domenica 7 dicembre 2025

I giocattoli in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 Vista la prossimità delle festività natalizie, mi sembra opportuno pubblicare dieci composizioni poetiche in cui i giocattoli la fanno da protagonisti. Penso che il Natale e l'Epifania siano due feste dedicate specificatamente ai bambini; sono loro infatti, che in questi due giorni speciali ricevono i regali più belli, e questi regali consistono quasi esclusivamente in giocattoli. Certo, quelli di oggi sono assai differenti da quelli di ieri: lo so bene anch'io che, ai miei tempi esultavo quando sotto l'albero di Natale, dopo aver scartato i colorati e infiocchettati pacchetti in cui erano racchiusi, vi trovavo soldatini e automobiline (erano questi i miei giocattoli preferiti). In verità non so cosa ricevano in regalo a Natale e nel giorno della Befana i bambini di oggi, ma comunque sia credo che sempre si tratti di giocattoli. Nei versi trascritti di seguito, compaiono soprattutto giocattoli "antichi": aquiloni, cavalli a dondolo, trombette e le immancabili bambole; ciò che conta, a mio avviso, è la imparagonabile felicità dei bambini dei tempi che furono e dei tempi odierni, quando utilizzano a loro piacimento oggetti semplici o complicati, poveri o costosi, di grandi dimensioni o minuscoli… insomma, quel che conta è che si parli in ogni caso di meravigliosi, immortali giocattoli.




I GIOCATTOLI IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO




LE SCATOLE DI SOLDATINI

di Paolo Buzzi (1874-1956)


Certo, adorai gli eserciti

piccoli, ma equipaggiati a perfetto

d'armi e bagagli nel piombo dei minî sgargianti.

Rivedo i profili stereotipi

delle soldatesche ordinate e l'oro pazzo

dei grandi marescialli e dei capi tamburi.

Schierati sulla tavola,

io li guardava camminar fermi

nel passo di marcia, al suon delle fanfare mute.

E le guancie dei trombettieri minuscoli erano gonfie.

Certo, io mi godeva l'anima

degl'Imperatori equestri

che guardano con maschera pallida

passare le forze e le bellezze dell'Impero.

E conosceva i miei capitani

segnati d'un nome d'Eroe. E già la Storia

era la grande maestra alla mia Vita.

Piccole truppe adorate,

in quale abisso di caldaia

si crogiolò la vostra policroma materia?

Dove siete rinati? Né mai più ci rivedremo?

Pur nel fondo del feretro che mi chiuderà?


(da "Poema dei quarantanni", Edizioni Futuriste di "Poesia", Milano 1922, pp. 82-83)




I GIOCATTOLI

di Edmondo Corradi (1873-1931)


Giocavi tu, bambina mia, con grave

atteggiamento, allor che in lunga fila

mettevi i soldatini

sul ponte di una nave

a inseguire un brigante della Sila

uscito da' confini,

oppure un Pulcinella

o un altro burattino:

quello che si trovava più vicino.

La nave galleggiava

entro una catinella

e il brigante scappava

dietro un volume delle «Mie prigioni»

in barba a tutti quanti gli squadroni;

e per questo nessuno lo arrestava.

Così bimba, parlavi:

- Scappa! Scappa! La nave è alla sponda.

I soldati si buttano nell'onda

salgono sulla riva…

Scappa, scappa!

              E il brigante

di stagnola fuggitiva,

né lo coglieano i lacci e la catena.

Giorni lieti e soavi

di tua infanzia serena!

Oh quante volte e quante,

infrangevi i balocchi con le mani

piccine e fremebonde! E quanti, quanti

eroi di stagno infranti!

Più di un bandito io vidi, moribondo,

piegar, fra le tue mani e dorso e testa!

Oh possa tu, domani,

mia bimba, far la festa

a tutti i Pulcinella e i burattini

ed a tutti i banditi e i malandrini

che incontrerai nel mondo!


(da "Dolce infanzia serena", Cappelli, Rocca San Casciano 1919, pp. 32-33) 




LA BAMBOLA E LA BIMBA

di Willy Dias (Fortunata Morpugno Petronio, 1872-1956)


Tanti, tanti anni or sono. E una gioconda

Fanciulla inconscia, ignara

Sognava sempre una bambola bionda

Che lunghi, aurei capelli

Avesse, e gli occhi belli.

- Era una bimba ignara. –


Ed ella ebbe la bambola, ma al breve

Corpo di crusca pieno

Senza saperlo una ferita lieve

Con uno spillo un giorno

Che le giocava intorno,

Ella infisse nel seno.


E la bambola bionda un po’ per volta

La crusca – ahimé – perdeva.

Non se ne avvide pria, la bimba stolta,

Del dì che floscio e vuoto

Il picciol corpo immoto

Più forma non aveva.


E nessuno, nessun, lo seppe mai

Ed ella nulla disse;

Da quel giorno appari mutata assai,

Scherzò delle speranze.

Folleggiò tra le danze.

— Ma nulla, nulla, disse. —


E presto si sentì stanca, la lieta

Gioventù non le arrise;

Nel cuor portava la morte segreta..

Ella no 'l disse mai,

Nessun lo seppe mai;..

La ferita l'uccise.


(da "Poeti italiani d'oltre i confini", Sansoni, Firenze 1914, pp. 248-249)




IL MIO CERCHIO

di Donata Doni (Santina Maccarone, 1913-1972)


Dov'è andato

il mio cerchio

di legno,

il grande cerchio,

tutta la mia

felicità bambina?


Chi me l'ha

perduto?

A chi

l'ho donato?

Perché

non lo trovo più?


Era il giuoco

più caro,

il più bello

tra i miei balocchi,

quello

che mi faceva

correre,

ansare,

gridare

di felicità.

Quello

che mi faceva

inseguire,

sempre,

fin d'allora

qualcosa

che mi fuggiva.


                                                Forlì 17 gennaio 1937


(da "Neve e mare", Edizioni di Storia e Letteratura", Roma 1973, pp. 114-115) 




GIOCATTOLI

di Mario Gori (Mario Antonio Di Pasquale, 1926-1976)


La mia infanzia passò senza giocattoli,

nessuno mi donò treni di latta

per la festa dei morti.


Mio nonno restò povero anche in cielo

e non poté mai scendere. Nessuno

volle in cambio del cuore

vendergli un palloncino colorato.


(da "Opera poetica", Libreria Editrice G. B. Randazzo, Gela 1991, p. 177)




LA TROMBETTINA

di Corrado Govoni (1884-1965)


Ecco che cosa resta

di tutta la magia della fiera:

quella trombettina,

di latta azzurra e verde, 

che suona una bambina 

camminando, scalza, per i campi. 

Ma, in quella nota sforzata,

ci son dentro i pagliacci bianchi e rossi, 

c'è la banda d' oro rumoroso,

la giostra coi cavalli, l'organo, i lumini. 

Come, nel sgocciolare della gronda,

c'è tutto lo spavento della bufera, 

la bellezza dei lampi e dell'arcobaleno; 

nell'umido cerino d'una lucciola 

che si sfa su una foglia di brughiera,

tutta la meraviglia della primavera.


[da "Poesie scelte (1903-1918)", Taddei, Ferrara 1920, p. 361]




L'AQUILONE

di Giovanni Pascoli (1855-1912)


C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole,

anzi d'antico: io vivo altrove, e sento

che sono intorno nate le viole.


Son nate nella selva del convento

dei cappuccini, tra le morte foglie

che al ceppo delle quercie agita il vento.


Si respira una dolce aria che scioglie

le dure zolle, e visita le chiese

di campagna, ch'erbose hanno le soglie:


un'aria d'altro luogo e d'altro mese

e d'altra vita: un'aria celestina

che regga molte bianche ali sospese...


sì, gli aquiloni! È questa una mattina

che non c'è scuola. Siamo usciti a schiera

tra le siepi di rovo e d'albaspina.


Le siepi erano brulle, irte; ma c'era

d'autunno ancora qualche mazzo rosso

di bacche, e qualche fior di primavera


bianco; e sui rami nudi il pettirosso

saltava, e la lucertola il capino

mostrava tra le foglie aspre del fosso.


Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino

ventoso: ognuno manda da una balza

la sua cometa per il ciel turchino.


Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,

risale, prende il vento; ecco pian piano

tra un lungo dei fanciulli urlo s'inalza.


S'inalza; e ruba il filo dalla mano,

come un fiore che fugga su lo stelo

esile, e vada a rifiorir lontano.


S'inalza; e i piedi trepidi e l'anelo

petto del bimbo e l'avida pupilla

e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.


Più su, più su: già come un punto brilla

lassù lassù... Ma ecco una ventata

di sbieco, ecco uno strillo alto... - Chi strilla?


Sono le voci della camerata

mia: le conosco tutte all'improvviso,

una dolce, una acuta, una velata...


A uno a uno tutti vi ravviso,

o miei compagni! e te, sì, che abbandoni

su l'omero il pallor muto del viso.


Sì: dissi sopra te l'orazïoni,

e piansi: eppur, felice te che al vento

non vedesti cader che gli aquiloni!


Tu eri tutto bianco, io mi rammento.

solo avevi del rosso nei ginocchi,

per quel nostro pregar sul pavimento.


Oh! te felice che chiudesti gli occhi

persuaso, stringendoti sul cuore

il più caro dei tuoi cari balocchi!


Oh! dolcemente, so ben io, si muore

la sua stringendo fanciullezza al petto,

come i candidi suoi pètali un fiore


ancora in boccia! O morto giovinetto,

anch'io presto verrò sotto le zolle

là dove dormi placido e soletto...


Meglio venirci ansante, roseo, molle

di sudor, come dopo una gioconda

corsa di gara per salire un colle!


Meglio venirci con la testa bionda,

che poi che fredda giacque sul guanciale,

ti pettinò co' bei capelli a onda


tua madre... adagio, per non farti male.


(da "Primi poemetti", Zanichelli, Bologna 1907, pp. 85-87)




UN PO' PER UNO

di Lina Schwarz (1876-1947)


È vero? Sei un povero

Bambino, che non hai

né dolci né giocattoli,

E non ne avesti mai?


Io, senza i miei giocattoli,

non so come farei...

Bambino, se vuoi prenderli,

Te ne darò dei miei.


Guarda! Pare impossibile!

Io tanti e tu nessuno;

Sarà assai meglio, credilo,

Averne un po' per uno.


(da "Il libro dei bimbi", Arcobaleno, Milano 2015, p. 34)




IL PALLONCINO ROSSO

di Giovanni Tecchio (1872-?)


È il tenue filo al bimbo della mano,

Che stretto stretto lo tenea, sfuggito;

E al palloncino rosso già lontano

Fissa lo sguardo trepido e stupito.


E batte i piedi e piange e piange invano

Il suo balocco in alto ormai sparito;

E pace non si dà di quello strano

Improvviso sparir nell'infinito.


Pure così, negli anni, ad una ad una

Sen van le illusioni più gioconde

Disperse al vento della rea fortuna;


E se amor con la speme non infonde

Virtù che sola in cor la fede aduna,

Astro non brilla in tenebre profonde.


(da "Canti", Monanni, Milano 1931, p. 111)




CAVALLO A DONDOLO

di Giuseppe Zucca (1887-1959)


                                                      lontananze

        Mi pare ieri.

La nonna Befana, la vecchia

che ama i bimbi buoni e sonnecchia

        lassù nella cappa del camino,

        s'era accorta d'un bambino

neppur troppo buono: di me:

        e dei miei desideri.


        Così che,

una mattina, (che freddo in camiciòla!)

una mattina (non c'era scuola,

        perché era Pasqua Epifania)

        ebbi la felicità mia:

un cavallo che andava su e giù;

        un cavallo da re.


        Lo rivedo

come fosse qui: le orecchie acute,

la criniera e la coda fioccute,

        i finimenti imbullettati

        e gli occhi spalancati:

due occhi castani, umani,

        tristi: li rivedo.


        Per monti e piani

cavallo di legno, al galoppo, al galoppo!

Il gioco non è mai troppo!

        Su e giù, tra la gioia e la gioia!

        Non c'era tempo alla noia,

allora, col mio cavallo a dondolo!

        Giorni lontani!


        Oggi, è assai più

grande il cavallo: né io lo governo.

Oscilla tra il cielo e l'inferno,

        lento ratto, ratto o lento,

        in un perpetuo ondeggiamento.

Ma, come l'altro, non sposta gran che.

        Su e giù, su e giù.


Perché, perché

— su e giù, tra rieri e il domani! —

perché questi galoppi vani?

        Lo sapete voi, forse, o sperduti

        spiriti ignoti, che muti

e lievi talvolta balzate

        in sella con me?


(da "Io", Formiggini, Roma 1919, pp. 22-23)



Thomas Eakins, "Baby at Play"
(da questa pagina Web)


domenica 30 novembre 2025

Riviste: "Aretusa"

 Aretusa è il titolo di una rivista fondata a Napoli nel 1944 da Francesco Flora. Dal 4° numero (settembre-ottobre 1944), a Flora subentrò Fausto Nicolini. Una nuova e decisiva svolta per la rivista si ebbe a partire dal 7° numero (marzo 1945), perché la sede si trasferì a Roma, da bimestrale divenne mensile e alla sua direzione passò Carlo Muscetta. Aretusa chiuse i battenti nell'agosto del 1946. Nata quando ancora non erano del tutto chiare le sorti dell'Italia in guerra, la rivista si pose subito in contrasto con la dittatura fascista, rivendicando una purezza della parola scritta e un umanesimo volto alla libertà in senso lato. Con Muscetta alla direzione, Aretusa si incanalò verso temi concernenti una disamina del ventennio appena trascorso, e di una nuova, fruttuosa collaborazione tra anime appartenenti a varie e diverse opinioni di pensiero. Le pagine della rivista romana non videro soltanto articoli e testi letterari, poiché vi comparvero anche saggi di politica, storia e arte in generale. Tra i collaboratori più illustri di Aretusa si ricordano i nomi di Benedetto Croce, Corrado Alvaro, Vitaliano Brancati, Walter Binni, Alberto Moravia e Libero Bigiaretti. Ecco, per finire, tre poesie comparse per la prima volta su Aretusa.


Prima pagina del primo numero di "Aretusa"
(da questa pagina web)



LA CASA SUL MARE

di Sergio Ortolani


Avevo, nel tempo, una casa

toccata ogn'intorno dal mare.

S'udiva per dentro la scala

il succhio delle onde gonfiare.


Al sommo le cento vetrate

tinnivano fragili ai venti:

era una materia vibratile

musicata dagli elementi.


In quella casa solitaria

cresciuta per me dalle spume

tanto era il mare che l'aria

prendeva un verdissimo lume.


E sulle ignude pareti

che aveano la grana del sale

mettean le tempeste magnetiche

cangianti fluori d'opale.


A volte cortine di fiamme

iridate d'arcobaleni,

come siderali orifiamme

frangiavano i cieli sereni.


Poi diaccia la notte d'acciaio

rendeva ogni luce dal mondo.

I denti d'un solo ghiacciaio

bucavano il mare di piombo.


Passavano bastimenti

con velature d'argento,

senza ciurma, a lumi spenti,

le sartie fischiavano al vento.


Con la fronte alla vetrata

li vedea naufragare pian piano

e quella musica delirata

mi strappava il cuore lontano.


(da «Aretusa», maggio/giugno 1944)





VERSI A GIAIME PINTOR

di Antonio Russi


È permesso a chi cadde nella lotta

di marcire

solo?

È permesso alla foglia imputridita dall'autunno

di sciogliersi nella terra

per sempre?


È permesso alla rondine

abbandonata all'inverno straniero

di nascondersi tra la neve

la testa sotto l'ala?


È permesso al figlio di un paese defunto

di lasciarsi morire con in bocca

un pugno della terra

che si chiama ancora

Italia?


(da «Aretusa» maggio/giugno 1944)





SERENATA

di Giorgio Bassani


Ora che in lenti vortici come una chioma di neve

che oscure dita tormentano, la nebbia delle paludi

fuma alla tua finestra, e una bufera di buie

lacrime ti ridesta dentro sudate e grevi


coltrici; ora che è gelo e tenebra, dà voce

chiusa forma in ascolto a quel tuo tetro grammofono.

Uscita dalla nube al vetro, atroce

calma mano salutami, amaro riso sepolto.


(da «Aretusa», gennaio/febbraio 1946)



domenica 23 novembre 2025

Porta Venezia

 I castagnai dei bastioni 

Di nuovo accendono i fuochi. 

La giostra della nebbia 

I lumi di Porta Venezia. 

Seduta al parapetto 

Mi parli all'orecchio. 

L'odore  di neve, 

Le tue parole. 

Piove non piove.





COMMENTO

Porta Venezia è il titolo di una poesia di Raffaele Carrieri (Taranto 1905 - Pietrasanta 1984). Io l'ho trascritta dal volume Stellacuore, pubblicato dalla Mondadori di Milano nel 1970, dove la si può leggere alla pagina 176 (vedi foto sopra); in questo volume c'è la possibilità di leggere anche quasi tutti i versi di Carrieri, dai suoi esordi (la prima raccolta poetica che diede alle stampe nel 1945 s'intitola Lamento del Gabelliere) al 1970. Io lessi per la prima volta questi versi in una antologia della poesia italiana del Novecento pubblicata dalla Garzanti di Milano nel 1980 (ma la comperai una dozzina di anni dopo). Fu tramite la lettura delle sei poesie presenti in quest'opera antologica, che mi accorsi della indubbia bravura di Raffaele Carrieri: un poeta ancora oggi sottovalutato o addirittura dimenticato. I nove versi di questa composizione poetica si concentrano su alcuni particolari fondamentali per chi li ha scritti, perché gli hanno destato di più l'attenzione, lasciandogli un ricordo incancellabile di una parte di una giornata trascorsa al centro di Milano. Innanzi tutto c'è da dire che Porta Venezia è una delle sei porte principali di Milano, e si trova nella zona est del capoluogo lombardo; c'è da aggiungere che Carrieri trascorse a Milano diversi anni della sua esistenza, lavorando irregolarmente in svariati settori. Volendoci ora dedicare alla mera descrizione dei versi, si può affermare che fotografino un giorno tra la fine dell'autunno e l'inizio dell'inverno; l'ora, stando ad alcuni particolari come i lumi accesi, potrebbe essere tardo-pomeridiana o serale; il luogo, come detto, è il centro di Milano (presso Porta Venezia), dove il poeta si trovava forse per una passeggiata, insieme ad una donna che, probabilmente, era la sua compagna. Ed ecco una serie di piccoli accadimenti che si susseguono in questo preciso contesto, descritti in modo magistrale, che praticamente immortalano quel momento: i castagnai che si sono appostati presso le mura spagnole di Milano (i famosi bastioni), stanno accendendo i fuochi sui quali pongono - all'interno di una padella forata - le castagne, per poterle cuocere e quindi venderle (le squisite caldarroste che è possibile gustare anche al centro di Roma); l'immancabile, tipica nebbia milanese che si muove come fosse una giostra; i lumi già accesi nella piazza per il calare della visibilità; le parole segrete, dette sottovoce dalla donna (che è seduta su un parapetto) vicino all'orecchio del poeta; un odore di neve che preannuncia l'inizio della stagione invernale e che fa pensare ad una temperatura vicina allo zero; l'eco delle parole della donna che rimane impresso nella mente del poeta e infine una pioviggine discontinua. Una serie di elementi, quindi, che possono essere paragonati ad una serie di scatti fotografici atti a cristallizzare dei momenti particolari, all'apparenza di un giorno qualunque, ma in realtà importanti, perché è molto probabile che il poeta stesse vivendo un giorno o un periodo d'intensa felicità, e volesse immortalarlo con una piccola sequenza di versi, capaci di ben rappresentare quello stato di benessere fisico e mentale. 

domenica 16 novembre 2025

I rumori nella poesia italiana decadente e simbolista

I rumori, nei versi di questi poeti hanno diverse origini e variegate simbologie. La Aganoor, associa il suono delle sonagliere nel cuore della notte a pensieri “miti” e “mansueti” di “rinuncia”. Un rumore notturno è anche quello udito da Enrico Annibale Butti, seppure di diversa natura: il poeta infatti viene bruscamente svegliato da una sorta di sibilo; difficile è capire quale sia l’origine del rumore percepito dall’uomo, il quale si fa delle domande al riguardo, non trovando alcuna risposta. Notturni sono anche i passi del poeta Dino Campana, che cammina sulla prora di una nave e rimane quasi incantato dal ritmico battere delle sue scarpe sul pavimento dell’imbarcazione. Rimanendo in ambito notturno, inquietante a dir poco è il suono di un misterioso squillo di tromba udito dagli esseri umani di ogni parte del globo terrestre che, spaventati da quell’intenso e improvviso rumore si riversano sui campi e sulle strade cittadine in cerca dell’origine di quel suono che si perpetua in una notte infinita, e sembra annunciare la fine del mondo. Ancora la notte, e ancora dei rumori inquietanti sono i protagonisti della poesia di Satta, dove il poeta non può riposare perché infastidito e tormentato dal martellare continuo di un corvo su “rotte rupi”, così come dal ronzio ininterrotto del fuso che fila una parca: entrambi i rumori simboleggiano qualcosa di sinistro, forse le ossessioni che angustiano lo stesso poeta. Assillante, continuo e infinito è anche il rumore provocato dai colpi di un’accetta, proveniente dalla parte più profonda di un parco, presente nella poesia di Guelfo Civinini; ovviamente è misteriosa l’origine di questi colpi, anch’essi di valore simbolico. Il ronzio di un bombo che sbatte sul vetro esterno della finestra di una casa, diviene, nella poesia del Pascoli, qualcosa di particolarmente enigmatico: è come se l’insetto cercasse di entrare nell’abitazione del poeta, perché fortemente intenzionato a riferirgli una notizia importante, che lo riguarda direttamente; oppure nel bombo potrebbe essersi reincarnata una persona deceduta, cara al poeta, ansiosa di rimettersi in contatto con lui. Due tarli: uno reale ed uno simbolico, sono i protagonisti della poesia di Arturo Colautti; il primo è quello che erode il legno del vecchio letto che si trova nella casa dove vive, e dove vissero i suoi antenati; il secondo invece dimora nella testa del poeta, e scava anche lui – non il legno ma il cervello del malcapitato – che si affligge perché incerto sulla sincerità dell’amore dichiaratogli dalla donna che lui sa di amare alla follia.

 

 

Poesie sull’argomento

 

Vittoria Aganoor: "Sonagliere" in "Nuove liriche" (1908).

Ugo Betti: "Il cuore sepolto" in "Il Re pensieroso" (1922).

Enrico Annibale Butti: "Sonno interrotto" in "Dai nostri poeti viventi" (1903).

Dino Campana: "Batte botte" in "Canti Orfici" (1914).

Enrico Cavacchioli: "Rêverie" in "L'Incubo Velato" (1906).

Francesco Cazzamini Mussi: "Veglia" in «Poesia», ottobre 1909.

Giovanni Alfredo Cesareo: "Il campanello" in "Poesie" (1912).

Guelfo Civinini: "L'accetta" in "I sentieri e le nuvole" (1911).

Arturo Colautti: "Il tarlo" in "Canti virili" (1896).

Alessandro Giribaldi: "Su l'alba" in "Canti del prigioniero e altre liriche" (1940).

Arturo Graf: "Lo squillo" in "Morgana" (1901).

Angiolo Orvieto: "Selva e mare" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).

Aldo Palazzeschi: "La ferita del silenzio" in "I cavalli bianchi" (1905).

Giovanni Pascoli: "Il nunzio" in "Myricae" (1900).

Francesco Pastonchi: "Tramontata è la luna" in "Il pilota dorme" (1913).

Antonio Rubino: "Cavalcata" in «Poesia», ottobre 1908.

Sebastiano Satta: "Notte tra i monti" in "Canti barbaricini" (1910).

Mario Venditti, "Notturno" in "Il terzetto" (1911).

 

 

 

Testi

 

LA FERITA DEL SILENZIO

di Aldo Palazzeschi

 

Fa un lento romore costante

la fonte ch'è sotto l'arcata del ponte

che il monte riunisce pel passo dei treni.

 

(da "I cavalli bianchi. Lanterna. Poemi", Empirìa, Roma 1996, p. 27)

 

 

 

 CAVALCATA

di Antonio Rubino

 

Varca i cieli un velario di festoni

straziato dal vento a brano a brano:

in sui confini dei settentrioni

rigurgita di nembi l'uragano.

 

Le mostruose conflagrazioni

covano un sordo brontolio lontano:

flagella il vento gli ermi torrioni

dell'erma rupe, mugolando vano.

 

Ma un inno, un corruscar d'armi lucenti,

vivi rompendo dai più folti grembi,

pervadono il dominio dei venti;

 

qual fremito di trilli e di nitriti

corre, o Notte, la tua chioma di nembi,

o Notte, o madre dei cantanti miti?

 

(da «Poesia», ottobre 1908, p. 5)

 

 

Ferdinand Hodler," Holzfaeller"
(da questa pagina Web)

domenica 9 novembre 2025

Antologie: "Poeti italiani del secondo Novecento 1945-1995"

 Poeti italiani del secondo Novecento 1945-1995 è il titolo di un'antologia che fu pubblicata nella collana dei Meridiani della Mondadori di Milano nel 1996; i curatori dell'opera sono Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi. Personalmente ricordo che, subito dopo l'uscita di questo libro, uno dei due curatori partecipò ad una trasmissione televisiva di Rai Tre, il cui argomento principale era la letteratura; io guardavo regolarmente questo programma che, se non erro, andava in onda dal lunedì al venerdì; quel giorno, insieme al curatore dell'antologia, erano presenti nello studio televisivo diversi poeti inclusi o meno nelle pagine dell'antologia citata; rimasi colpito dalle accese discussioni, nate sulla struttura e su altri dettagli riguardanti questo nuovo libro, che evidentemente non piacque a tutti. Io non mi feci certamente influenzare da tali discussioni e, qualche giorno dopo mi recai in una libreria ad acquistare l'opera antologica, sapendo che vi avrei trovato cose interessanti. Così, ebbi modo di fare ulteriori scoperte, nell'ambito della poesia italiana del secondo Novecento. Il periodo preso in considerazione, giustamente parte dal 1945: anno cruciale per l'Europa e per il mondo intero, perché fu proprio nel '45 che terminò la guerra più devastante del XX secolo. Il termine, per far sì che venga considerato un intero cinquantennio, è il 1995. La selezione comprende in tutto sessanta poeti ed è divisa in dodici sezioni; si parte dai "maestri", ovvero dalla generazione dei poeti nati negli anni Dieci del Novecento, e che poeticamente esordì prima del 1945; si arriva agli "Anni Ottanta", ossia alla generazione di coloro che nacquero negli anni Cinquanta. Soltanto due poeti: Andrea Zanzotto e Giovanni Giudici, occupano intere sezioni a loro dedicate. Sempre parlando personalmente, furono tre gli scrittori che "scoprii" grazie a quest'antologia: Giampiero Neri, Michele Ranchetti e Giuseppe Piccoli; presenti in sezioni diverse, questi poeti sono stati sicuramente trascurati dai critici, almeno per quel che concerne la fase iniziale della loro attività poetica; qualcuno, sebbene in ritardo, è stato in seguito rivalutato e consacrato ed oggi gode di buona fama; qualcun altro, scomparso prematuramente, ancora oggi è negletto. Da leggere attentamente sono sia l'introduzione che le presentazioni dei poeti, scritte dai due curatori dell'opera; meticolosa e dettagliata è la parte intitolata Profili biobibliografici degli autori, che si trova a conclusione del libro. Chiudo, come sempre, riportando i nomi di tutti i poeti compresi in quest'antologia, inseriti nelle sezioni di cui ho parlato. 



POETI ITALIANI DEL SECONDO NOVECENTO






LA PRESENZA DEI MAESTRI

Attilio Bertolucci, Mario Luzi, Giorgio Caproni, Vittorio Sereni.


OFFICINA

Pier Paolo Pasolini, Franco Fortini, Roberto Roversi.


QUARTA GENERAZIONE

Luciano Erba, Nelo Risi, Bartolo Cattafi, Giorgio Orelli, Rocco Scotellaro, Maria Luisa Spaziani, Umberto Bellintani, Alda Merini.


ZANZOTTO, L'ONTOLOGIA DEL LINGUAGGIO

Andrea Zanzotto.


L'AVANGUARDIA

Elio Pagliarani, Edoardo Sanguineti, Alfredo Giuliani, Nanni Balestrini, Antonio Porta, Amelia Rosselli.


GIUDICI, LA VITA IN VERSI

Giovanni Giudici.


L'ETICA DEL QUOTIDIANO

Giovanni Raboni, Giancarlo Majorino, Giampiero Neri, Giorgio Cesarano, Tiziano Rossi.


QUATTRO PERCORSI APPARTATI

Lucio Piccolo, Lorenzo Calogero, Fernando Bandini, Michele Ranchetti.


IN DIALETTO

Tonino Guerra, Albino Pierro, Franco Loi, Raffaello Baldini, Franco Scataglini.


NARRATORI POETI

Elsa Morante, Giorgio Bassani, Paolo Volponi, Ottiero Ottieri, Alberto Bevilacqua, Nico Orengo.


IL PUBBLICO DELLA POESIA

Dario Bellezza, Cesare Viviani, Patrizia Cavalli, Valentino Zeichen, Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Gregorio Scalise, Giuseppe Conte, Mario Santagostini, Giuseppe Piccoli, Biancamaria Frabotta, Paolo Ruffilli, Vivian Lamarque.


ANNI OTTANTA

Valerio Magrelli, Patrizia Valduga, Roberto Mussapi, Gianni D'Elia.

domenica 2 novembre 2025

'A livella

 Non è certamente il caso di spendere ulteriori parole riguardanti lo straordinario e direi ineguagliabile talento che appartiene all'attore Totò (pseudonimo di Antonio De Curtis, Napoli 1898 - Roma 1967); in questo post voglio invece ricordarlo come artista a tutto tondo, ovvero come poeta (fu anche autore di canzoni famose come Malafemmena). Non sono sicuramente io a scoprire Totò da questo punto di vista, poiché la poesia di seguito riportata, è assai celebre, probabilmente più di tante altre scritte da poeti insigni. È - come tutte le altre di Totò - in dialetto napoletano, ma questo non significa minimamente che vi siano delle parti poco chiare. Il tema di 'A livella - così s'intitola la poesia, prendendo a simbolo uno strumento di misura utilizzato per determinare la pendenza di una superficie rispetto a un piano orizzontale di riferimento -, è quello della morte quale equiparatrice di tutte le ineguaglianze della vita. In un cimitero, nel giorno della commemorazione dei defunti, un uomo per caso si ritrova presso due tombe assai differenti tra loro; all'interno ci sono i corpi e le anime di due personaggi appartenenti a ceti sociali totalmente opposti: un marchese e uno spazzino. Il marchese è sepolto all'interno di una tomba lussuosa, ornata da vistosi lumi e da fiori particolarmente belli; lo spazzino invece è stato seppellito sotto un mucchio di terra, e per ricordarlo ci sono solamente un lumicino e una scabra croce di legno con su scritto a mala pena il suo nome. Nei versi di Totò è come se, dopo il trapasso, le anime del marchese e dello spazzino dimorassero proprio nelle loro tombe, e avessero quindi anche il modo d'incontrarsi e colloquiare. È ciò che accade quel giorno davanti agli occhi increduli dell'occasionale visitatore; tra i due fantasmi nasce una discussione, poiché il marchese si lamenta della presenza - accanto al suo sepolcro - di una tomba così misera, che nulla ha a che vedere con la sua; dopo aver sollecitato lo spazzino ad allontanarsi da lui, e dopo che quest'ultimo ha umilmente presentato le sue scuse al marchese, attribuendo la colpa dell'accaduto alla moglie, i toni si alzano e in seguito alle reiterate lamentele del marchese, il poveruomo reagisce in modo rabbioso, cercando di far comprendere all'altro defunto quale sia la realtà dei fatti: in vita esistono i marchesi e gli spazzini ovvero i ricchi e i poveri, ma una volta giunta la morte, tutti quanti sono uguali e non esistono differenze sociali; le tombe sono state edificate dai vivi, e rappresentano quei valori sbagliati che secondo i viventi hanno gli individui: i ricchi sono sepolti in tombe monumentali, i poveri sotto un po' di misera terra. Il fatto è che i morti, dovunque si trovino i loro tumuli, non solo sono impossibilitati a qualunque azione, ma - secondo il pensiero di Totò - hanno o dovrebbero avere atteggiamenti più realistici e consapevoli perché, come recita l'ultimo verso della poesia: nuje simmo serie... appartenimmo â morte!



'A LIVELLA


Ogn'anno, il due novembre, c'è l'usanza

per i defunti andare al Cimitero.

Ognuno ll'adda fa' chesta crianza;

ognuno adda tené chistu penziero.


Ogn'anno, puntualmente, in questo giorno,

di questa triste e mesta ricorrenza,

anch'io ci vado, e con dei fiori adorno

il loculo marmoreo 'e zi' Vicenza.


St'anno m'é capitato 'n'avventura...

dopo di aver compiuto il triste omaggio

(Madonna!), si ce penzo, che paura!

ma po' facette un'anema e curaggio.


'O fatto è chisto, statemi a sentire:

s'avvicinava ll'ora d''a chiusura:

io, tomo tomo, stavo per uscire

buttando un occhio a qualche sepoltura.


«QUI DORME IN PACE IL NOBILE MARCHESE

SIGNORE DI ROVIGO E DI BELLUNO

ARDIMENTOSO EROE DI MILLE IMPRESE

MORTO L’11 MAGGIO DEL TRENTUNO.»


'O stemma cu 'a curona 'ncoppa a tutto...

...sotto 'na croce fatta 'e lampadine;

tre mazze 'e rose cu 'na lista 'e lutto:

cannele, cannelotte e sei lumine.


Proprio azzeccata 'a tomba 'e stu signore

nce stava 'n ata tomba piccerella,

abbandunata, senza manco un fiore;

pe' segno, sulamente 'na crucella.


E ncoppa 'a croce appena se liggeva:

«ESPOSITO GENNARO NETTURBINO».

Guardannola, che ppena me faceva

stu muorto senza manco nu lumino!


Questa è la vita! 'Ncapo a me penzavo...

chi ha avuto tanto e chi nun ave niente!

Stu povero maronna s'aspettava

ca pur all'atu munno era pezzente?


Mentre fantasticavo stu penziero,

s'era ggià fatta quase mezanotte,

e i' rimanette 'nchiuso priggiuniero,

muorto 'e paura... nnanze 'e cannelotte.


Tutto a 'nu tratto, che veco 'a luntano?

Ddoje ombre avvicenarse 'a parte mia...

Penzaje: stu fatto a me mme pare strano...

Stongo scetato... dormo, o è fantasia?


Ate che fantasia; era 'o Marchese:

c'o' tubbo, 'a caramella e c''o pastrano;

chill'ato apriesso a isso un brutto arnese;

tutto fetente e cu 'na scopa mmano.


E chillo certamente è don Gennaro...

'omuorto puveriello...'o scupatore.

'Int' a stu fatto i' nun ce veco chiaro:

so' muorte e se ritirano a chest'ora?


Putevano stà 'a me quase 'nu palmo,

quando 'o Marchese se fermaje 'e botto,

s'avota e, tomo tomo... calmo calmo,

dicette a don Gennaro: «Giovanotto!


Da Voi vorrei saper, vile carogna,

con quale ardire e come avete osato

di farvi seppellir, per mia vergogna,

accanto a me che sono blasonato?!


La casta è casta e va, sì, rispettata,

ma voi perdeste il senso e la misura;

la vostra salma andava, sì, inumata;

ma seppellita nella spazzatura!


Ancora oltre sopportar non posso

la vostra vicinanza puzzolente.

Fa d'uopo, quindi, che cerchiate un fosso

tra i vostri pari, tra la vostra gente».


«Signor Marchese, nun è colpa mia,

i' nun v'avesse fatto chistu tuorto;

mia moglie è stata a ffa' sta fesseria,

i' che putevo fa' si ero muorto?


Si fosse vivo ve farrie cuntento,

pigliasse 'a casciulella cu 'e qquatt'osse,

e proprio mo, obbj'... 'nd'a stu mumento

mme ne trasesse dinto a n'ata fossa.»


«E cosa aspetti, oh turpe malcreato,

che l'ira mia raggiunga l'eccedenza?

Se io non fossi stato un titolato

avrei già dato piglio alla violenza!»


«Famme vedé… - piglia 'sta violenza...

'A verità, Marché', mme so' scucciato

'e te sentì; e si perdo 'a pacienza,

mme scordo ca so' muorto e so mazzate!...


Ma chi te cride d'essere... nu ddio?

Ccà dinto, 'o vvuò capì, ca simmo eguale?...

...Muorto si' tu e muorto so' pur'io;

ognuno comme a 'na'ato è tale e qquale.»


«Lurido porco!... Come ti permetti

paragonarti a me ch'ebbi natali

illustri, nobilissimi e perfetti,

da fare invidia a Principi Reali?»


«Tu qua' Natale... Pasca e Ppifania!!!

T''o vvuo' mettere 'ncapo... 'int''a cervella

che staje malato ancora e' fantasia?...

'A morte 'o ssaje ched'è?... è una livella.


'Nu rre, 'nu maggistrato, 'nu grand'ommo,

trasenno stu canciello ha fatt''o punto

c'ha perzo tutto, 'a vita e pure 'o nomme:

tu nu t'hè fatto ancora chistu cunto?


Perciò, stamme a ssentì... nun fa' 'o restivo,

suppuorteme vicino - che te 'mporta?

Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive:

nuje simmo serie... appartenimmo â morte!»


(da 'A livella e Poesie d'amore, Newton Compton, Roma 1995, pp. 31-35)




domenica 26 ottobre 2025

Poeti dimenticati: Tullio Colsalvatico

 Tullio Colsalvatico è lo pseudonimo con cui artisticamente si firmò Tullio Pascucci (Camporotondo 1901 – Tolentino 1980): poeta e narratore marchigiano che visse a Roma in gioventù e nella capitale italiana conobbe diversi intellettuali che lo incoraggiarono ad iniziare la sua attività letteraria, la quale si concretizzò dapprima in collaborazioni saltuarie a riviste nazionali ed estere, per proseguire con pubblicazioni di volumi di versi, romanzi e novelle. Nelle liriche di Colsalvatico (come afferma, tra le altre cose, il poeta Davide Rondoni nella prefazione che precede una raccolta antologica del poeta marchigiano) spesso si nota uno stupore ed una malinconica sorpresa di fronte alla bellezza dei colori che contraddistinguono i luoghi dove lo scrittore nacque e trascorse gran parte della sua vita. Sempre Rondoni, avvicina i versi di Colsalvatico a quelli di Camillo Sbarbaro, del primo Giorgio Caproni, del giovane Attilio Bertolucci e dell’ultima Ada Negri. Certamente, quella del poeta marchigiano è una poesia di ottima qualità, che andrebbe perciò maggiormente ricordata.

 

 

Opere poetiche

 

“L’anima bagnata di lacrime”, Tip. Filelfo, Tolentino 1924.

“Domani riprenderò la mia strada”, Tip. Filelfo, Tolentino 1925.

“Rapsodia Prima”, Sperling-Kupfer, Milano 1937.

“Rapsodia Seconda”, Sperling-Kupfer, Milano 1939.

“Strada d’argento”, Bardi, Roma 1950.

“La casa perduta”, Istituto “La Casa”, Milano 1954.

“Trasparenze”, Ceschina, Milano 1966.

“Solitudini”, Ceschina, Milano 1969.

“Montefano”, Città Armoniosa, Reggio Emilia 1978.

“Poesie (1954-1978)”, Circolo Culturale “Tullio Colsalvatico”, Tolentino 2001.

 

 


 

Testi

 

 

SORRISO

 

Bastò un sorriso che gettasti ignara

perch'io dimenticassi di quel giorno

e d'altri giorni un tragico presagio.

Or ti cerco ogni volta ch'è più greve

il mio peso, e smemoro al ricordo.

Ma se ti penso so che ti ho perduta

senza mai averti, e accresci la mia angoscia.

 

(da "Strada d'argento", Bardi, Roma 1950, p. 36)

 

 

 

 

SPIRA UN GELIDO VENTO

 

Sospeso in aria dalle nebbie, il treno

s'appende al fischio, che ferisce il buio.

La stazioncina aspetta rivestita

di luci, e tu mi guardi con stupore:

la muta sofferenza cambia il volto.

Arde una vita dietro ogni parola…

che si perde nel fremito del pianto.

Dietro di te la casa s'allontana

più che non il tuo passo la distacchi.

Non sei partita e già vivo il ritorno.

Il tuo ricordo è il mio solo domani.

 

(da "Trasparenze", Ceschina, Milano 1966, p. 59)

 

 

 

 

CONSUNTO DAI RICORDI

 

Consunto dai ricordi di una vita

che non vissi, cammino sotto il peso

di ciò che non ho più; tutto m'è ignoto

e, più d'ogni altra cosa, il nostro cuore.

Della mia pena, Dio, non ho saputo

farne un canto, ma un rauco urlo nel vuoto.

Per ardue forme di cristallo, il sogno

cercato ha invano il suo slancio perenne.

 

(da "Solitudini", Ceschina, Milano 1969, p. 41)