sabato 20 luglio 2019

La luna in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo


E nel giorno in cui si festeggiano i primi cinquant'anni dallo sbarco dell'uomo sul suolo lunare, mi sembra cosa opportuna pubblicare una serie di poesie dedicate al satellite più importante per tutti noi, esseri umani che abitiamo il pianeta Terra. Comincio dai poeti italiani del secolo XIX, che certamente non s'immaginavano minimamente un futuro allunaggio, e guardando la luna avevano nella mente tutt'altri pensieri rispetto a quelli dei poeti del XX e del XXI secolo. Tra le dieci poesie che propongo, spicca Alla luna di Giacomo Leopardi, per bellezza, intensità e disperazione; il poeta marchigiano dedicò al satellite terrestre altri versi indimenticabili, che è inutile io ricordi e che rimangono tra le pagine più grandiose della poesia mondiale di tutti i tempi. Famose anche le tre quartine di Gabriele D'Annunzio, che spesso sono state inserite nelle antologie scolastiche vecchie e nuove. Forse più di qualcuno si rammenta anche della Ballata alla luna scritta dallo scapigliato Emilio Praga, che evidenzia alcune caratteristiche tipiche di uno dei movimenti letterari più importanti e più rivoluzionari dell'Ottocento. Stupenda è Quiete lunare, di Arturo Graf, che parla di luoghi enigmatici e atmosfere insolite, ovvero di un mondo suggestivo e fantastico che si può osservare soltanto in una notte di plenilunio. Ci sono poi altre poesie che non hanno avuto grande risalto, pur possedendo delle qualità notevoli; per confermare questa mia opinione si possono leggere i versi qui presenti di Alfio Belluso, Maria Alinda Bonacci Brunamonti, Agostino Cagnoli, Augusto Caroselli, Luigi Carrer e Giacinto Ricci Signorini; mi pare anche questo un modo per ricordare e magari rivalutare dei poeti troppo presto dimenticati.




LUNA INVERNALE
di Alfio Belluso (1855-1904)

Fra gli alberi nudi e silenti
Che sporgon su' muri dell'orto,
Sospirano gelidi i venti.
Il disco manchevole e smorto
La luna fra nuvole e veli
Nasconde nell'alto de' cieli.

Trascorre la notte invernale
Fra sibili arcani e singulti...
Nell'umide tenebre, quale
Mistero di spasimi occulti
E inganno di sogni dubbiosi
Affanna e lusinga i riposi?

S'addensan, si squarcian nel cielo
Le nubi cacciate dal vento,
E passa tra 'l pallido velo
La luna: un immane lamento
Par s'oda da lungi venire...
Lamento d'un grande martìre.

(da "Cerere", Giannotta, Catania 1899)




ALLA LUNA
di Maria Alinda Bonacci Brunamonti (1841-1903)

Di te nel verso mio cantar m'è grato,
Alma Selene, che d'argenteo lume
Il viso infiori, e dall'Olimpo reggi
La notturna quiete e le parvenze
De'bruni sogni. A te, che il firmamento
Col vigile e lucente occhio rischiari,
S'inchinano le stelle, allor che il bianco
Carro conduci ed i nivei cavalli
Elevantisi su dalla marina.

Quando ai stanchi mortali in ogni parte
Sonno e pace la tarda ora concede,
Solinga peregrina, il tuo viaggio
Compi silenziosa e sulle cime
Delle selve, dei colli e pei sentieri,
Delle case sui tetti e sovra l'acque
De laghi posi il tuo candido raggio.

Trema il cauto ladron della tua vista,
Cui tutto l'universo si rivela:
Ma con lene armonia canterellando
Per tutto il corso delle notti estive
Sul ramoso arboscel, di te si loda
L'usignoletto. Disiata sempre
Al viator sei tu, quando t'innalzi
Dall'onde cristalline: ai Numi cara
Non men che alla infelice umana prole,
Alma Selene dall'argenteo riso,
Veneranda, bellissima, lucente.

(da "Versi", Le Monnier, Firenze 1875)




ALLA LUNA
di Agostino Cagnoli (1810-1846)

Tarda è la notte; alcuna
 Voce non odo; il vento
 Tace, e tu, stanca Luna,
 Tieni il confn del ciel.
  Onde partirsi, e teco
    Volgere ad altro lito,
    Ogni astro impallidito
    Par che si metta un vel.
Ferma un istante; questa
 Ultima luce oh quanto
 Torna soave e mesta
 A sventurato amor!
  Mestizia alla sventura
   Sai che si fa dolcezza:
   Ferma, e la tua tristezza
   Tutta mi versa in cor.
Tu non m’ascolti: omai
 Tramonti, e dir mi sembri
 Co’ moribondi rai
 Ch’io pur tramonterò.
  Ah! qual tu adesso, in breve
   Tramonterà mia stella:
   Tu sorgerai più bella,
   Io più non sorgerò.

(da "Poesie", Calderini, Reggio 1844)




ALLA LUNA
di Augusto Caroselli (Roma 1853 - ivi 1899)

Io vo' lodarti, o Luna
Però che lingua alcuna
Di poeta non tace
I pregi tuoi. Mi piace
Lo spuntar che tu fai
D'oltre i colli; né mai
La sera ne radduce
Questa candida luce,
Ch'io non prenda diletto
Nel cangiarsi d'aspetto
I boschi e l'ampie valli:
Pe' rischiarati calli
La gente s'accompagna,
E la bella campagna
Suona di risa e canti;
Trionfano gli amanti,
Ché il tuo raggio discreto
Non tradisce il segreto,
Ma d'un vago languore
Pinge ogni atto d'amore.
Poca, breve è la gioia;
Il dolore e la noia
Signoreggiano intera
La vita, e sola vera
Dolcezza è nell'oblio:
Luna pietosa, il mio
Letto ne spargi e schiara
Placidi sogni; cara
T'avrò; né lode alcuna
Fia che ti mandi, o Luna.

(da "I poeti della Scuola romana dell'Ottocento", Cappelli, Bologna 1962)




A CHE RISPLENDI, O LUNA?
di Luigi Carrer (1801-1850)

A chi risplendi, o luna? In chiuse stanze,
Cui lungo di doppieri ordin rischiara,
D'allegra gioventù fervon le danze
E più d'un alma a delirar impara.

Ma donna di pudiche alme sembianze,
Mentre passa le notti in veglia amara,
Rianda i corsi tempi e le speranze,
Quando la vita a lei parve sì cara.

Vanne di quell'afflitta alla dimora,
O luna, e d'un gentil raggio ricrea
La cameretta ov'ella siede e plora.

Sovvienti quando meco ella movea
Per ermi calli? Oh come dolce allora
Su quella fronte il tuo raggio battea!

(da "Poesie edite ed inedite", Tasso, Venezia 1845)




O FALCE DI LUNA CALANTE
di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)

O falce di luna calante
che brilli su l'acque deserte,
o falce d'argento, qual messe di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!

Aneliti brevi di foglie,
sospiri di fiori dal bosco
esalano al mare: non canto non grido
non suono pe 'l vasto silenzio va.

Oppresso d'amor, di piacere,
il popol de' vivi s'addorme...
O falce calante, qual messe di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!

(da "Canto novo. Intermezzo", Treves, Milano 1896)




QUIETE LUNARE
di Arturo Graf (1848-1913)

Nel gemmeo seren del firmamento
La luna tersa, radïosa, brilla,
E gli ermi campi innonda e la tranquilla
Immensità del suo lume d’argento.

Fronda non trema, e non trafiata il vento,
Muto fra l’erbe il picciol rio sfavilla;
Un usignuolo innamorato trilla
Sopra una rama il suo dolce lamento.

In fondo al ciel due nuvolette stanche
Vanno insieme alïando, e d’un leggero
Sogno in balia mutan l’aeree forme.

Laggiù laggiù, con le sue croci bianche,
Co’ suoi negri cipressi il cimitero
Nella quiete luminosa dorme.

(da "Medusa", Loescher, Torino 1890)




ALLA LUNA
di Giacomo Leopardi (1798-1837)

O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l'anno, sovra questo colle
Io venia pien d'angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, né cangia stile,
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l'etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l'affanno duri!

(da "Canti", Hoepli, Milano 1900)




BALLATA ALLA LUNA
di Emilio Praga (1839-1875)

O notturno splendore,
o vergine divina!
Tu che commuovi, sorridendo, il core
dell'uomo e dell'oceano,
solitaria dei cieli,
adoro la tua luce, amo i tuoi veli!

Te fra le viti e i gelsi
del mio suolo natio,
fanciullo io vidi e ad astro mio ti scelsi;
fosse felice o in lagrime,
da quel giorno, o mia Dea,
quest'anima sperando, a te volgea!

Come sei bella, o luna,
quando il viso ti specchi
nel mite tremolio della laguna;
come bella, fra i pallidi
scogli della montagna,
quando sul ghiaccio il tuo raggio si bagna!

Ma chi dirà, divina,
di che fulgor ti vesti,
se tu sorgi infocata alla marina?
Il pelago scatenasi,
e placido e giocondo
il tuo disco s'innalza e irradia il mondo!

Ed io ti amai sul piano,
ti amai, luna, sui monti,
e nel cupo fragor dell'oceàno...
ma non mi tocchi l'anima
quando, dimessa e stanca,
seguiti il sole in camiciuola bianca!

O vergine d'amore,
se tua beltà lo vince,
non indugia a pregar nostro Signore,
che, quando il sol ci illumina,
ti tenga in paradiso,
perch'io solo di notte amo il tuo viso!

(da "Poesie", Treves, Milano 1922)




O LUNA, CHE CON FALCE...
di Giacinto Ricci Signorini (1861-1893)

O luna, che con falce ampia d'argento
I dolci sogni mieti,
E li mandi col vento
Nell'isola incantata a' tuoi poeti:

Tu che, benigna, nella tua contrada
Spiri i lenti sussurri,
E stilli la rugiada
Che si versa sui gran calici azzurri;

O tu, potente, che coi maliardi
Occhi, per ogni via,
La nostra terra guardi,
Sai dove dorme la fanciulla mia?

Ella dorme laggiù: in quella stanza
Lascia cadere, o luna,
Un sogno di speranza
Che le inghirlandi la sua testa bruna.

(da "Rime", Vignuzzi, Cesena 1888)




John Atkinson Grimshaw, "A Moonlit Evening"
(da questa pagina web)

domenica 14 luglio 2019

Il mistero nella poesia italiana decadente e simbolista


Si fa riferimento, qui, al mistero, parlando di versi che pongono in primo piano tutta una serie di personaggi, situazioni, musiche, opere artistiche, cose più o meno concrete e perfino ideali, che hanno caratteristiche decisamente enigmatiche, e che quindi trovano spazio e interesse proprio grazie al mistero contenuto in essi. Passando alla descrizione di alcune singole poesie, si possono certamente definire inquietanti e impenetrabili i versi di Giovanni Camerana in cui fanno la loro comparsa Tre Madri (e il numero ha un preciso significato) senza forma e senza peso; sedute su un terribil trono, appaiono come dee o come demoni: eterne, enormi, spaventose. Immobile è anche l'immagine fin troppo sfruttata poeticamente parlando, della "Sfinge"; ottima comunque la poesia di Arturo Graf, che la descrive da par suo, riuscendo a trasmettere al lettore tutto l'arcano fascino che contraddistingue questa figura mitologica. Un riferimento finale alla sfinge è presente anche in Paese notturno di Giovanni Pascoli, quando il poeta cerca di trovare un significato ultraterreno nella visione notturna che ha di un luogo una volta abitato, ma ormai in totale stato di abbandono. In un contesto notturno è ambientata anche la lirica di Enrico Annibale Butti, il quale, forse mentre tentava di addormentarsi, viene scosso da un sibilo lontano, non ben definito, che fa nascere in lui delle ipotesi allarmanti sull'origine di tale rumore, e nello stesso tempo lo induce a pensare cose molto tristi. Ancora una volta la notte è protagonista nel sonetto di Tito Marrone intitolato Le Argire: qui, in una notte autunnale pregna di profumi e incanti, il sommo mistero è rappresentato da donne velate (probabilmente le Argire del titolo), che oltrepassano le dischiuse porte di non ben precisati palagi, per dirigersi verso i taciti giardini Una situazione totalmente diversa è presente nella poesia di Angiolo Orvieto, in cui un moribondo giovane biondo sale su un treno vuoto e scompare lentamente verso l'ignoto.



Poesie sull'argomento

Diego Angeli: "Il mistero degli occhi" in "L'Oratorio d'Amore" (1904).
Enrico Annibale Butti: "Sonno interrotto" in "Il Marzocco", novembre 1900.
Giovanni Camerana: "Le Madri" in "Poesie" (1968).
Dino Campana: "La Chimera" in "Canti Orfici" (1914).
Girolamo Comi: "Mistero" in "Lampadario" (1912).
Sergio Corazzini: "Dopo" in "Piccolo libro inutile" (1906).
Adolfo De Bosis: "Rare, nel bujo, lampade..." in "Amori ac silentio e Le rime sparse" (1914).
Cosimo Giorgieri Contri: "Immagine in una villa romana" in "La donna del velo" (1905).
Domenico Gnoli: "Il carro notturno" in "I canti del Palatino. Nuove solitudini" (1923).
Corrado Govoni: "Lapide anonima" in "Armonia in grigio et in silenzio" (1903).
Corrado Govoni: "Le stranezze" in "Gli aborti" (1907).
Guido Gozzano: "L'assenza" in "I colloqui" (1911).
Arturo Graf: "Sfinge" in "Medusa" (1990).
Arturo Graf: "La croce nel tronco" in "Le Rime della Selva" (1906).
Amalia Guglielminetti: "Seguace" in "Le Seduzioni" (1909).
Virgilio La Scola: "Refrigerio" in "La placida fonte" (1907).
Giuseppe Lipparini: "Il viandante" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Tito Marrone: "Sestina del mistero" in "Cesellature" (1899).
Tito Marrone: "Le Argire" in "Sonetti dell'estate e dell'autunno" (1900).
Angiolo Orvieto: "Verso l'ignoto" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).
Nino Oxilia: "Alta è la notte sull'urbe..." in "Canti brevi" (1909).
Aldo Palazzeschi: "La croce", "Ara, mara, amara" e "Oro, doro, odoro, dodoro" in "I cavalli bianchi" (1905).
Aldo Palazzeschi: "Lo sconosciuto" in "Poemi" (1909).
Giovanni Pascoli: "Paese notturno" in "Myricae" (1900).
Giovanni Pascoli: "La felicità" in "Primi poemetti" (1904).
Francesco Pastonchi: "Fossa dell'abate" in "Il pilota dorme" (1913).
Romolo Quaglino: "Simbolo" in "Fior' brumali" (1897).
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi:"Pensiero" in "Sillabe ed Ombre" (1925).
Ettore Romagnoli: "L'ora" in "Miti e fantasie" (1910).
Emanuele Sella: "Transitus vitae" in "L'Ospite della Sera" (1922).
Giovanni Tecchio: "Mistero" in "Canti" (1931).
Domenico Tumiati: "La verità" in "Liriche" (1937).
Diego Valeri: "Parole" e "Da Chopin - Preludio IV" in "Crisalide" (1919).
Alessandro Varaldo: "Sognando" in "Marine liguri" (1898).
Mario Venditti, "Cerimonia" in "Il cuore al trapezio" (1921).
Giuseppe Villaroel: "Sorpresa" in "La tavolozza e l'oboe" (1918).



Testi

TRANSITUS VITAE
di Emanuele Sella

O vecchio, hai tu inteso la voce?
qualcuno m'ascolta il pensiero.
- Deh smetti, o invisibile spettro, l'atroce
tuo scherno, s'è vero che esisti... - Chi sa? -

Io dico talora a me stesso:
la vita è un perenne sognare;
che cosa ci attende di sotto un cipresso?
varcato il sogliare dell'eternità?

La vita?... la vita?... Ma nulla
ci svela la stasi eternale
del Tempo che adombra la bara e la culla
e l'anima assale con l'immensità?

E vedo sui floridi clivi,
- che sono un delirio di gialle
farfalle - sbocciare, fra i cedri e gli ulivi
ignare le calle di quel che sarà.

Ippolita in alto m'appare
nel verde: è una gioia vederla!
la stringe uno scialle colore del mare,
d'un mare di perla e riflessi lillà.

E tutto tremante l'ascolto:
«Nascosta fra i pensili rami
d'un salice, vidi il tuo pallido volto:
mi chiesi se m'ami; risposi: chi sa?»

«Non dire!... Lo so che sovrasta
sull'uomo una tragica Sfinge.
La vita è un mistero; l'amore non basta;
al nulla ne spinge la morte...». Chi sa?




MISTERO
di Giovanni Tecchio

Che notte di luna! La strada
Sì bianca diritta infinita,
Di cupi cipressi fra nere
Due lugubri immobili schiere!
Se verso la morte o la vita,
Mistero! non so dove vada.

Ma c'è pure un non so che nero
Là, in fondo, che lento si muove:
Un nero convoglio, una bianca
Scheletrica rozza che arranca,
che incespica ansante. Ma dove,
Non so dove vada. Mistero!

Chi è mai chiuso là? Chi sarà
Che gode un viaggio sì strano?
Incanto di sogno, di pace:
È forse la gioia verace.
E forse quel nero lontano
Va verso la felicità!



Odilon Redon, "Mystery"
(da questa pagina web)


mercoledì 10 luglio 2019

Scuola di campagna

È fuori dal borgo due passi
di là dal più fresco ruscello
recinta di muro e cancello
la piccola scuola di sassi.

Agnella staccata dal branco
col suono che al collo le han messo
richiama ogni bimbo al suo banco
nell'aula che odora di gesso.

C'è ancora la vecchia lavagna
con su l'alfabeto mal fatto:
lo scrisse un bambino distratto
dal verde di quella campagna.

E lei che mi vide a sei anni
c'è ancora. La voce un po' fioca,
vestita d'identici panni,
la vecchia signora che gioca.

C'è ancora il vasetto d'argilla
che m'ebbe suo buon giardiniere:
è verde, fiorito di lilla,
e un bimbo gli porta da bere.

Il tempo passò senza lima,
su queste memorie. Ritorno
lo stesso bambino d'un giorno
sereno nell'aula di prima.

E in punta di piedi, discreto,
nell'ultimo banco mi metto
e canto, nel dolce coretto
dei bimbi, l'antico alfabeto.

Renzo Pezzani


Renzo Pezzani (Parma 1898 - Castiglione Torinese 1951) è stato uno dei poeti più presenti nelle antologie scolastiche di mezzo secolo fa. Io stesso, che conservo ancora i libri delle elementari, ritrovo spesso il suo nome e i suoi versi semplici. Lo scrittore parmense dedicò la maggior parte della sua opera letteraria al pubblico infantile; per quel che concerne la poesia, sono memorabili alcune sue raccolte come Sole solicello, Belverde, Innocenza, Odor di cose buone e Il fuoco dei poveri; in quest'ultima, è presente anche Scuola di campagna. Però i versi di questa poesia, particolarmente belli ed evocativi, non essendo riuscito a reperire l'opera originale, li ho trascritti dall'antologia Un secolo di poesia, a cura di Giovanni Alfonso Pellegrinetti, Petrini, Torino 1957. 
Si noterà la sensazione di rimpianto e, nello stesso tempo, di stupore, che prova il poeta nel ritornare sui banchi di scuola che frequentò da bambino; il suo visitare lo stesso edificio scolastico - situato in un luogo suggestivo e incantevole - che lo vide, bambino, assistere alle lezioni di una maestra che è ancora la stessa (ma decisamente invecchiata), fa nascere in lui una nostalgia indicibile di quel periodo felice e favoloso, e allora prova, quasi di nascosto, a fingere di essere tornato fanciullo, sedendosi all'ultimo banco dell'aula, per ascoltare di nuovo la voce dell'anziana maestra, mentre insegna ai suoi scolari l'alfabeto. A pensarci bene, quanti di noi hanno rimpianto e rimpiangono ancora quel magico tempo in cui si trascorrevano le mattine e i pomeriggi a scuola; eppure, proprio quando ciò accadeva, un po' tutti non vedevamo l'ora che suonasse la campanella dell'ultima ora di lezione, per poter uscire e tornare a casa o, magari, a giocare con gli amici. Soltanto dopo anni ed anni ci si rende conto che quelle ore trascorre all'interno di un'aula scolastica, apparentemente noiose ed inutili, erano così importanti per la nostra formazione educativa e culturale; e proprio in quei momenti cominciavamo ad apprendere quelle nozioni basilari, pertinenti a svariate materie, che ci sarebbero venute utilissime nel momento in cui avremmo deciso di migliorare e approfondire la nostra conoscenza. E ci rendiamo anche conto che rimembrare i pochi momenti rimasti ancora nella nostra memoria sempre più debole, relativi al tempo trascorso nelle aule scolastiche, ci trasmette un senso di nostalgia indescrivibile per intensità ed emozione.

domenica 7 luglio 2019

"Musica antica per chitarra" di Domenico Tumiati


Probabilmente il nome di Domenico Tumiati (Ferrara 1874 - Bordighera 1943) oggi è completamente ignorato. Pure, ebbe un periodo di fama, non tanto come poeta, quanto come drammaturgo: buon successo ebbero infatti i suoi drammi storici. Praticò la poesia soprattutto in gioventù; i suoi versi, oltre che in alcuni volumetti, appaiono anche in famose riviste letterarie di fine Ottocento e d'inizio Novecento. Musica antica per chitarra, che fu pubblicato dalla Tipografia Landi di Firenze nel 1897, è il suo secondo e, a mio avviso, migliore libro di versi. Può essere considerata un'opera poematica, dato che, dall'inizio alla fine, si racconta una storia per frammenti. L'atipicità del testo di Tumiati - anche se non fu il primo in Italia a tentare una cosa del genere - consiste nel creare, per ogni sezione del suo poema, un'atmosfera musicale corrispondente alle emozioni del protagonista, ovvero del Poeta; ciò risulta evidente, oltre che dal titolo del libro, dalle brevi prose che seguono i titoli delle sezioni: descriventi gli strumenti e il tipo di musica che, forse, nell'intenzione di Tumiati avrebbero dovuto fare da accompagnamento alla recitazione dei versi. Per spiegare meglio la struttura dell'opera poetica, riporto un frammento del critico Glauco Viazzi, estratto dall'antologia Dal simbolismo ad déco (si trova a pagina 81 del primo tomo):

In Musica antica per chitarra il Tumiati costruisce, secondo un prototipo isotteo, un Antico Palagio come luogo di una vicenda mentale ed emozionale, nel quale inscrivere figurazioni che traducono stati del profondo. Le motivazioni del reale sono tutte ricondotte alla scrittura, per saggiarne la possibilità di registrare e fermare tanto il pensato che l'intraveduto o il rimemorato, sia per oggettivazione che per astrazione [...]

Il volumetto, di 96 pagine, contiene 61 poesie, divise nel seguente modo: due sezioni brevissime (includono soltanto una poesia) poste all'inizio e alla fine del poema, che portano entrambe il medesimo titolo: PER INANIA REGNA; sette sezioni rispettivamente così intitolate: OMBRE DI NEVE; VELI D'APRILE; L'INCENSIERE; DIARIO BREVE; PIANURE LONTANE; MELODIE SACRE.
La prima sezione è formata da 11 poesie; quasi tutte hanno come tema principale quello di una donna affascinante e misteriosa, una Dama che il poeta vede o intravede sempre sola, in vari luoghi, e ogni volta che ciò accade rimane ammaliato da tale, imprevista e meravigliosa visone, come se fosse un'apparizione divina. Più rari, ma molto belli, sono i versi che hanno altri temi, come Il vangelo e Ombra.
Nella seconda sezione, che presenta una serie di poesie per lo più brevi, in cui vengono descritti paesaggi e luoghi immersi in un clima primaverile, si avverte maggiormente il debito verso certo D'Annunzio (soprattutto quello de L'Isotteo e de La Chimera); sporadicamente ricompaiono quegli elementi che caratterizzano la prima sezione, relativi ad una enigmatica donna che anche in questi versi appare come una dea: pura, bianca ed estremamente misteriosa. 
La terza sezione poteva essere intitolata "Il trionfo dei sensi", visti i numerosi riferimenti all'erotismo e al sensualismo che saltano all'occhio; al centro c'è sempre e comunque la donna enigmatica, già presente nelle precedenti sezioni, qui descritta in modo meno casto; tant'è che, il poeta riesce a trattenersi a stento di fronte alla visione di un corpo femmineo particolarmente conturbante, la cui purezza rischia seriamente di essere compromessa; ad acuire ancor di più l'atmosfera afrodisiaca, contribuiscono i profumi intensi ed esotici che si espandono nell'aria circostante, voluttuosamente.
La quarta sezione, se si tiene conto soltanto del titolo che porta, dovrebbe essere un diario in versi; in realtà si tratta di un avvicinamento onirico del poeta verso una vergine che riposa tra i gigli, in un luogo fantastico, situato su le porte dei sogni. E l'atmosfera sognante attraversa tutti i frammenti qui presenti, dove scompare ogni traccia di irrequiete voglie (così le definisce il poeta stesso), e al contrario si notano numerosi elementi collegati alla purezza ed alla religione. C'è anche un costante clima di sfinimento, una malinconia che si diffonde e domina sugli scenari che via via mutano, e che comunque sono ben identificabili nella città di Firenze e nella sua periferia, e dove, una volta di più, non è mai assente la vergine - che, guarda caso, si chiama Beatrice - incontrata dal poeta quasi sempre nei suoi sogni; nei rari momenti in cui si percepisce la sua presenza reale, viene decritta in modo molto vago.
La quinta sezione è composta da liriche di argomento bucolico, incentrate sui lavori tipici della campagna; i luoghi sono quelli del ferrarese, descritti con dovizia di particolari, includendo anche antiche leggende e nomi di personaggi famosi facenti parte della storia locale. Il tema che ricorre di più è quello dell'acqua. Qui si trovano la maggior parte delle poesie che Tumiati salverà, quando deciderà di pubblicare un volume che riassumesse l'intera sua produzione in versi.
Infine, la sesta sezione vede un ritorno dei temi principali della raccolta, con, al centro dell'attenzione, donne particolarmente sofisticate ed estremamente affascinanti, avvolte in un'aria sognante, spesso tristi o disperate.
Riporto di seguito due tra le migliori liriche di quest'opera poetica "dimenticata".





LA BIANCA NOTTE

Una verginità nuova
occupa la piazza vasta:
cammino sopra la neve.

Ne la notte alta, chi trova
l'orma? solo la riceve
quella neve umile e casta.

Io non so perché il mio piede
affondare vuole l'orma
nel velluto che si frange;

io non so che cosa vede
il mio cuore, quale forma
ne la notte alta, che piange.

Dal palagio scuro, bianca
pei cristalli vien la luce:
v'entra, v'arde la mia vista.

Forse ancora non sei stanca,
ma nel libro ti seduce
una luce bianca e trista.

Forse parli, piccolina
bocca, di vedute cose,
di ascoltata melodia.

La messa del Palestrina
di stamani, ovver le rose
pallide, corolla pia?

Io non so che pensi, né
so che penso io pure;
vedo solo a me d'intorno

de la neve le ombre pure;
ed è come un chiaro giorno
celestiale su te.




IL VANGELO

Il piccolo Vangelo
antico, mi consola
quando sono più triste.

A pena qualche velo,
trame d'ignota spola
d'oro sacro commiste;

Qualche velo si stende
sovra l'anima mia:
e il mondo trasfigura

come viso che prende
una dolcezza pia
sotto una mano pura.