sabato 30 agosto 2025

Poeti dimenticati: Alberto Tarchiani

 Nacque a Roma nel 1885 e ivi morì nel 1964. Dopo i giovanili interessi per la letteratura, si dedicò alla politica. Convinto interventista, si arruolò volontariamente e partecipò ai combattimenti nella Prima Guerra Mondiale. Divenne redattore del Corriere della Sera a partire dal 1919; la sua ferrea opposizione al regime fascista lo costrinse ad abbandonare l'Italia. Fu uno dei cofondatori del movimento Giustizia e Libertà, che abbandonò in seguito all'assassino dei fratelli Rosselli. Visse poi negli Stati Uniti, fino al 1943. Divenne quindi Ministro dei Lavori Pubblici nel secondo gabinetto Badoglio, tra l'aprile e il giugno del 1944. Finita la guerra, fu nominato ambasciatore a Washington, e nella capitale degli Stati Uniti ricoprì tale incarico per dieci anni. Come si può dedurre dalla biografia del Tarchiani, l'attività letteraria - e in particolare quella poetica - risulta assai marginale; eppure, l'unico volumetto di versi (intitolato Piccolo libro inutile), pubblicato a poco più di venti anni insieme all'amico Sergio Corazzini, è ancora oggi ricordato. Certamente, le sue dieci poesie ivi presenti non possono competere con quelle del Corazzini, malgrado ciò, più di un critico autorevole ebbe delle buone parole nei suoi confronti. I versi del Tarchiani - soprattutto sonetti - rispecchiano le mode dei tempi in cui furono pubblicati; si possono rintracciare delle caratteristiche tali da poter affermare che furono Pascoli e Maeterlinck i poeti a cui s'ispirò il futuro diplomatico romano. Vi sono però anche tracce di crepuscolarismo: scuola poetica di cui Corazzini può essere ben definito il massimo esponente.  



Opere poetiche

"Piccolo libro inutile" (con S. Corazzini), Tipografia operaia romana, Roma 1906.





Testi


MATTUTINO


                                                               Alla signora E. T. F.

Alberello, sul fianco del giardino,

chiaro gemmante, in esil vita, sali:

solitario, nel turbine dell'ali 

dei rondinotti, lampi di turchino.


Ondeggi (alba sorride) in un divino

soffio di canti e fremi di carnali

brividi; calan dal cielo eguali

sole e rugiada in velo oltremarino.


E li sento pur io sulle mie ciglia,

e tra i capelli e sulla mano stretta

alla ringhiera molle dell'altana.


Tremi? Che romba? Nulla, una campana,

piccola voce; l'odi? Ora s'affretta;

alla preghiera anime consiglia.



Ma primavera occhieggia in tra le fronde

dolce alberello, e presto fiorirai;

traboccheranno gl'intimi rosai,

per i cancelli, sulle teste bionde.


Risa di bimbi, pigoli di gronde,

spole nell'aria, trilli d'arcolai;

frescura all'alba e a sera ti godrai,

languor di vene, suon d'acque profonde.


E notti passeranno senza brame

su te fiorito e stelle senza velo:

e verrà il fuoco ad assetare il fonte.


E l'autunno (tristezza delle rame!)

colmerà del suo sangue terra e cielo:

l'inverno bianco scenderà dal monte.



Non tremar ché, sul mondo, il male e il bene

passan veloci, brividi di morte;

e gelo e vampa, cupa alterna sorte

sospinge contra a noi lente carene.


Invano gemme d'oro e vento lene

pregherai nelle mute veglie assorte,

se propizia stagione le sue porte

serri ché l'altra aliando viene.


Supplicar solo puoi la dea fortuna

ché, a primavera, in tempo di fiorita,

ti recida soave, come un giglio.


Io chiesi all'alba questa grazia ed una

divina voce or mi risponde: figlio,

cantando s'infuturi la tua vita.


(da "Piccolo libro inutile", Tipografia Operaia Romana, Roma 1906, pp. 50-52)

domenica 24 agosto 2025

La poesia di Tito Marrone

 Tito Marrone (pseudonimo di Sebastiano Amedeo Marrone, Trapani 1882 - Roma 1967) è sempre stato un poeta sottostimato; tra i motivi che possono essere facilmente individuati di questa trascuratezza da parte degli addetti ai lavori e del pubblico della poesia, ci sono una personalità decisamente schiva e la decisione irrevocabile di scomparire totalmente dalle scene letterarie per più di un quarantennio. Eppure, come diversi critici hanno affermato, la sua importanza, soprattutto nell'ambito della nascita della cosiddetta poesia crepuscolare, risultano evidenti. Fu Marrone, infatti, ad ispirare più di una tematica cara a poeti come Corazzini e Govoni, quando, nei primissimi anni del XX secolo, lo scrittore trapanese aveva già al suo attivo diverse pubblicazioni di volumi e volumetti. Già nella raccolta Cesellature, data alle stampe quando Marrone era appena diciassettenne, si notano alcune peculiarità che diverranno basilari per la poesia crepuscolare, individuabili in un senso di vaga mestizia e di grigiore. Ma qui, come nelle successive due raccoltine: Le gemme e gli spettri e Le rime del commiato (entrambe uscite agli albori del nuovo secolo) si rintracciano anche diversi elementi che fanno del nostro un rilevante seguace della poesia simbolista. Poi, proseguendo l'analisi della breve carriera poetica di Marrone, arrivano le Liriche, che vennero pubblicate nello stesso anno - il 1904 - in cui debuttò Sergio Corazzini con la raccolta intitolata Dolcezze. Anche in questo caso, è facile trovare elementi comuni con i crepuscolari, come il rimpianto per l'età infantile e la descrizione di certe atmosfere languide, tipiche della stagione autunnale. Infine, le Carnascialate e i Poemi provinciali, due gruppi di poesie che non comparvero mai in volumi, ma che rappresentano un punto di arrivo di fondamentale importanza per la poesia di Marrone e non solo; in questi versi, che furono comunque pubblicati in riviste e giornali tra il 1905 ed il 1908, riaffiorano i temi prettamente crepuscolari, arricchiti da ulteriori caratteristiche, rifacentesi alle maschere carnevalesche e alle favole più o meno famose. Poi il lunghissimo silenzio di un poeta che probabilmente non riuscì a riprendersi completamente da un grave lutto che lo colpì. Ma, nel 1950, finalmente Marrone tornò a calcare le scene della poesia, pubblicando una memorabile, ultima raccolta intitolata Esilio della mia vita. Come ben spiega il titolo, i temi delle liriche ivi presenti sono strettamente collegati all'allontanamento volontario del poeta dal mondo letterario e non solo; in questi versi Marrone parla soprattutto di sé stesso, della sua solitudine, dei suoi stati d'animo e anche del suo passato; lo fa in modo coinvolgente, e risulta facile per il lettore percepire la spontaneità, il dolore e a volte l'amore dell'uomo ormai anziano, che attende la fine come una sorta di "liberazione" (è anche il titolo di una poesia) da un mondo dove ormai non si ritrova più. Così si conclude la storia poetica di un grande poeta italiano del Novecento, e sarebbe ottima cosa pubblicare finalmente un volume che contenesse tutti i suoi versi, visto che oggi risulta pressoché impossibile reperirne le opere. Ecco infine l'elenco delle raccolte - comprese le postume - seguito da tre poesie del purtroppo dimenticato poeta trapanese.





Cesellature, Tip. Messina, Trapani 1899.

Le gemme e gli spettri, Scheme, Palermo 1901.

Le rime del commiato, Tip. Messina, Trapani 1901.

Liriche, Artero, Roma 1904.

Esilio della mia vita, Edizioni «Pagine Nuove», Roma 1950.

Antologia poetica, Guida, Napoli 1974.


Tito Marrone in un disegno di Eugen Drăguţescu




SOPRA UNA BIBBIA


Uomo che leggi: io sono il vero Libro,

e in me racchiudo quanto v'è d'eterno.

Dall'altissimo cielo all'imo inferno

tutto comprendo, e d'ogni nota vibro.


Passa l'anima tua dentro il mio cribro

e n'esce pura, come dall'inverno

la primavera; l'umile quaderno

d'ogni enorme volume ha più calibro.


Leggi. Se prona è l'anima tua, forse

il Canto della Resurrezione

libera la farà dalle sue morse:


ma dopo che s' è resa assai più trista,

sofferendo la Sacra Passione

nel Libro di Giovanni Evangelista.


(da "Liriche", Artero, Roma 1904, p. 16)





CRISALIDE


Nella tua casa c’è

la fame e lo squallore;

vicino alla tua porta senza cardini

per ore e ore

stagna il letame

che ammorba queste vie prive di sole. 

Ombre fosche balbettano 

tronche parole,

strisciando innanzi all’uscio ove il canario 

flauta mattina e sera al cielo immenso 

la sua canzon d’esilio.


Malinconia della prigione eterna!

Lo sai tu, lo sai tu, che cuci e logori 

stracci, nell’umido 

pozzo, e sorridi;

lo sai tu che lavori e non sospiri, 

e ti trascini per il labirinto 

delle viuzze luride, 

mentre di là c’è prateria montagna 

marina cielo!


Crisalide, se aprissi una mattina 

la prigione al tuo cuore, 

liberandoti, aerea farfalla, 

per le vie dell’amore?


(da «Poesia», Gennaio 1906)






FERMARE IL TEMPO


Con passo occulto,

i consunti giardini risalii

della tua scala, donna

d'un agosto lontano.

Alla porta, origliai. S'istupidivano

i muri nell'inerzia

del pomeriggio estivo.

Mi prese il canto

afono d'una secca lavandaia

che fustigava i panni

sul marmo sordo.

Tu non c'eri: e picchiai,

dopo gli atroci secoli

che dividono il vecchio

dal suo fuggente amore.

Tacque la voce. Un urlo

di silenzio. Discesi

come ladro i gradini

e mi perdetti ancora

nell'anonimo sole.


(da "Esilio della mia vita", Edizioni «Pagine Nuove», Roma 1950, p. 108)







domenica 17 agosto 2025

Le porte in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 Le porte, nel linguaggio di tutti i giorni, sono spesso usate in senso lato, con riferimenti più o meno espliciti a determinati passaggi allegorici che possono presentarsi liberi o bloccati, a seconda che tali porte si presentino chiuse oppure aperte. Gran parte delle poesie che ho trascritto di seguito, fanno riferimento a porte "simboliche": si citano per l'appunto quelle dei cieli, che si trovano nel passaggio tra la vita e la morte; quelle dell'amore, che permettono a chi ne fa uso di vivere in sintonia con l'intero universo; quelle della vita, che ciascuno di noi decide di aprire quando e come vuole, ad una persona che ritiene degna, perché in lei ha fiducia; quelle del mondo, che ci permettono di vivere liberamente in qualsiasi luogo della terra (quest'ultime però, sono ben lungi dall'essere tutte aperte). Le porte di questi poeti si aprono o si chiudono a seconda delle diverse situazioni; parlano o addirittura emettono suoni che somigliano ad una vera e propria musica. Insomma, ancora una volta si assiste ad una serie di fantasiosi racconti in versi, dove le porte la fanno da protagoniste.



LE PORTE IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO



SI APRE UNA PORTA

di Antonio Chiarelotto (1908-1996)


Si apre una porta laggiù

dove il viale s'affretta

e rincorre la siepe

che muore di rose.


L'ardente stagione

invade ancora

remote stanze,

e sulle alte pareti si scagliano

i roghi del sole.


Canzoni incendiano

istanti rapidi di vita

e t'illudi vestire

la tunica bella.


Si apre una porta…

non dite che ad essa invano ritorno,

che il grido è perduto,

non dite che tutto scolora

sull'umida soglia

al morir delle rose, laggiù.


[da "Poesie (1937-1955)", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1986, p. 47]





LA PORTA DEI CIELI

di Alberto Frattini (1922-2007)


Qui è la porta dei cieli. Nel tramonto

i cipressi già additano le stelle.

Il cimitero è un tremito di lucciole.

In pace, padre, riposi il tuo spirito.

Nella memoria del sangue la pietra

che sigilla il cammino dei tuoi giorni

ora si scioglie in questa chiara pace:

come punta d'un esile cipresso

dolcemente m'incurvo sul tuo estremo

sonno, a farmi silenzio di preghiera.

Né il lamento dei treni ora più turba

la tua quiete, che odora di mimose.

Da qui all'eterno il tuo segreto è in fiore.


(da "Arcana spirale: poesie 1943-1992", Sciascia, Caltanissetta 1994, p. 47)





PORTA D'AMORE

di Margherita Guidacci (1921-1992)


Il mio amore che nasce

in te, non finisce

in te. Sei la porta d'amore

attraverso cui passo

incontro all'universo, tendendo a tutto le braccia.


Sei la mia libertà, che oltre la diga spezzata

riversa le acque trionfanti -

ed apre tutte le gabbie, le vuota in un attimo,

empiendo il cielo di migliaia di uccelli

che non si lasceranno mai più imprigionare.


(da "Le poesie", Le Lettere, Firenze 1999, p. 347)





LA PORTA SI CHIUDE MODULANDO

di Valerio Magrelli


La porta si chiude modulando

nei cardini il suono del corno.

È il canto della notte

l’armonia che giaceva

ignorata nel legno.

Chiunque passando provoca

la musica sepolta, che ogni volta

riaffiora diseguale.

Forse un linguaggio ne governa

i termini e le misure, forse il caso.

Il discreto disegno

della ruggine e dell’acqua

narra la segreta epopea della soglia.


[da "Poesie (1980-1992) e altre poesie", Einaudi, Torino 1996, p. 27]





PORTA CHE PARLA

di Marino Moretti (1885-1979)


Io ho amato le porte aperte o chiuse

come interruzioni di pareti:

nei miei fondi segreti

nessuna mi fu avversa e mi deluse.

E questa della mia stanza romita,

s'apra oppure si chiuda,

ha una voce discordante e cruda,

anche un lamento che al disagio invita.


È un difetto del legno o dell'arpione

o della mia vecchiezza?

La porta parla, gracida, disprezza

con l'astio della mia lunga stagione?

Porta che non puoi essere gentile,

effonderti in saluti,

chiamo un fabbro che i tuoi cardini muti?

Non sarò così dolce e così vile.


(da "In verso e in prosa", Mondadori, Milano 1987, p. 86)





LA PORTA

di Aldo Palazzeschi (Aldo Giurlani, 1885-1974)


Davanti alla mia porta

si fermano i passanti per guardare,

taluno a mormorare:

«là, dentro quella casa,

la gente è tutta morta,

non s'apre mai quella porta,

mai mai mai».

Povera porta mia!

Grande portone oscuro,

trapunto da tanti grossissimi chiodi,

il frusciare più non odi

di sete a te davanti.

Dagli enormi battenti di ferro battuto,

che nessuno batte più,

nessuno ha più battuto

da tanto tempo.

Rosicchiata dai tarli,

ricoperta dalle tele dei ragni,

nessun ti aprì da anni ed anni,

nessun ti spolverò,

nessun ti fece un po' di toeletta.

La gente passa e guarda,

si ferma a mormorare:

«là, dentro quella casa,

la gente è tutta morta,

non s'apre mai quella porta,

mai mai mai».


(da "Poesie", Preda, Milano 1930, pp. 18-19)





LE PORTE DEL MONDO NON SANNO

di Sandro Penna (1906-1977)


Le porte del mondo non sanno

che fuori la pioggia le cerca.

Le cerca. Le cerca. Paziente

si perde, ritorna. La luce

non sa della pioggia. La pioggia

non sa della luce. Le porte,

le porte del mondo son chiuse:

serrate alla pioggia,

serrate alla luce.


(da "Tutte le poesie", Edizione Club, Milano 1982, p. 77)





LA PORTA CHIUSA

di Salvatore Quasimodo (1901-1968)


Viandante, che trovasti chiusa

la porta della città straniera,

ch'era fiorita nella tua pupilla

come una serra di stelle,

torna alla piccola terra,

tagliata dal mare: lontana,

ma tanto vicina al tuo cuore.


Chiudi nell'ombra come in un sepolcro

i sogni d'infinite lontananze,

e statuario, re nel tuo rifugio,

scaccia dalla soglia immacolata

la porpora nova che copre l'antico cencioso,

ed apri la porta, solo, per tua madre.


La troverai all'angolo del tempio,

dove si fermano, a sera, i pezzenti malati

a chiedere limosina di sole;

fra i tisici, i lebbrosi,

i luetici dalle ossa slegate,

chiamala a gran voce:


una si leverà fra tanti,

e bacerai le piaghe dei suoi piedi.


(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1995, p. 557)





PORTA

di Roberto Rebora (1910-1992)


Una gran porta di vapori

con spiragli ed angoli

di luce e buio

l'invito a passare

che lascia dentro o fuori

non so chi.


1986


(da "Parole cose", Scheiwiller, Milano 1987, p. 51)




LA PORTA

di Giuseppe Zucca (1887-1959)


Piccola, io t'ho aperta la porta

della mia vita, non appena tu,

stanca, ma certa, vi battesti su

        in quella prima sera

        con la tua palma leggera.

II resto che importa?


Piccola, io ho richiusa la porta

sùbito, dietro te, perdutamente

per non vedere, oltre di te, più niente.

        E tu, piccola, sai,

        tu non uscirne più mai.

Il resto che importa?


(da "Io", Formiggini, Roma 1919, p. 65)





domenica 10 agosto 2025

Sera di San Lorenzo

 

Mi rialzo alle colline

(Così lustre di pula lenta nel soffio d'agosto)

Silvestro, dolce amico, mi rassegni

D'ogni cosa trascorsa, dell'usura

Che fa liscia la pietra sopra il grano,

E una foglia mi porgi sulla mano

Generosa. Nel torpido alone

Della giovane luna ti chiudi

E parli di tante allegrie.

Fresco il vento sugli occhi si avviva

E rintoccano i sonagli alle vette.

Sono luci di San Lorenzo

Le fole che vidi ardere: tu ridi

Se penso la fila lunga

Di formiche che bruci.




COMMENTO

Sera di San Lorenzo è il titolo di una poesia di Leonardo Sinisgalli (Montemurro 1908 - Roma 1981). Fu pubblicata per la prima volta sulla rivista Letteratura (n. 2, aprile 1939), per poi entrare a far parte del volumetto intitolato Campi Elisi (Scheiwiller, Milano 1939). La si ritrova nella raccolta Vidi le Muse. Poesie 1931-1942 (Mondadori, Milano 1943), e quindi in Tutte le poesie (Mondadori, Milano 2020). I tredici versi di Sera di San Lorenzo appartengono senza alcun dubbio alla fase ermetica del poeta lucano; difficile risulta quindi dare un preciso significato al suo contenuto. È possibile però cercare di capirne alcuni passaggi. Nel primo verso il poeta parla probabilmente di un momento successivo ad una fase di riposo: in un luogo collinare non ben precisato (potrebbe riferirsi a qualche località della sua regione di nascita) l'uomo si alza da una posizione distesa, e guarda le colline che lo circondano. La pula - detta anche lolla - è costituita dai detriti di foglie e fiori che rimangono nel terreno dopo la trebbiatura del grano; il secondo verso vuole mettere in risalto la veduta che si offre al poeta: colline ricoperte di pula che, per i riflessi del sole calante o, più probabilmente, per il colore chiaro dei detriti di cui sono cosparse, appaiono lucide; si nota anche la presenza di un vento leggero, che muove lentamente la pula. A partire dal verso 3, Sinisgalli si rivolge direttamente all'amico Silvestro¹, definito "dolce", forse per sottolinearne la mansuetudine o i modi garbati; tale Silvestro probabilmente ha consolato l'amico, rammaricato dal tempo che velocemente passa, usurando ogni cosa (ne è un esempio la pietra sul grano). La foglia offerta da Silvestro all'amico poeta sembrerebbe quasi uno scherzo, o un tentativo di distrarre e allontanare Sinisgalli da pensieri tristi. Arduo, almeno per me, decifrare il significato dei versi 7 e 8: "Nel torpido alone / Della giovane luna ti chiudi", si può però dedurre che in cielo, in quel momento sta avvenendo una fase di novilunio (da qui la "giovane luna"); più facile è comprendere il verso 9, dove si evidenzia l'allegria di Silvestro. I due versi successivi pongono l'attenzione su piccoli particolari del luogo: il vento che soffia un po' più forte rispetto alle prime ore serali, e lo si avverte soprattutto sugli occhi; il rintocco piacevole dei campanelli al collo degli animali (pecore o capre) che pascolano sulle vette delle colline circostanti. I versi 12 e 13 finalmente fanno comprendere il titolo della poesia: le "luci di San Lorenzo" sono le famigerate stelle cadenti che in quel periodo preciso dell'anno è possibile osservare nelle notti serene (in realtà si tratta soltanto di meteore); le "fole" non sono favole ma fantasie del poeta, che qui vengono paragonate alle citate stelle di San Lorenzo. Infine torna l'immagine dell'amico Silvestro, mentre brucia - forse per puro divertimento - una fila di formiche, e ride nel vedere il poeta pensieroso, mentre guarda l'amico che sta compiendo quella strage di piccoli insetti.


NOTE

1) Grazie a una nota critica presente in Vidi le Muse, Avagliano Editore, Cava dei Tirreni 1997 (p. 164), ho saputo che si tratta di Silvestro Lobosco: uno dei "compagni prediletti" del poeta lucano, insieme a Leonardo Defina e Domenico Angerami. 





domenica 3 agosto 2025

Pensieri

 Cronologicamente parlando, il primo dei miei quattro nonni morì l'undici di agosto del 1985. Ricordo ancora quella data, perché la sua scomparsa rappresentò, per la mia giovane vita, una sorta di spartiacque; avevo previsto, ovviamente, che prima o poi i miei nonni sarebbero deceduti, ma, comunque quell'evento luttuoso mi rimase impresso nella mente, ed ancora oggi lo ricordo perfettamente, molto di più degli altri tre, verificatisi dopo alcuni anni. Questa personale riflessione mi è utile per introdurre i versi di seguito riportati, di un poeta sconosciuto, il cui nome è Giuseppe Tadini; di lui non sono riuscito a trovare dati biografici, so soltanto che pubblicò una raccolta poetica intitolata Primi fantasmi (Tip. dell'Esercente, Milano 1907) e due opere teatrali; si potrebbe aggiungere, da qualche notizia non sicurissima rintracciata nel web, che nacque a Milano. Il testo qui presente è tratto dal volume di versi in precedenza citato, e il tema principale è proprio la morte del nonno del poeta. L'avo perì quando Giuseppe era ancora un fanciullo, e, come ben spiega la poesia, non poteva ancora comprendere pienamente il senso reale della morte. Quando, la sera stessa del tragico evento, chiese alla mamma dove fosse andato il nonno, la donna, piangendo un po' gli rispose semplicemente che stava dormendo. Una volta cresciuto, il poeta capì che il nonno era scomparso per sempre, e che la morte delle persone care è qualcosa di estremamente doloroso e nel contempo non comprensibile. Le riflessioni finali del Tadini, dimostrano la sua abilità e la sua non comune sensibilità poetica, perché esprime in pochi versi il nonsenso dell'esistenza, che porta tutti noi verso la fine (ovvero il nulla), senza la possibilità di capire perché si nasce e poi si muore, e tanto meno di tornare indietro nel tempo, per rivivere i momenti più felici della nostra vita, trascorsi insieme alle persone più care che ormai abbiamo perso definitivamente.  




 Nonno, quel giorno che la morte fredda 

ti colse, ero fanciullo e non compresi. 

Vidi una cassa bianca, un sacerdote... 

vidi piangere tutti e piansi anch'io. 

Ma non sapevo; solo quando a sera 

venne la mamma a pormi nel lettuccio, 

timidamente domandai del nonno 

per il solito bacio, e mamma allora 

singhiozzando mi disse: il nonno... dorme.


Ora... se penso che il tuo dolce sguardo

più non mi scende all’anima, se penso 

che non mi baci più, non m’accarezzi,

è un arido rimpianto, e vorrei darti, 

nonno, la vita e ritornar fanciullo.

Ma non lo posso: questa forza grande, 

fatale che ci spinge o ci trascina,

verso la tomba, verso lo sfacelo, 

anch'io la sento, o nonno, e questa vita, 

oggi feconda, sterile domani,

anch'io la vivo... e corro e corro avanti, 

incontro al... nulla, dove turbinando 

l'atomo vile si disperde infranto!


(da "Primi fantasmi", Tip. dell'Esercente, Milano 1907, p. 22)






domenica 27 luglio 2025

Riviste: "L' Approdo"

 L'Approdo è il nome di una rivista letteraria nata nel 1952 grazie all'editrice ERI (Edizioni Rai Radiotelevisione Italiana) di Torino. Il nome deriva da una assai seguita rubrica radiofonica le cui trasmissioni andarono in onda dal 1944 al 1954. Dopo un interruzione di quattro anni, la rivista riprese le pubblicazioni nel 1958, col nome L'Approdo Letterario. Fin dal debutto, le sue pagine videro scritti in prosa e in versi, nonché saggi critici, di autorevoli nomi della letteratura italiana novecentesca, tra i quali Giuseppe Ungaretti, Elio Vittorini, Alfonso Gatto, Carlo Bo, Mario Luzi e Italo Calvino. Alla direzione si alternarono Giovanni Battista Angioletti e Carlo Betocchi; l'ultimo numero della rivista uscì nel 1977. Ecco, infine, tre testi poetici pubblicati in L'Approdo.


dal sito archive.org




PRIM'ACQUA D'AGOSTO

di Riccardo Bacchelli (1891-1985)


  Con che tenerezza indolita,

Autunno, ti annunci nel sole;

E tu mi ritorni parole

Che non mi ricorderei più:


  Nell'aria alleviata e schiarita

L'odor, che la grande aratura

Espresse, di sole e d'arsura,

E sente di terra oggidì;


  L'estate, l'annata! finita;

Le fresche rugiade dell'alba,

Il ciel che una pioggia già scialba,

E i giorni della gioventù.


(da «L'Approdo», ottobre/dicembre 1952)





LA MORTE NEL DESERTO

di Umberto Bellintani (1914-1999)


Udisti un soldato piangere nel deserto

con il capo affondato nelle dune:


«Era aspro il deserto.

Era dura la vita nel deserto.

Ma il cuore portava il sole;

e la luna nelle notti del deserto

coi ruscelli scintillanti, la memoria

di finestre spalancate sulle viole

di una verde vallata.


Era aspro il deserto.

Era dura la vita nel deserto.

Ma l'occhio portava il verde;

ma l'occhio portava il verde

e le viole fra le dune del deserto

coi mattini scintillanti e sonagliere

di cavalli galoppanti sulle strade

delle verdi pianure».


- O mio cuore,

fa che tu sia lontano dalla morte nel deserto,

dalla morte del soldato nel deserto:


dalla morte che ha divelto dall'occhio il canto allegro

dell'uccello di palma;

dalla morte che ha cacciato dalle mani la memoria

d'una guancia femminile, d'un bambino,

d'una groppa di cavallo, d'un agnello;

dalla morte che ha troncato ai piedi la carezza

del sentiero illuminato: dalla morte

che non vide alta in cielo la polare.  


(da «L'Approdo», luglio/settembre 1953)





RISVEGLIO

di Diego Valeri (1887-1976)


L'odore mattutino

degli alberi, e le strisce

verdi nel cielo bianco cenerino…

I miei sensi si allungan come bisce

a toccare le cose, a discoprire

dietro le cose le antiche memorie,

le incredibili storie

dell'ieri, del domani, del morire.


(da «L'Approdo», ottobre-dicembre 1954)


giovedì 24 luglio 2025

Le illusioni

 Ho ritrovato un buon numero di poesie che trascrissi chissà quanti anni fa, probabilmente da alcune riviste sconosciute o da vecchie antologie. Eccone una, il cui autore (Aloè Berinto) mi è totalmente ignoto; eppure in pochi versi riesce perfettamente a descrivere le illusioni umane, paragonate alle fragili bolle di sapone che nascono a seguito di un soffio leggero, volano per pochi secondi nel vento e quindi si spengono, lasciando - unica ed effimera traccia della loro esistenza - lievissima macchia nel terreno; il poeta vede queste macchie di sapone liquido come lacrime umane: cadute dagli occhi di chi è ormai totalmente disilluso e rimpiange, commovendosi, i suoi meravigliosi sogni irrealizzati.



Come le bolle di sapone

sono irradiate e fragili

le umane illusioni:

giocano col vento,

si spengono

e lacrime diventano.


(da questa pagina web)