Nella ricorrenza annuale che festeggia San Francesco d'Assisi, ho voluto rispolverare due vecchie poesie dove protagonista non è il santo patrono d'Italia, bensì alcuni dei tantissimi luoghi che il poverello d'Assisi ci ha lasciato in eredità: i conventi dei frati francescani. Nella prima poesia: San Francesco del Deserto di Angiolo Orvieto (Firenze 1869. ivi 1967), si parla, per l'appunto, di un convento francescano situato in un luogo bellissimo: una piccola isola della laguna veneziana che ha il nome equivalente al titolo della lirica; San Francesco del Deserto si trova tra altre due isole: Burano e Sant'Erasmo; come ben spiegano i versi del poeta, in quel luogo così isolato si respira un'atmosfera di profonda pace, accentuata dal silenzio (si odono, a volte, soltanto i leggeri rumori provenienti dall'isola di Burano); questa quiete unita alla bellezza del posto, fanno sì che la solitudine, aggettivata dal poeta, diviene "beata", poiché chi rimane da solo non soffre, anzi si gode quelle sensazioni uniche, mistiche e rasserenanti, in grado d'isolarlo da tutto il resto del mondo, e di dargli la netta sensazione di essere in un paradiso terrestre. San Francesco del Deserto fu pubblicata per la prima volta nella raccolta poetica di Angiolo Orvieto intitolata La sposa mistica. Il velo di Maya (Treves, Milano 1898). Io l'ho trascritta da un altro volume, pubblicato dopo dodici anni dalla morte dello scrittore toscano: Poesie scelte, Olschki, Firenze 1979.
SAN FRANCESCO DEL DESERTO
San Francesco del deserto,
romitaggio lagunare,
d’un settemplice filare
di cipressi ricoperto;
questo vento vien dal mare
e disfiora il tuo convento,
e d’un lieve movimento
ti fa l’acqua scintillare.
S’ode un vivo cinguettare
per le tue paludi intorno,
e nel pieno mezzogiorno
una navicella appare.
Essa muove piano piano
sovra l’alighe palustri;
fra quei tremuli ligustri
lenta va verso Burano.
Da Burano non lontano
giunge suono di campane,
che le belle popolane
chiama al desco rusticano.
Sosta l’opra della mano
che tessea merletti vaghi;
hanno tregua fili ed aghi
nel tepore meridiano.
Sulla lastre, che fragore
di sonanti zoccoletti,
o Burano dei merletti,
o Burano dell’amore!
Ma non giunge quel rumore
qui, nell’ombra claustrale,
nel silenzio sempre uguale,
sempre uguale a tutte l’ore.
Qui la pace delle aurore
dura tutta la giornata:
solitudine beata
per chi vive e per chi muore.
«O beatitudo sola,
o beata solitudo!»
Sull’antico muro ignudo
sta la mistica parola.
La parola che consola
il mio spirito dolente,
e lo culla dolcemente
come suono di viola.
Siimi tu lucente scudo,
siimi tu divina scuola,
«O beatitudo sola,
o beata solitudo!»
(da "Poesie scelte", Olschki, Firenze 1979, pp. 78-79)
Anche la seconda poesia: Convento francescano di Silvio Cucinotta (Pace del Mela 1873 - Santa Lucia del Mela 1928), parla di un luogo appartato, in cui risulta facile farsi attrarre dalle atmosfere mitiche e, nello stesso tempo, da un senso di pace non riscontrabile altrove. Questo convento di cui parla il poeta siciliano, si trova a pochi passi dal mare, ed è circondato da un panorama bellissimo. Qui, come nell'isoletta descritta dalla poesia di Orvieto, sembra di vivere fuori dal mondo; si è soli, è vero, ma ciò non comporta affatto sofferenza; la solitudine diviene "gioconda", e i rumori piacevoli che si ascoltano, come le voci dei frati in preghiera, o il "din don" delle campane del convento, fanno sì che l'anima risorga da uno stato di angoscia, che si riappacifichi col mondo intero, proiettandosi verso il futuro con nuova speranza.
CONVENTO FRANCESCANO
Il convento guarda il mare
co' suoi cento occhi d'asceta:
vien da 'l mare un palpitare
qual frusciar molle di seta.
Dorme l'orto ne la bruna
povertà del suo verdore
lusingato da 'l candore
palpitante de la luna.
Frate vento con un lene
sospirar di cella in cella
tenta l'anima e cancella
le misteriose pene.
Dolce pace di convento
dove l'anima traduce
ne l'angoscia di un accento
una speme che riluce!
Ecco l'anima risorta
da la collera de l'onda,
ha picchiato a la tua porta,
solitudine gioconda.
Ne la notte, mentre il mare
mugghia e il fremito del vento
con un sordo brontolare
scuote il tetto del convento,
grave spandesi da 'l coro
la preghiera francescana,
cui risponde la campana
co 'l suo fremito sonoro;
cui risponde questo cuore
che sa i fremiti del male,
sa le nenie del dolore,
il fragor del temporale.
Dolce pace di convento
dove l'anima traduce
ne l'angoscia d'un accento
una speme che riluce!
Ora picchio a la tua porta,
solitudine di pace:
cerca l'anima risorta
pace pace pace pace...
(da "Brume", Trinchera, Messina 1913, pp. 22-24)
Silvio Cucinotta |
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