domenica 8 ottobre 2023

"Ultima passeggiata"

 La poesia Ultima passeggiata di Alberto Sormani (Milano 1866 - ivi 1893) fu pubblicata per la prima volta sulla rivista Cronaca d'Arte del 24 aprile 1892; fu quindi opportunamente rispolverata e riproposta dal critico Glauco Viazzi (1920-1980), nelle pagine dell'antologia Dal simbolismo al déco (1981), da lui stesso curata. Sia l'autore che i 141 versi di Ultima passeggiata, ancora oggi sono praticamente sconosciuti ai più. Eppure Sormani, che non pubblicò mai neppure un volume poetico, e morì a soli ventisette anni, soltanto con questa poesia (ne scrisse poche altre uscite su varie riviste) si pone come uno dei più importanti rappresentanti della poesia italiana di fine Ottocento e d'inizio Novecento. Ultima passeggiata, tanto per cominciare, è scritta in versi liberi, il che, nell'anno in cui apparì, era qualcosa di rarissimo. L'argomento trattato in questi versi, che ha a che fare con la perdita di una persona amata, ma che, soprattutto è finalizzato a mettere in risalto determinati aspetti della natura: la stagione autunnale, le foglie cadute, il cielo grigio ecc., è anch'esso una novità nell'ambito della poesia italiana, che finalmente inaugura un fare poetico già presente da anni in Francia, e che corrisponde alla «variante (per lo più intimista ed elegiaca) del simbolismo» - parole di Viazzi -, poi diffusasi anche da noi grazie ad altri poeti come Cosimo Giorgieri Contri (1870-1943), Guelfo Civinini (1873-1954) ed i crepuscolari. A proposito di questi ultimi, Sormani potrebbe essere definito un precursore della scuola crepuscolare, se non fosse che, molto probabilmente, Sergio Corazzini (1886-1907) e sodali non conoscevano affatto i versi del poeta milanese. Certamente Sormani era conosciuto da molti intellettuali della sua generazione, lombardi e non, e uno di essi era Gian Pietro Lucini (1867-1914), che nel suo importantissimo saggio Il Verso Libero (1908), lo prende in considerazione, affermando:


[...] Il quale, prima di tutti, aveva saputo dispacciarsi dai viluppi consuetudinari di pensiero e d'espressione, novissimo filosofo d'integrazione moderna, in sui fogli eletti dell'Italia liberale, sciupata dopo con glabre pretese e con dittatoriali ambizioni forcajuole, da chi sopravvenne, e non seppe conservarle, né il programma, né la disputa garbata, né la dignità, caprioleggiando, ogni due giorni, a comizio per far rumore e per nulla concludere, come è uso dei policastri. Altro fu il costume del Sormani, premorto al suo completo sbocciare, di cui era ferma speranza e deciso rigoglio; se già, quindici anni or sono, aveva osato un verso libero di individual fattura [...]¹.


Da questo frammento si evince anche il carattere di Sormani: pacato, garbato e profondamente sensibile. Per questo - ma non solamente - vale la pena leggere e rileggere per intero la sua bellissima Ultima passeggiata.




ULTIMA PASSEGGIATA


Mi è dolce e triste, prima di partire,

prima di andare lontano,

in una giornata così desolatamente malinconica,

di ripassare a passo lento e pensieroso

i luoghi del dolore immenso, i luoghi dei ricordi

infinitamente angosciosi.

Piante dell'Orrido, come siete alte

e tristi!

Come slanciate in alto verso il cielo

la vostra noia mortale,

la vostra grave disperazione,

la vostra irreparabile sventura! -

Avete freddo già?

Sentite il freddo della morte?

Sentite già la neve

che vi grava e vi irrigidisce?

Perché perché tanto dolore,

perché una così triste desolazione?

Avete l'anima?

Avete un cuore

che sente e che patisce nel profondo?

L'autunno ch'ella cominciava a morire

io pensavo che il vostro dolore fosse per lei,

pensavo che fosse una disperazione in voi

a vedere la vostra povera regina

che si incamminava malinconica e pallida

verso la morte.

Ora lei non c'è più. Ella è nelle regioni oscure

e non può più venire insieme a me. Io vengo solo,

io sono solo, io sono forte, io sono anche

malinconicamente felice, -

e voi piangete ancora,

voi vi addolorate e vi disperate sempre egualmente...

Oh, natura, così grande come sei,

forse tu non ti curi di nulla che ci tocchi, noi.

Eppure io, eppure lei

abbiamo ben lungamente sognato

di vivere con te, di palpitare

con l'anima tua divina ed immortale,

di confonderci alle tue gioie ed ai tuoi dolori,

agli odii, agli amori, ai furori tuoi. -

Non avevi l'anima forse?

Non ci ascoltavi tu?

Non ci seguivi tu col tuo pensiero profondo e sterminato,

come un Dio, come una madre,

come una sorella onnipotente

dell'anima nostra?

Fu quella l'ultima passeggiata

prima di morire.

Io l'accompagnavo. Ella si sentiva stanca,

si appoggiava soavemente al mio braccio,

e mi guardava negli occhi profondamente, angosciosamente,

come ferita a morte.

Che cosa potevo farle io? Quale conforto,

quale parola dolce le potevo dire?

Cercavo di mostrarmi sorridente,

e riuscivo almeno a non piangere.

Pensate, pensate, o povere piante,

i suoi occhi dicevano che non voleva morire,

ch'era così giovane ancora e così bella,

che voleva vivere ancora,

per me, per me,

per amare sempre me, -

che non voleva morire, -

che doveva morire, e non voleva!

Che cosa potevo farle io?

Tutta la povera natura desolata intorno

pronunciava la immensa sventura: -

Anche lei, anche lei

doveva morire!

Guardò senza parlare

il largo sedile formato dalla roccia

dove avevamo letto insieme

un tragico romanzo di Dostoevskij.

Rabbrividii pensando a quella lettura.

Mentre io leggevo, ella mi seguiva

cogli occhi cupi e fiammeggianti:

la lettura metteva terrore

fino in fondo all'anima.

Siamo passati insieme di qui. Ella sorrise

a vedere l'antico torniché di legno, disfatto dal tempo,

dove avevamo giuocato tante volte

da ragazzi.

Ella sorrise

perché la sua bontà e la sua soavità

erano infinite.

Io la feci passare per prima, e le feci un grande inchino

per farla sorridere ancora.

Ma ella non sorrise più.

Sembrava che entrasse nel regno della morte.

Il suo passo era più incerto ancora,

come esitante, in un mondo nuovo in cui il corpo contava poco.

Scendeva sempre tacendo

per le roccie tagliate a gradini:

guardava le acque piangenti, come sorelle,

le piante spogliate, come sorelle,

le foglie morte in terra, come sorelle morte.

Non pianse, come inaridita.

Appoggiò la sua guancia così dolcemente scarna e patita

sulla mia spalla,

e mi disse, guardando il dolore e la morte che la circondavano: - Alberto, io vado.

Alberto! ho pochi giorni da vivere ancora. -

Diceva questo, e non trovava neppure lagrime da piangere.

Non avendo altro, mi dava dei baci,

molti baci silenziosi sulla mia spalla

e giù, vicino al cuore, -

cosa tremenda - baci invece di lagrime. -

La sua miseria era infinita; -

ma era eguale quella della natura:

sembrava una sola anima di morte e di dolore, -

sembrava che finissero insieme

i giorni ultimi.

Era come una musica fatale.

Mi sembrava ch'ella cantasse cantasse

d'un canto straziato senza voce e senza moto,

ed ogni cosa la seguisse

nel canto, nel pianto mesto e soffocato,

il cielo torbido, le piante spogliate,

le acque, le foglie morte.

Ora, vedendovi ancora,

o cose tristi, come quel giorno,

cerco ancora di lei,

e vorrei ancora sentire il suo viso dolente

ad appoggiarsi sulla mia spalla.

Perché non la trovo? Perché sono solo? E perché voi,

o piante, siete sempre eguali?

Perché piangete ancora e vi disperate

ora che la regina della morte e del dolore

non viene più a piangere tra voi?

E voi acque, perché vi lamentate ancora

come quando vi ascoltava lei?

E voi, o foglie, perché vi distendete in terra

così dolorosamente,

perché vi posate morte sui bacini di acqua morta,

se lei non vi deve vedere e compatire mai più?

Ah dunque tutto è una commedia eterna,

una illusione amara,

un vano simulacro di un'anima che non c'è?

Autunno santo, o mio amore triste,

sei una chimera anche tu?


(da Dal simbolismo al déco, Einaudi, Torino 1981, tomo secondo, pp. 323-326)





NOTE

¹) Da: Gian Pietro Lucini, Il Verso Libero, ristampa anastatica, Interlinea, Novara 2008, pp. 605-606. 

   

Antologie: "Cenacolo"

 Cenacolo. Antologia di poeti - d’oggi - è il titolo di un’antologia poetica realizzata e curata da Francesco Addonizio e Francesco Giovinazzo, pubblicata nel 1931 presso le Edizioni di “Luce Intellettual” in Palermo. Gli stessi curatori fanno parte dei 74 poeti antologizzati. Trattasi di un’opera settoriale, visto che, sia i testi selezionati, sia gli autori di questi ultimi, sono in gran parte “religiosi”, intendendo più specificatamente con questo termine associare una serie di poeti e poesie che hanno, come comun denominatore, la religione cristiano-cattolica. Tra i nomi qui presenti, si nota una differenza netta di generazioni, che partono da chi aveva – all’uscita del libro – già superato la settantina, a chi aveva da poco compiuto vent’anni. Totalmente assenti i nomi dei poeti italiani più illustri del Novecento italiano, figurano però altri lirici, che in quel periodo si erano conquistati un buon favore di critica e di pubblico. Chiudo riportando l’elenco dei nomi di tutti i poeti presenti in Cenacolo.

 

 


 

CENACOLO  ANTOLOGIA DI POETI – D’OGGI –

 

Angelo Acocella, Francesco Addonizio, Maria Pia Albert, Garibaldo Alessandrini, Antonino Anile, Filippo Balistreri, Clemente Barbieri, Carolina Bertini, Maddalena Bolla Caruso, Arturo Bonardi, Enrico Braccesi, Teodoro Briccos, Gustavo Brigante Colonna, Aniello Calcàra, Giovanni Cantatore, Giovanni Casati, Raffaello Cioni, Pio Ciuti, Carmelo Cordaro, Filippo Crispolti, Pinuzzo da Bonea, Salvatore d’Abruzzo, Tullio da Colsalvatico, Mario Davini, Gabriele Del Fiore, Gino Del Guasta, Idilio Dell’Era, Giovanni De Natale, Giovanni Descalzo, Antonino De Stefani, Paolo Di Franco, Rosa di San Marco, Ignazio Drago, Bernardo Elena, Agostino Fattori, Giulio Foddài, Giuliana Folena, Letterio Fucile, Umberto Galeota, Diego Garoglio, Vittor Giuseppe Gerini, Francesco Giovinazzo, Gina Grimaldi, Fabio Gualdo, Esther Guglielmi, Giovanni Guizzardi, Elpidio Jenco, Giuseppe Jurilli, Pasquale Leone, Silvio Lesna, Vittorio Longo, Marino Marin, Salvatore Merche, Agostino Mersi, Angiolo Silvio Novaro, Giorgio Occhipinti, Luigi Orsini, Bruno Palaja, Ferdinando Passarello, Tommaso Mario Pavese, Giuseppe Perrotta, Pietro Rigosa, Fortunato Rizzi, Pietro Romanelli, Costantino Savonarola, Lydia Scapinelli, Maria Signorile, Gino Striuli, Rosa Vagnozzi, Nicola Valenza, Nicola Vernieri, Luigi Zambarelli, Armando Zamboni, Stelio M. Zappone.     

venerdì 6 ottobre 2023

"Scapitozzano gelsi..."

 La bellezza della stagione autunnale ha diverse sfaccettature: la si può ammirare in molti paesaggi ricchi di vegetazione, in cui saltano agli occhi alberi le cui foglie spesso hanno i caratteristici colori rosso e giallo; oppure nei viali un po' fuori i centri abitati, circondati dagli immancabili alberi, i cui rami hanno già perso molte foglie che, ora, abbondano sul terreno, rendendo la visuale del percorso che dobbiamo o vogliamo attraversare più attraente. Ma le attrattive dell'autunno risiedono anche nei prodotti alimentari tipici di questa stagione, come le castagne, i frutti (uva soprattutto) e i cibi cotti a base di legumi, che già si consumano ben caldi. È soprattutto su queste peculiarità stagionali, che si concentrano i versi di Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure, 12 gennaio 1888 – Savona, 31 ottobre 1967), da me trascritti consultando un libro in cui è presente l'intera opera poetica e prosastica dello scrittore ligure. Volendo chiarire il significato di alcuni vocaboli usati dal poeta, aggiungo che il verbo "scapitozzare" ha la valenza di "potare; "sfrombolare" sta per "cadere con violenza"; "stambugio" equivale a "stamberga"; la "pignatta" è una pentola in terracotta e il "gotto" è un recipiente in vetro, in genere fornito di manico, per lo più utilizzato per bere della birra. A proposito del primo verso, ricordo che la potatura dei gelsi va effettuata prima che giunga la primavera; ma poiché non va fatta nei mesi più freddi, in genere il lavoro viene portato a termine tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre.





SCAPITOZZANO GELSI...


Scapitozzano gelsi; batton cerchi

a botti. Si rovescia sui selciati

la legna per l'inverno e suona d'ascia

ogni corte.


La castagna che sfrombola nei boschi

liberala dal riccio, castagnaio!

insaccala; ché già in città fan ressa

alla padella delle caldarroste,

con le mani intascate e i nasi rossi,

i ragazzi all'uscita della scuola.

E pure noi la sera, chiacchierando

tra il vino con gli amici, sgusceremo

bruciate; ché non è più saggia cosa.


Guarda la terra la sua genitura,

affaticata madre che, tra il pianto

tremolandole un riso, il nato guarda

che la fece gridare...


L'anima fascia una raccolta pace;

e la tiene a spiar, di là dai vetri,

lo stambugio, le nere

mani del ciabattino, come fosse

in quel cerchio di luce la pensata

felicità.


Che il borbottar della pignatta esali

un odor di legumi, altro non chiede,

e al suo deschetto lo ritrovi l'alba.

E la sera nel gotto denso vede

avverate le povere speranze

che pure a lui fanciullo

avranno fatto palpitare il cuore.


Autunno, primavera della terra:

serba l'albero il fuoco dei passati

soli,

come l'anima il caldo dei ricordi.

Autunno, tarda nostra primavera:

tempo che sull'amara

bocca dell'uomo

spunta il fiore tremante del sorriso.


1922


(da: Camillo Sbarbaro, "L'opera in versi e in prosa", Garzanti, Milano 1995, pp. 100-101)

giovedì 5 ottobre 2023

"Un mite ottobre"

 Un mite ottobre è il titolo di una breve poesia di Gian Carlo Conti (Piacenza 1928 - Parma 1983); si tratta di soli 5 versi che descrivono un periodo temporale molto simile a quello che stiamo vivendo oggi. Quelle che a Roma vengono definite "ottobrate", quando il poeta emiliano scrisse questa poesia, si stavano verificando anche nella sua terra natale. Conti, in un momento di pausa o di ozio durante la giornata, guarda in cielo le rondini che stanno per partire; quindi fa una riflessione e si chiede: «In quale stagione mi trovo? Siamo in ottobre ma non sembra: è possibile rimanere con gli abiti estivi senza provare freddo malgrado l'autunno sia iniziato già da diversi giorni». Gian Carlo Conti si può definire, oggi, un poeta dimenticato; Un mite ottobre e altre poesie («Il Raccoglitore», Parma 1952) è il titolo della sua prima raccolta di versi. Io ho trascritto la poesia che segue dal volume Non si ricordano più. Le poesie, Guanda, Parma 1991, dove è possibile leggere quasi tutta l'opera poetica di Conti.





UN MITE OTTOBRE


Pigri voli d'addio

sulla casa fanno

le ultime ali dell'anno.

Quale dolce stagione è mai la nostra:

stare con le braccia nude senza tremare.

"Mamma, questa d’ottobre..."

 Esistono dei poeti che vengono citati o ricordati soltanto per una poesia. In questa categoria credo si possa far rientrare anche Giovanni Cena (Montanaro 1870 - Roma 1917). Lo scrittore piemontese, autore di romanzi, saggi critici e volumi poetici, scrisse un sonetto incluso nel poemetto Madre (uscito per la prima volta nel 1897) in cui si parla di una giornata ottobrina molto simile a quelle che si stanno susseguendo in questo periodo: tiepida, serena e, come la definisce il poeta stesso, primaverile; tale sonetto, che fa parte di una vicenda molto drammatica (Madre parla della malattia e infine della morte della mamma di Cena) subito dopo la pubblicazione del poemetto e nei decenni successivi, fu staccato dal contesto al quale apparteneva, divenendo una poesia a sé stante, e fu inserito in molte antologie scolastiche e non; col tempo diventò l'unica poesia di Giovanni Cena conosciuta dal grande pubblico. Nei versi del sonetto si descrive un momento di calma apparente, in cui coincidono due realtà positive ma temporanee: le belle condizioni del tempo e una tregua della malattia di cui soffriva la madre del poeta. Ma entrambe le situazioni favorevoli, come detto, sono destinate a terminare in breve tempo: non poteva durare la "primavera ultima", poiché ormai l'autunno era già cominciato da alcune settimane, e neppure poteva protrarsi a lungo la momentanea buona salute della mamma di Cena, che era molto malata e perì poco tempo dopo. Ciò che piacque, in questi versi di Cena, è la descrizione di un momento felice vissuto da una famiglia unita; il bel tempo, i lieti rumori intorno, i figli che s'incoraggiano a vicenda vedendo la mamma in buone condizioni di salute, pur nelle privazioni dovute all'estrema povertà di tutti i componenti della famiglia, fanno sì che la speranza per un futuro migliore prevalga su tutto il resto. Il sorriso della mamma basta agli occhi dei suoi cari per essere felici, magari soltanto in quel giorno. Il sonetto che ho trascritto di seguito, è il capitolo X del poemetto Madre, e si trova nel volume Poesie, Bemporad & Figlio, Firenze 1922, (p. 21). 





MAMMA, QUESTA D'OTTOBRE...


Mamma, questa d’ottobre così gaia

giornata, sembra d’una primavera

ultima. Senti? rondinelle a schiera

empiono di bisbigli la grondaia.


Senti? tutto è brusio. Biondo nell’aia

il sol, tiepido ancora. Ma l’intera

famiglia è qui d’intorno, e prega e spera

che dalla casa il reo morbo scompaia.


Oggi si spilla il vino e si ripone

il grano turco: a noi il buon Signore

nulla di queste cose diede, mamma.


Pur siamo lieti: poi che 'l buon Signore

ancor ci appresta molte cose buone,

la tua salute, il tuo sorriso, mamma.


mercoledì 4 ottobre 2023

"Addio!"

 Molto probabilmente le rondini, anche quest'anno, hanno già lasciato il luogo dove vivo e dove erano giunte - se non sbaglio - un po' in ritardo rispetto a quelli che erano considerati, una volta, i tempi tradizionali, ovvero tra la fine di marzo e l'inizio di aprile. Io sinceramente non me ne sono accorto, ma se guardo il cielo in queste prime giornate d'ottobre, mi sembra di non vederne alcuna. Ma oggi chi fa più caso all'arrivo o alla partenza delle rondini? Credo ben pochi. Una volta non era così: le numerose poesie dedicate alle rondini (e non soltanto ad esse), stava a significare che c'era un'attenzione maggiore nei confronti di eventi stagionali ritenuti importanti. Più di cento anni fa, gli occhi degli esseri umani non erano concentrati sul piccolo schermo facente parte dello smartphone: l'oggetto più usato da tutte le generazioni, che ai tempi nostri rappresenta qualcosa d'imprescindibile, in assenza del quale la vita non è vita. Allora, gli occhi degli uomini, delle donne e dei bambini guardavano altrove e, spesso, succedeva che notassero la presenza delle rondini nel cielo primaverile o estivo. Il poeta Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna, 31 dicembre 1855 – Bologna, 6 aprile 1912) , nella poesia intitolata Addio!, dedica dei versi a questi uccelli che ci fanno visita dai tempi dei tempi a primavera, e che ci lasciano nel periodo autunnale, poiché vanno sempre alla ricerca di luoghi caldi, dove poter vivere in condizioni accettabili. Pascoli, in questi versi, è come se volesse parlare alle rondini, per salutarle. Forse perché aveva studiato da anni e anni il loro comportamento, fatto sta che il poeta romagnolo riusciva a capire il loro linguaggio, intuiva, dai loro movimenti, la loro imminente partenza verso le isole della Grecia e le regioni del Nordafrica. Ma dal verso 37 alla fine del componimento, Pascoli confessa la sua intima sofferenza per una mancata paternità che gl'impedisce - come fanno le rondini - di protrarre la sua esistenza attraverso quella dei figli. È come se, i cosiddetti "quattro rondinotti" desiderati dal poeta, gli permettessero di non morire; essi, secondo il suo pensiero, avrebbero rappresentato una virtuale prosecuzione della vita dei genitori, così come avviene per le rondini, che nascono, vivono e muoiono, ma generazione dopo generazione non mutano le loro abitudini. Addio! fu pubblicata per la prima volta nel volume "Canti di Castelvecchio", Zanichelli, Bologna 1903. Io l'ho trascritta da una riedizione della raccolta citata, curata Giuseppe Nava e pubblicata dalla Rizzoli di Milano nel 1993 (4° edizione).



ADDIO!


Dunque, rondini rondini, addio! 


Dunque andate, dunque ci lasciate 

per paesi tanto a noi lontani. 

È finita qui la rossa estate. 

Appassisce l'orto: i miei gerani 

  più non hanno che i becchi di gru. 


Dunque, rondini rondini, addio! 


Il rosaio qui non fa più rose. 

Lungo il Nilo voi le rivedrete. 

Volerete sopra le mimose 

della Khala, dentro le ulivete 

  del solingo Achilleo di Corfù. 


Oh! se, rondini rondini, anch'io... 


Voi cantate forse morti eroi, 

su quest'albe, dalle vostre altane, 

quando ascolto voi parlar tra voi 

nella vostra lingua di gitane, 

  una lingua che più non si sa. 


Oh! se, rondini rondini, anch'io... 


O son forse gli ultimi consigli 

ai piccini per il lungo volo. 

Rampicati stanno al muro i figli 

che al lor nido con un grido solo 

  si rivolgono a dire: Si va? 


Dunque, rondini rondini, addio! 


Non saranno quelle che le case 

han murato questo marzo scorso, 

che a rifarne forse le cimase 

strisceranno sopra il Rio dell'Orso, 

  che rugliava, e non mormora più. 


Dunque, rondini rondini, addio! 


Ma saranno pur gli stessi voli; 

ma saranno pur gli stessi gridi; 

quella gioia, per gli stessi soli; 

quell'amore, negli stessi nidi; 

  risarà tutto quello che fu. 


Oh! se, rondini rondini, anch'io... 


io li avessi quattro rondinotti 

dentro questo nido mio di sassi! 

ch'io vegliassi nelle dolci notti, 

che in un mesto giorno abbandonassi 

  alla libera serenità! 


Oh! se, rondini rondini, anch'io... 


rivolando su le vite loro, 

ritrovando l'alba del mio giorno, 

rimurassi sempre il mio lavoro, 

ricantassi sempre il mio ritorno, 

  mio ritorno dal mondo di là! 


(da: Giovanni Pascoli, "Canti di Castelvecchio", Rizzoli, Milano 1993, pp. 341-342)

Due conventi francescani in due poesie

 Nella ricorrenza annuale che festeggia San Francesco d'Assisi, ho voluto rispolverare due vecchie poesie dove protagonista non è il santo patrono d'Italia, bensì alcuni dei tantissimi luoghi che il poverello d'Assisi ci ha lasciato in eredità: i conventi dei frati francescani. Nella prima poesia: San Francesco del Deserto di Angiolo Orvieto (Firenze 1869. ivi 1967), si parla, per l'appunto, di un convento francescano situato in un luogo bellissimo: una piccola isola della laguna veneziana che ha il nome equivalente al titolo della lirica; San Francesco del Deserto si trova tra altre due isole: Burano e Sant'Erasmo; come ben spiegano i versi del poeta, in quel luogo così isolato si respira un'atmosfera di profonda pace, accentuata dal silenzio (si odono, a volte, soltanto i leggeri rumori provenienti dall'isola di Burano); questa quiete unita alla bellezza del posto, fanno sì che la solitudine, aggettivata dal poeta, diviene "beata", poiché chi rimane da solo non soffre, anzi si gode quelle sensazioni uniche, mistiche e rasserenanti, in grado d'isolarlo da tutto il resto del mondo, e di dargli la netta sensazione di essere in un paradiso terrestre. San Francesco del Deserto fu pubblicata per la prima volta nella raccolta poetica di Angiolo Orvieto intitolata La sposa mistica. Il velo di Maya (Treves, Milano 1898). Io l'ho trascritta da un altro volume, pubblicato dopo dodici anni dalla morte dello scrittore toscano: Poesie scelte, Olschki, Firenze 1979. 


SAN FRANCESCO DEL DESERTO


San Francesco del deserto,

romitaggio lagunare,

d’un settemplice filare

di cipressi ricoperto;


questo vento vien dal mare

e disfiora il tuo convento,

e d’un lieve movimento

ti fa l’acqua scintillare.


S’ode un vivo cinguettare

per le tue paludi intorno,

e nel pieno mezzogiorno

una navicella appare.


Essa muove piano piano 

sovra l’alighe palustri;

fra quei tremuli ligustri

lenta va verso Burano.


Da Burano non lontano

giunge suono di campane,

che le belle popolane

chiama al desco rusticano.


Sosta l’opra della mano

che tessea merletti vaghi;

hanno tregua fili ed aghi

nel tepore meridiano.


Sulla lastre, che fragore

di sonanti zoccoletti,

o Burano dei merletti,

o Burano dell’amore!


Ma non giunge quel rumore

qui, nell’ombra claustrale,

nel silenzio sempre uguale,

sempre uguale a tutte l’ore.


Qui la pace delle aurore

dura tutta la giornata:

solitudine beata

per chi vive e per chi muore.


«O beatitudo sola,

o beata solitudo!»

Sull’antico muro ignudo

sta la mistica parola.


La parola che consola

il mio spirito dolente,

e lo culla dolcemente

come suono di viola.


Siimi tu lucente scudo,

siimi tu divina scuola,

«O beatitudo sola,

o beata solitudo!»


(da "Poesie scelte", Olschki, Firenze 1979, pp. 78-79)





Anche la seconda poesia: Convento francescano di Silvio Cucinotta (Pace del Mela 1873 - Santa Lucia del Mela 1928), parla di un luogo appartato, in cui risulta facile farsi attrarre dalle atmosfere mitiche e, nello stesso tempo, da un senso di pace non riscontrabile altrove. Questo convento di cui parla il poeta siciliano, si trova a pochi passi dal mare, ed è circondato da un panorama bellissimo. Qui, come nell'isoletta descritta dalla poesia di Orvieto, sembra di vivere fuori dal mondo; si è soli, è vero, ma ciò non comporta affatto sofferenza; la solitudine diviene "gioconda", e i rumori piacevoli che si ascoltano, come le voci dei frati in preghiera, o il "din don" delle campane del convento, fanno sì che l'anima risorga da uno stato di angoscia, che si riappacifichi col mondo intero, proiettandosi verso il futuro con nuova speranza.  



CONVENTO FRANCESCANO


Il convento guarda il mare

co' suoi cento occhi d'asceta:

vien da 'l mare un palpitare

qual frusciar molle di seta.


Dorme l'orto ne la bruna

povertà del suo verdore

lusingato da 'l candore

palpitante de la luna.


Frate vento con un lene

sospirar di cella in cella

tenta l'anima e cancella

le misteriose pene.


Dolce pace di convento

dove l'anima traduce

ne l'angoscia di un accento

una speme che riluce!


Ecco l'anima risorta

da la collera de l'onda,

ha picchiato a la tua porta,

solitudine gioconda.


Ne la notte, mentre il mare

mugghia e il fremito del vento

con un sordo brontolare

scuote il tetto del convento,


grave spandesi da 'l coro

la preghiera francescana,

cui risponde la campana

co 'l suo fremito sonoro;


cui risponde questo cuore

che sa i fremiti del male,

sa le nenie del dolore,

il fragor del temporale.


Dolce pace di convento

dove l'anima traduce

ne l'angoscia d'un accento

una speme che riluce!


Ora picchio a la tua porta,

solitudine di pace:

cerca l'anima risorta

pace pace pace pace...


(da "Brume", Trinchera, Messina 1913, pp. 22-24)


Silvio Cucinotta