti, in verità, la pensano in tal modo: critici famosi del passato e del presente, ritengono che questa opera sia da considerare un sottoprodotto di Myricae. Ci sono, però, altrettanti critici e, penso, un grandissimo numero di lettori, che reputano i Canti, se non la migliore raccolta del Pascoli, allo stesso livello delle Myricae. Uno di questi è Mario Pazzaglia (1925-2017), curatore di una vecchia antologia scolastica di cui ho parlato in un recente post, dalla quale ho estratto un frammento, che a mio avviso ben spiega il contenuto di questo libro e, sinteticamente, coglie gli aspetti più significativi della migliore poesia di Giovanni Pascoli.

 

La «situazione» tipica della poesia pascoliana è quella del poeta solitario, immerse nella campagna vasta e silenziosa e inteso non a confessare il proprio io, ma ad esprimere i palpiti arcani, le rivelazioni delle cose e l’ombra che le prolunga in una distanza indefinita, le illuminazioni che gli giungono dall’ignoto; oppure quella del poeta sperduto nell’immensità degli spazi cosmici, con un senso sgomento di vertigine davanti all’essenza indecifrabile dell’universo. Il paesaggio, comunque, è sempre il protagonista della lirica pascoliana. L’anima del poeta sembra calata nelle cose, intenta a coglierne il sorriso e la lacrima, la vita arcana, anche se, in realtà, è essa a proiettare nel paesaggio la sua perplessità smarrita, il senso d’una continua presenza della morte nella vita, il suo sentimento dolente ma anche la sua ansia dell’ignoto.¹

 

Canti di Castelvecchio uscì, per la prima volta, nel 1903, presso l’editore Zanichelli di Bologna; seguirono altre edizioni accresciute, fino alla settima ed ultima, curata dalla sorella del poeta: Maria Pascoli, che fu pubblicata postuma, nel 1914. Queste notizie le ho attinte dall’edizione critica da me posseduta, la cui quarta edizione uscì nel 1993 presso la Rizzoli di Milano; qui, nell’ottima introduzione di Giuseppe Nava, è possibile scoprire quali furono i poeti che Pascoli tenne maggiormente presenti per la genesi della sua opera poetica (Omero, Leopardi, Manzoni, Longfellow, Hugo, Shelley, Poe e altri ancora). Da questo volume ho trascritto tre fra le poesie più conosciute e belle dei Canti, con cui chiudo questo post.

 

 

NOTE

1)     Da “Antologia della letteratura italiana”, Zanichelli, Bologna, p. 771.

 

 


 

 

NOTTE D’INVERNO

 

Il Tempo chiamò dalla torre

lontana... Che strepito! E` un treno

là, se non è il fiume che corre.

 

O notte! Né prima io l'udiva,

lo strepito rapido, il pieno

fragore di treno che arriva;

 

sì, quando la voce straniera,

di bronzo, me chiese; sì, quando

mi venne a trovare ov'io era,

   squillando squillando

   nell'oscurità.

 

Il treno s'appressa... Già sento

la querula tromba che geme,

là, se non è l'urlo del vento.

 

E il vento rintrona rimbomba,

rimbomba rintrona, ed insieme

risuona una querula tromba.

 

E un'altra, ed un'altra. - Non essa

m'annunzia che giunge? - io domando.

- Quest'altra! - Ed il treno s'appressa

   tremando tremando

   nell'oscurità.

 

Sei tu che ritorni. Tra poco

ritorni, tu, piccola dama,

sul mostro dagli occhi di fuoco.

 

Hai freddo? paura? C'è un tetto,

c'è un cuore, c'è il cuore che t'ama

qui! Riameremo. T'aspetto.

 

Già il treno rallenta, trabalza,

sta... Mia giovinezza, t'attendo!

Già l'ultimo squillo s'inalza

   gemendo gemendo

   nell'oscurità...

  

È il Tempo lassù dalla torre

mi grida ch'è giorno. Risento

la tromba e la romba che corre.

 

Il giorno è coperto di brume.

Quel flebile suono è del vento,

quel labile tuono è del fiume.

 

il fiume ed è il vento, so bene,

che vengono vengono, intendo,

così come all'anima viene,

   piangendo piangendo,

   ciò che se ne va.

 

(da “Canti di Castelvecchio”, Zanichelli, Bologna 1993, pp. 109-111)

 

 

 

 

LA MIA SERA

 

Il giorno fu pieno di lampi;

ma ora verranno le stelle,

le tacite stelle. Nei campi

c'è un breve gre gre di ranelle.

Le tremule foglie dei pioppi

trascorre una gioia leggiera.

Nel giorno, che lampi! che scoppi!

        Che pace, la sera!

 

Si devono aprire le stelle

nel cielo sì tenero e vivo.

Là, presso le allegre ranelle,

singhiozza monotono un rivo.

Di tutto quel cupo tumulto,

di tutta quell'aspra bufera,

non resta che un dolce singulto

        nell'umida sera.

 

È, quella infinita tempesta,

finita in un rivo canoro.

Dei fulmini fragili restano

cirri di porpora e d'oro.

O stanco dolore, riposa!

La nube nel giorno più nera

fu quella che vedo più rosa

        nell'ultima sera.

 

Che voli di rondini intorno!

che gridi nell'aria serena!

La fame del povero giorno

prolunga la garrula cena.

La parte, sì piccola, i nidi

nel giorno non l'ebbero intera.

Né io... e che voli, che gridi,

        mia limpida sera!

 

Don... Don... E mi dicono, Dormi!

mi cantano, Dormi! sussurrano,

Dormi! bisbigliano, Dormi!

là, voci di tenebra azzurra...

Mi sembrano canti di culla,

che fanno ch'io torni com'era...

sentivo mia madre... poi nulla...

        sul far della sera.

 

(da "Canti di Castelvecchio", Rizzoli, Milano 1993, pp. 287-289)

 

 

 

 

LE RANE

 

Ho visto inondata di rosso

la terra dal fior di trifoglio;

ho visto nel soffice fosso

le siepi di pruno in rigoglio;

e i pioppi a mezz'aria man mano

distendere un penero verde

lunghesso la via che si perde

lontano.

 

Qual è questa via senza fine

che all'alba è sì tremula d'ali?

chi chiamano le canapine

coi lunghi lor gemiti uguali?

Tra i rami giallicci del moro

chi squilla il suo tinnulo invito?

chi svolge dal cielo i gomitoli

d'oro?

 

Io sento gracchiare le rane

dai borri dell'acque piovane

nell'umida serenità.

E fanno nel lume sereno

lo strepere nero d'un treno

che va...

 

Un sufolo suona, un gorgoglio

soave, solingo, senz'eco.

Tra campi di rosso trifoglio,

tra campi di giallo fiengreco,

mi trovo; mi trovo in un piano

che albeggia, tra il verde, di chiese;

mi trovo nel dolce paese

lontano.

 

Per l'aria, mi giungono voci

con una sonorità stanca.

Da siepi, lunghe ombre di croci

si stendono su la via bianca.

Notando nel cielo di rosa

mi arriva un ronzìo di campane,

che dice: Ritorna! Rimane!

Riposa!

 

E sento nel lume sereno

lo strepere nero del treno

che non s'allontana, e che va

cercando, cercando mai sempre

ciò che non è mai, ciò che sempre

sarà...

 

(da "Canti di Castelvecchio”, Rizzoli, Milano 1993, pp.365-373)

 

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