Guido Gustavo Gozzano (Torino 1883 - ivi 1916) non era, ai tempi in cui mi accadeva di leggere delle poesie o delle prose sui banchi di scuola, uno dei miei scrittori prediletti; non lo è stato neppure quando, giovane, mi appassionai alla poesia. Eccetto pochi versi, Gozzano non suscitava in me quell'entusiasmo che invece sapevano donarmi le poesie di Sergio Corazzini, Marino Moretti, Corrado Govoni e Aldo Palazzeschi. Col tempo qualcosa cambiò: leggendo e rileggendo un po' tutta la sua opera in versi, mi accorsi della sua straordinaria grandezza e riconobbi diverse sue qualità: una maestria non rintracciabile in altri poeti venuti prima e dopo di lui; una saggezza ed una intelligenza incontestabili; un'ironia amara, certamente, ma altrettanto certamente fuori del comune; la sorprendente capacità di descrivere psicologicamente, caratterialmente e fisicamente alcuni personaggi femminili da lui stesso frequentati; la consapevolezza di dover morire presto, a causa di una grave malattia, dichiarata senza fare alcun tipo di dramma, con estrema e disarmante naturalezza. Questi ed altri elementi fanno di Gozzano un eccelso poeta. D'altronde non è un caso che anche i critici più autorevoli considerino il poeta torinese come uno dei migliori del XX secolo, in Italia e forse anche fuori. A tal proposito ecco cosa afferma Edoardo Sanguineti, presentandolo in una pagina dell'antologia "Poesia italiana del Novecento", da lui stesso curata:
[...] In effetti, nella coatta riduzione all'indifeso patetismo romantico, ingenuo e provinciale, della «quasi brutta» "Signorina Felicita" (assai sintomaticamente nata come "Signorina Domestica"), quando anche non si scenda al canonico "Elogio degli amori ancillari" (per «fantesche» capaci di offrire un «più sana voluttà» che le padrone), Gozzano scopre una virtù insospettata: l'ideologia prosaica ma innocente, del «borghese onesto», criticamente realistico e affettuosamente ironico nei confronti della società contemporanea, disposto anche a rischiare esiti dimessamente o miseramente parodici, se non proprio «nefandità da melodramma», pur di sfuggire alla evidente inautenticità del «sublime» coltivato dal liberty dannunziano: un «borghese onesto» disposto, in ogni caso, a convertirsi in «Avvocato» (sul pretesto dei non conclusi studi di legge) e in un «buono | sentimentale giovine romantico», mascherandosi per smascherare. Ne risulta, da ultimo, quella nuova coscienza della letteratura e della vita, su cui verranno a convergere spontaneamente - e dunque in maniera tanto più significativa - i più di versi poeti di sensibilità crepuscolare: «Io mi vergogno, | sì, mi vergogno d'essere un poeta!». [...]¹
In quest'altro frammento, di Francesco Muzzioli, si parla di alcune peculiarità della raccolta più significativa di Gozzano: "I colloqui":
[...] Gozzano lo indica a chiare note: anche l'arte-poesia giace ormai inerte rifiuto, in mezzo al "ciarpame" eterogeneo e bizzarro, nel solaio di Villa Amarena consegnato all'obsolescenza; e questa "soffittizzazione" derisoria delle indigenti glorie letterarie è accompagnata da un analogo debordare dei «legumi produttivi» a scapito della vegetazione decorativa del parco, e dalla vanificazione delle coperture mitologiche di tipo ellenico sotto i colpi di impoetiche "ipoteche". Di fronte al prevalere della legge dell'utile, Gozzano si butta davvero in braccio all'altro-da-sé e afferma, in palinodia, la bontà della vita mercantile: è la scelta della vita «piccola e borghese», del "bisogno" sul "sogno", con conseguente "vergogna" della poesia, e ciò sembra garantire, finalmente, l' "oblio" delle ambivalenze semantiche e dei disagi intellettuali, ripristinando una designazione univoca, addirittura monetizzata, delle cose. Certo, la praticità del "mercante" è posta come contraltare dialettico e critico (e fortemente polemico) a petto dell'esteticità astratta, più che come sostanziale soluzione; e infatti l'interrogazione sociale nell'«ambiente sconsolato e brullo» delle «sagge cure e temperate spese» è quanto mai lontana per il poeta "trasognato" e distratto dall'attenzione al particolare infimo. Ma intanto, la considerazione del negativo vale, per Gozzano «borghese onesto», a una più terrestre e meno elevata portata poetica: toltosi il coercitivo «isparato» da cerimonia, egli può ora raffigurarsi in una rude «giubba», e magari «barbuto, incolto», se non proprio «un poco mentecatto», nella ironica autocritica della stessa «Musa maldestra». [...]²
Ecco infine due poesie di Gozzano. Le lessi quando, dopo anni, sfogliai alcuni vecchi libri di scuola; la prima è famosissima, e tra le più belle del poeta piemontese; la seconda è meno conosciuta ma altrettanto bella, e fu pubblicata dopo la morte del poeta.
L'ASSENZA
Un bacio. Ed è lungi. Dispare
giù in fondo, là dove si perde
la strada boschiva che pare
un gran corridoio nel verde.
Risalgo qui dove dianzi
vestiva il bell'abito grigio:
rivedo l'uncino, i romanzi
ed ogni sottile vestigio...
Mi piego al balcone. Abbandono
la gota sopra la ringhiera.
E non sono triste. Non sono
più triste. Ritorna stasera.
E intorno declina l'estate.
E sopra un geranio vermiglio,
fremendo le ali caudate
si libra un enorme Papilio...
L'azzurro infinito del giorno
è come una seta ben tesa;
ma sulla serena distesa
la luna già pensa al ritorno.
Lo stagno risplende. Si tace
la rana. Ma guizza un bagliore
d'acceso smeraldo, di brace
azzurra: il martin pescatore...
E non sono triste. Ma sono
stupito se guardo il giardino...
stupito di che? non mi sono
sentito mai tanto bambino...
Stupito di che? Delle cose.
I fiori mi paiono strani:
ci sono pur sempre le rose,
ci sono pur sempre i gerani...
(da "Poesie", Rizzoli, Milano 1993, pp. 150-153)
IL COMMESSO FARMACISTA
Ho per amico un bell'originale
commesso farmacista. Mi conforta
col ragionarmi della sposa, morta
priva di nozze del mio stesso male.
«Lei guarirà: coi debiti riguardi,
lei guarirà. Lei può curarsi in ozio;
ma pensi una modista, in un negozio...
Tossiva un poco... me lo scrisse tardi.
Torna!... Tornò, sì, morta, al suo villaggio.
Pagai le spese del viaggio. E costa!
Vede quel muro bianco a mezza costa?
È il cimitero piccolo e selvaggio.
Mah! Più ci penso e più mi pare un sogno.
La dovevo sposare nell'aprile;
nell'aprile morì di mal sottile.
Vede che piango... non me ne vergogno.»
Piangeva. O morta giovane modista,
dal cimitero pendulo fra i paschi
non vedi il pianto sopra i baffi maschi
del fedele commesso farmacista?
«Lavoro tutto il giorno: avrei bisogno
a sera, di svagarmi; lo potrei...
Preferisco restarmene con lei
e faccio versi... non me ne vergogno.»
Sposa che senza nozze hai già varcato
la fiumana dell'ultima rinunzia,
vedi lo sposo che per te rinunzia
alle dolci serate del curato?
Vedi che, solo, e affaticati gli occhi
fra scatole, barattoli, cartine,
preferisce le tue veglie meschine
alle gioie del vino e dei tarocchi?
«Non glie li dico: ché una volta detti
quei versi perderebbero ogni pregio;
poi, sarebbe un'offesa, un sacrilegio
per la morta a cui furono diretti.
Mi pare che soltanto al cimitero,
protetti dalle risa e dallo scherno
i versi del mio povero quaderno
mi parlino di lei, del suo mistero.»
Imaginate con che rime rozze,
con che nefandità da melodramma
il poveretto cingerà di fiamma
la sposa che morì priva di nozze!
Il cor... l'amor... l'ardor... la fera vista...
il vel... il ciel... l'augel... la sorte infida...
Ma non si rida, amici, non si rida
del povero commesso farmacista.
Non si rida alla pena solitaria
di quel poeta; non si rida, poi
ch'egli vale ben più di me, di voi
corrosi dalla tabe letteraria.
Egli certo non pensa all'euritmia
quando si toglie il camice di tela,
chiude la porta, accende la candela
e piange con la sua malinconia.
Egli è poeta più di tutti noi
che, in attesa del pianto che s'avanza,
apprestiamo con debita eleganza
le fialette dei lacrimatoi.
Vale ben più di noi che, fatti scaltri,
saputi all'arte come cortigiane,
in modi vari, con lusinghe piane
tentiamo il sogno per piacere agli altri.
Per lui soltanto il verso messaggiero
va dal finito all'infinito eterno.
«Vede, se chiudo il povero quaderno
parlo con lei che dorme in cimitero.»
A lui soltanto, o gran consolatrice
poesia, tu consoli i giorni grigi,
tu che fra tutti i sogni prediligi
il sogno che si sogna e non si dice.
«Non glie li dico: ché una volta detti
quei versi perderebbero ogni pregio:
poi sarebbe un'offesa, un sacrilegio
per la morta a cui furono diretti.»
Saggio, tu pensi che impallidirebbe
al mondo vano il fiore di parole
come il cielo notturno che lo crebbe
impallidisce al sorgere del sole.
Di me molto più saggio, che licenzio
i miei sogni, o fratello, tu mantieni
intatti fra le pillole e i veleni
i sogni custoditi dal silenzio!
Buon custode è il silenzio. E le tue grida
solo la morta giovane modista
ode: non altri della folla, trista
per chi fraternamente si confida.
Non si rida, compagni, non si rida
del poeta commesso farmacista.
(da "Poesie", Rizzoli, Milano 1993, pp. 366-369)
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Guido Gustavo Gozzano |
NOTE
1) da "Poesia italiana del Novecento", a cura di Edoardo Sanguineti, volume primo, Einaudi, Torino 1992, p. 428)
2) da "La letteratura italiana del primo Novecento (1900-1915)", La Nuova Italia Scientifica, Roma 1989, pp. 106-107)