giovedì 20 agosto 2015

La fine nella poesia italiana simbolista e decadente

Per "fine" s'intende qualcosa che termina o sta per terminare: in molti casi è la vita, ma può anche essere un evento temporale o atmosferico, un fatto o, semplicemente, una vicenda personale. Il tutto va ricondotto al post dedicato al disfacimento. Qui però ho voluto riportare, a mo' di esempi, alcuni testi esclusi dall'elenco di poesie presente in detto post. Buona lettura.



LA DIPARTITA
di Gustavo Balsamo Crivelli (1869-1929)

Era l'ottobre tardo. A noi d'intorno
grigio, deserto, sconfinava il piano:
all'orizzonte impallidiva il giorno
tra un brulichio di porpora lontano.

Ed io pensando nel crudel ritorno
già disciolta la mia dalla tua mano,
breve sosta di un sogno il mio soggiorno
nella tua casa ed il rimpianto vano,

come quel cielo che tra i pioppi in brume
d'argentee nebbie lento scoloriva,
vaporando un estremo, esile lume,

tutto sentii nel cor mio scolorire:
estasi, fedi, sogni e la mia viva
anima anch'essa come il dì morire.

(Dalla rivista «Riviera Ligure», 37, 1902)





MELANCONICAMENTE LE CAMPANE
di Gustavo Brigante-Colonna (1878-1957)

Melanconicamente le campane
Piangono l'anno, un altr'anno che muore...
Ed io mi guardo nel fondo del cuore:
Sempre lo stesso sogno vi rimane.

(Da "Gli ulivi e le ginestre", Carra, Roma 1913)





ELEGIA DEL LUTTO
di Enrico Annibale Butti (1868-1912)

La tetra notte ha fine. La pigra coorte dell'ombre
Si rifugia disfatta nel fumido occidente;

E il novo dì s'inoltra. Oh, come sorride nell'ora
Solitaria laggiù, sopra le case mute

E chiuse, la luce, tra un serto di rose e di gigli
Imprigionando l'ultima stella viva!

Oh, come su le piante cinguettan giulivi gli uccelli
Nella deserta piazza, sotto le mie finestre!

Io veglio ancora, solo (sì solo, sì solo e da tanto
Tempo!) e guardo smarrito con gli occhi lacrimosi

Là, là verso la luce, che cresce, arrossando gli spazi.
È sangue? È foco? È sangue?... Son le pupille mie.

Abbruciate dal pianto, che veggono il fuoco ed il sangue?...
Oh, portento! Ecco il Sole,.. Non è dunque finito

Il Mondo? Non ha steso la Morte, la Morte, la Morte
Sopra tutta la Terra la sua man trionfante?...

Madre, o Sola, o dolce compagna de' miei anni primi,
Ineffabil ricordo, desolato rimpianto.

Sorgi e mi guarda. Sorgi dal letto ove pallida giaci,
E schiudi le pupille dov'era tanta fiamma

D'amore... E la tua mano, deh! leva all'usata carezza.
Povera stanca mano, che il dolore ha consunta.

Oh, mi ripeti, o Madre, ancora una volta quel nome,
Che tu mi désti! Oh, ancora mi chiama una sol volta!...

Tu giaci immota e muta. Sei fatta di gelo e silenzio.
Più non mi vedrai: più non mi chiamerai;

Più non mi solcherai le chiome con l'esili dita;
Più non udrò il tuo passo nella nostra dimora,

Madre, o Sola, o dolce compagna de' miei anni primi,
Ineffabil ricordo, desolato rimpianto!...

Il sole irrompe nella mia stanza. La vita riprende
Dovunque su la Terra... Ma la mia gioja è morta!

(Dalla rivista «Nuova Antologia», gennaio 1899)





LA FINE DI DUE GATTI
di Paolo Buzzi (1874-1956)

Empivano le serenate di gennaio
dei loro terribili notturni midollari.
Erano l'orchestra
della mia tombale insonnia d'inverno.
Li avrei uccisi, una notte.
Un'altra, li avrei baciati sui baffi austriaci.
M'accompagnavano l'anima
per lunghi sentieri di buio.
Eran due gatti che si amavano
e protestavano al mondo l'amore.
A furia d'odiarli
li adorai: una notte
mi presi freddo a una finestra — oh, lungamente! -
per osservarli nel galoppo beato sotto il cielo.

Era il maschio nero lucido
d'una profondità di tenebra notturna
fatta quadrupede.
Avea la sua fissa
costellazione d'oro in fronte
come uno squarcio di zodiaco figurato.
Gli occhi
gli brillavano gialli,
e, a ritmo con le urla,
parevano dilatarsi
come scoppi di sole sull'aurora. Grosso
ma snello al par di giaguaro,
fiutava le sfere con la testa tonda,
ottusa nel muso anelante.
La coda scopava i silenzi
quasi una frusta di velluti
nel pugno a un Dio degli Spasimi felici.

Candida era la femmina come davvero
un bozzetto manipolato nella neve del mese,
ma d'una statuaria mobilissima e calda.
Avea l'orecchie e le pupille
erette della lince
— due fiamme nella gola d'una tomba bianca —
e il corpo lungo agile fluido flessibile,
il corpo che par tutta coda,
delle pantere vergini indiane
cui prude alla schiena prolissa
la primavera carnale della jungla.

Stavan sull'orlo d'un pozzo
profondo scoperto.
Balzarono sovra l'abisso della bocca di pietra,
con la leggerezza fida
di due gomme palleggiate da bimbi,
e ribalzarono
come nella gioia e nell'orgoglio
del gioco rischioso.
Fermi, talora, nella moina,
sporgevan le teste accese d'occhi
quasi due tonde lanterne
al buio tremendo del sottovuoto.
Vedevan giù nell'acque riflesse, assai forse,
con le stelle remotissime
le loro pupille remote?

Poi si rincorsero, ad archi,
pel breve circuito di pietra
come biglie in bigliardo
e cozzarono duri fino a sprizzar scintille:
urlarono quasi scottati
dal reciproco elettro pellicciale:
si morsero ai musi ed agli ani:
soffiando si rintanarono
in due opache ombre improvvise:
si cercarono al fiuto: si trovarono al lampo
giallone degli occhi,
sulla corda tetanica,
del medesimo urlo di dolore e di piacere.

Si carezzarono a graffi,
risaltarono per i meandri noti
dell'invisibile laberinto:
riapparvero, faccia faccia,
da un punto all'altro
del cavo cilindro voragineo:
si volsero i dorsi: le code,
sul vuoto, spinte dall'impeto dorsale,
si toccarono come due segmenti di fulmine.
Il maschio balzò sulla femmina.
Il doppio gomitolo fuso
rotolò lungo l'orlo ristretto
e sparve nel foro del Nulla
in una detonazione vocale
di bomba di carne
che scoppi per mille caverne di caverne.

O amanti di luglio, arse le vene
alla liquorosa ambrosia dei baci d'estate,
qui bevesi acqua di pozzo tonica
ai veleni felini dell'amore.
Venite, anime e fauci!

(Da "Versi liberi", Treves, Milano 1913)





IL DISTICO DELL'INGANNO
di Sergio Corazzini (1886-1907)

Mi tendevi le braccia, mi chiamavi
con la voce dolcissima e dolente,
e roteavi disperatamente
le tue pupille un dì tanto soavi.

I capelli biondissimi, già schiavi
di fulgido diadema che la gente
t'invidiava silenziosamente,
sciolti i capelli al vento abbandonavi.

E la tua voce sospirava: «Vieni,
torna amor mio, fra le mie bianche braccia
tu sarai il mio re, non già il mio schiavo!»

Mi parve d'impazzir, con gli occhi pieni
di pianto, corsi con giuliva faccia.
Credevo d'esser desto, ahimè, sognavo!

*

Il sole tramontava nel suo mare,
era il ciel di viole. Ginocchioni
io leggevo nei tuoi grandi occhi buoni,
che mi lasciavi un tempo sfiorare

con la bocca, io leggeva ne le care
pupille tue, la fine. Le illusioni,
fulgidi, immensi, ma fragili troni,
col sole io le vedeva tramontare...

E lentamente, come se il tuo cuore
rimanesse nel petto mio squassato
dai singulti, con dolce e noto gesto

mi porgesti la man piccina, fiore
di neve, ed io la strinsi disperato...
Credeva di sognare, oh no, era desto!

(Dalla rivista «Marforio», aprile 1903)





LA VITA NUOVA
di Federico De Maria (1885-1954)

Fin da domani io voglio mutar vita.
Comincerò bruciando
i libri che danno a la testa,
— come dice mio padre, — e buttando
a le ortiche la mia vesta
di poeta: vo' farla finita!
Prenderò a studiar sul serio
il diritto e l'economia
politica, che non ò peranco
toccati — sarà un refrigerio,
una doccia su l'inutilmente stanco
mio cranio, perchè si plachi
la malata nervosità mia.
Non cercherò più amici
letterati o poeti, briachi
di fiele, che intendono il santo
dover di baciarmi con piena
fraternità in viso e poi spargono
di spilli e frantumi di vetro
il mio cammino, o s'acquattano a un angolo
oscuro, per darmi di dietro
una coltellata a la schiena.
Cessin le lotte e le ire!
Non voglio più fare a l'amore
— sol, ne comprerò ogni tanto,
al massimo, dieci lire —
fin che mi avrà redento
con un buon matrimonio
qualche pingue ereditiera di provincia.
La vita nuova comincia.
Non c'è più nessun demonio
che mi tenti! — Olga, presto la tua
vanità sarà sposa al signore
nobile, da le fedine
che farebbero invidia a un barbagianni.
(Il cerulo foco
dei tuoi begli occhi francesi
non riscalderà più il mio cuore
come a' trepidi diciassett'anni.)
Flora, tu sei compagna da tre mesi
a quel bel pupattolino
del tuo sottotenentino —
e l'anima mia,
già in delirio per la tua bruna
bellezza non à più alcuna
oh no! inutile gelosia.
E tu, Luisa, che io
chiamai Occhi di cielo, Capo d'oro,
troverai presto un tesoro
di marito: tuo padre ti saprà
sceglier fra i suoi ricchi amici
qualche grosso sensale di frumento
o un onesto droghiere
che potrà senza stento
sodisfare ogni tuo piacere.
Come tutti vivremo, fino a creparne, felici!
Sarà mia nuova musa un buon cuoco,
nuovo ideale mio la maionese;
e metterò su a poco a poco
un quintale di pancia borghese!

(Da "La leggenda della vita", Ed. di «Poesia», Milano 1909)





IL MORTO GIORNO
di Riccardo Forster (1869-1938)

Senza rimpianto memore, dispare
il morto Giorno in invisibil tomba.
L'inghiotte forse il foco che giù romba,
oppur l'annega onnivagante il mare?

Non so. Pel cielo aleggia la lunare
chiarezza, come volo di colomba
bianca nel buio. Spero non incomba
più mai quel morto Giorno, all'albeggiare.

— O Notte dimmi che tu l'hai sepolto
per sempre, ed oscurar le lievi aurore
a me promesse non potrà il suo volto! —

Fu triste il Giorno. Vissi senza amore
avuto o dato; errai nel Nulla avvolto,
e non un verso mi cantò nel core.

(Dalla rivista «Poesia», giugno-luglio 1905)





PALAZZO MIRENA
di Aldo Palazzeschi (1885-1974)

Palazzo Mirena è distrutto,
distrutto dal fuoco.
In sera di festa, la veglia era piena,
le fiamme terribili avvolsero
il grande palazzo.
Più bello dei belli
s'ergeva nel mezzo al giardino,
superbo fra gli alberi grandi.
Le fiamme arrivarono al cielo
per tutta la notte,
la notte che ognuno ricorda, e si segna.
L'aurora lo vide terribile mucchio
di bragi roventi.
Ognuno ricorda la notte del fuoco.
Il cielo che s'ebbe di fiamme
terribile omaggio per tutta una notte,
rimase chiazzato di rosso
per giorni e per giorni.
E ancora ai tramonti vi sostano sopra
vapori rossastri,
vi sostan siccome a saluto,
messaggi di fiamme lontane
venuti da nuovi flagelli.
E il vento per anco solleva
le ceneri ultime.
In sera di festa, la veglia era piena,
smagliante di luci e di gemme,
fiorita da petali rossi e scarlatti
di dolci sorrisi lunghissimi,
fra muover di passi leggeri,
di piccoli passi dorati;
strisciare d'inchini profondi, lentissimi,
frusciare di serici manti,
di manti vermigli, violetti,
di manti bianchissimi,
coperti di gemme fulgenti,
cosparsi di perle finissime,
goccianti di vivi diamanti,
fluenti di trecce biondissime,
nel mezzo a la notte
le fiamme terribili avvolsero
il grande palazzo.
Moltissime dame perirono,
alcune rimasero folli,
le meno ne furono salve.
Madama Mirena,
la bionda Contessa dal guardo di Sole,
rimase al suo posto.
Si videro dame gettarsi dall'alto
ravvolte di fiamme,
fuggire seguite dal fuoco appiccato a le vesti,
fuggire fuggire pel grande giardino
siccome le torce terribili al vento
strapparsi le trecce infuocate,
le vesti coperte di fiamme,
gettarsi furenti a le vasche
nel mezzo al giardino.
Colonna tremenda di fiamme
al cielo s'alzava Palazzo Mirena,
giravan d'intorno furenti,
cadevan dall'alto
fardelli di fiamme roventi,
le dame ormai folli.
Pochissime furono salve.
Nessuno più vide Madama Mirena:
padrona, rimase al suo posto
strisciando a le fiamme l'inchino Infinito.
Gli avanzi rimangono intatti,
nessuno vi pose la mano,
soltanto una croce
fu posta nel mezzo fra i neri carboni
che a l'ombra degli alberi grandi
rimangon ricordo.
Talora fra il nero si scorgon
dei raggi lucenti,
fulgore di gemme rimaste,
«son gli occhi di Dama Mirena!»
Di sotto ai carboni
si dice che ancora Ella guardi.

(Da "Lanterna", Stab. tip. Aladino, 1907)





DOPO L’ACQUAZZONE 
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

Passò strosciando e sibilando il nero 
nembo: or la chiesa squilla; il tetto, rosso, 
luccica; un fresco odor dal cimitero 
               viene, di bosso. 

Presso la chiesa; mentre la sua voce 
tintinna, canta, a onde lunghe romba; 
ruzza uno stuolo, ed alla grande croce 
               tornano a bomba.

Un vel di pioggia vela l’orizzonte; 
ma il cimitero, sotto il ciel sereno, 
placido olezza: va da monte a monte 
               l’arcobaleno. 

(Da "Myricae", Giusti, Livorno 1900)





GOLADORO
di Luigi Siciliani (1881-1936)

Partite etano già le rondinelle
per lontano viaggio;
soltanto Goladoro
cantava dolcemente, con amore,
sul tetto della casa molto vecchia
che lenta lenta lenta ruinava.
Da nessuno ascoltato egli cantava...
cresceva il musco sopra il limitare
umidiccio, le cui
pietre si sbriciolavan ctepitando;
il seròtino lume s'addormiva
nelle stanze deserte:
e il vento incerto vagolava dentro
il vastissimo atrio desolato:
ma Goladoro seguitava il canto.
La letizia, la pace era fuggita,
ogni gioia finita:
egli ignorava dove,
ignorava perché; ma pure sempre
sulla deserta ruinante casa
immutato cantava
il suo canto d'amore...

(Da "L'amore oltre la morte", Quintieri, Milano 1912)





LA FINE DELLE RONDINI
di Mario Venditti (1889-1964)

S'eran levate con un frullo tale
che avea mutato il volo repentino
in una tarantella a concertino
e in nacchera ciascuna coppia d'ale.

Ma, quando il cielo non fu più turchino,
allora il ritmo diventò ineguale:
ora speranza d'albero ospitale,
or nostalgia di nido non vicino.

Una ferrata antenna, animatrice
d'incudini, le filiformi braccia
tese allo sciame come salvatrice.

Ma, a pena tocca, folgorò con fiamma
occulta : e offerse alla funerea marcia
del turbine un orrendo pentagramma.

(Da "Il cuore al trapezio", Taddei, Ferrara 1921)





COLLOQUIO
di Giuseppe Cesare Viola (1886-1958)

Notte fosca. La strada maestra
s'ingolfa pei vasti uliveti,
siccome una tòrtile fascia distesa a l'aperta campagna,
interminabilmente.
Un uomo, sul ripido margine, indugia seduto,
protetto da un alto oleastro.
Passa il vento e, rabbioso, ammulina nell'émpito
nuvole bianche di polvere,
e squassa le rame fronzute de l'albero.

*

Piegato alla terra dal turbine,
l'albero ha scorto il viandante ignoto;
ne la voce del vento dimanda, ora, curvo: - Chi sei? -
Il mento poggiato sul petto,
le braccia in prostrato abbandono,
le larghe pupille smarrite nel vuoto, lontano,
desolatamente,
l'uomo pallido, immobile, tace.
E l'albero chiede: - Chi sei? -
Attònito l'uomo si scuote,
si volge: ha udito;
pensa un istante, poi dice: - Nessuno. -
- Donde vieni? - Interroga il vento. - Non so. -
- Che fai tu? - risponde: - Nulla. -
- Come vivi? - mormora: - Muoio. -

Il vento fa sosta: pensosi,
tacciono l'albero e l'uomo.
Pende la tetra notte
su la campagna,
lugubramente.

*

Ululando una raffica scende dai monti lontani
e s'avventa su gli alberi muti;
e l'oleastro scosso,
di nôvo domanda: - Chi sei? -
Esita l'uomo e non parla;
ma quindi - e gli treman la voce ed il pianto ne l'arida gola -
lentamente sussurra: - Un bastardo! -

*

Acciuffato dal vortice ratto del vento,
piegato, sbattuto, ora, l'albero piange un suo vano lamento ne l'aria;
disperato, siccome in un folle delirio,
dibatte nel cielo le folte sue rame tremanti,
quasi un ebro che, fermo in un punto,
barcolli, proteso in avanti,
poi con rapida stratta all'indietro
si drizzi ed inarchi la fléttile schiena,
si dimena, si curva, smozza
le parole, si torce, singhiozza...
Forsennato poi grida con tutte le cento sue canne vibranti:
- O fratello! fratello! -

*

S'erge l'uomo e diritto,
siccome una statua di bronzo sul muto pallor della via,
fissa l'albero nero, che s'agita come dannato,
e convulso gli grida:
- Tu chi sei che mi chiami col nome d'amore,
che mi chiami col nome di sangue? -
Si raccoglie, siccome un'enorme cervice di foglie,
l'albero e, chino su l'uomo, sussurra:
- Io sono il bastardo, fratello!
Io son l'oleastro!...

*

Io non nacqui, campato ne l'aria, solenne,
sul ramo d'un fervido olivo possente;
a me non fu dato cantar ne la mia giovinezza, felice,
la gioia di vivere, in coro con tutte le rame sorelle.
Germinato dal piccolo seme,
non so donde venni,
non so perché sorsi:
ignoro la pianta matrigna che, frutto, mi volle nutrire.
Solitario, ne l'umili zolle,
ho sfiorite le mie primavere,
senza udire al mio fianco
o nei chiari messaggi del vento,
da lungi, una voce di madre;
dannato a la vita,
ché cruda la terra mi lega con tutte sue forze tenaci,
io mi son ribellato e alimento,
selvaggio e infecondo,
nel cuore mio tetro una brama infinita di morte.
Non m'allegro d'un fiore all'aprile e alla monda
non cedo un sol ramo, una fronda;
in attesa che, un giorno, gli umani
mi schiantino a colpi furiosi di zappa,
divelto, con tagli vibrati di scure,
mi spacchino tutte le rame contorte;
m'abbrucino infine e s'innalzi fiammando,
ne l'umile pace d'un nero camino,
lo spirito mio tormentato,
rossigno, focace. -

*

- Come la sorte mia! -
sospira il viandante
- Son l'uomo senza lacrime,
che non sa a chi mostrare il suo pianto! -

*

E l'albero, curvo, continua:
- Io sono dannato alla vita,
ma, tu, Uomo, libero come il mutevole soffio del vento,
come l'acceso vibrar della luce,
come il folle avanzar della tempesta;
che, solo, cammini,
sperduto alla notte ululante,
- e non brilla nel tempo remoto
al tuo sguardo il ricordo d'un dolce sorriso,
non trema nel cuore tuo stanco
una tenua canzone di nôva speranza -
tu che cerchi e non trovi a te intorno
una voce materna,
una voce fraterna,
a che segui l'inutil viaggio?
Vana è la vita per te:
ucciditi, muori!... -

*

L'uomo ascolta e si tace pensoso;
poi sussurra: - Sì... Vana è la vita per me.
Scomparire val meglio,
finire per sempre,
morire.
Son partito da tenebre ignote: ritorno all'Ignoto!... -
E l'albero: - Ecco un mio ramo;
tessi da tutti i brandelli che addosso trascini una corda robusta;
legala al braccio ch'io tendo, propizio:
un rapido nodo scorsoio al tuo collo!
Appiccati.

A l'alba, domani,
mostrerò il primo mio frutto... -

*

La strada maestra s'ingolfa pei vasti uliveti,
siccome una tòrtile fascia distesa a l'aperta campagna,
interminabilmente.

Da un alto oleastro, movendo nell'aria una màcabra danza,
penzola, tetro, un cadavere.

Passa il vento e, rabbioso, ammulina nell'empito
nuvole bianche di polvere,
e squassa le rame fronzute de l'albero.

(Da "L'altro volto che ride", Ricciardi, Napoli 1909)




Carlos Schwabe, "The Death of the Grave-Digger"

 

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