Nacque a Rovigo nel 1855 e ivi morì nel 1933. Autrice di vari volumi poetici tra la fine del XIX secolo e il primo ventennio del Novecento, ebbe anche degli estimatori autorevoli come il poeta Pompeo Bettini, che, quando uscì la sua prima raccolta, soprattutto per alcuni suoi versi "impegnati", la paragonò ad Ada Negri. Sebbene non ebbe la fortuna della scrittrice lombarda, le sue poesie, pienamente inserite nel solco della tradizione, non sono da disprezzare.
Opere poetiche
"Non invano", Fratelli Drucker, Verona 1896.
"Ultime voci", Tip. Corriere Del Polesine, Rovigo 1914.
"Patria", Officine grafiche Corriere del Polesine, Rovigo 1915.
"Tutta l'anima", Tip. Corriere Del Polesine, Rovigo 1920.
"Poesie", Cappelli, Bologna-Rocca S. Casciano 1934.
Presenze in antologie
"Dio borghese", a cura di Adolfo Zavaroni, Mazzotta, Milano 1978 (pp. 178-179)
Testi
ROSAJO MORTO
Ho atteso invan le profumate rose:
morto è il rosajo, il rosajo gentile.
A le radici perfido, le ròse
un bruco vile.
Vennero indarno aprile e maggio. I morti
ahi! non ridestan miti aure tepenti.
I vili bruchi son spesso i più forti:
limano lenti.
Io, con tristezza, contemplai le fronde
aride, ignude, senza umor vitale.
Così talor ne l'uman cor s'asconde
bruco fatale
che le speranze e le dolcezze uccide,
e de la vita i tessuti disperde...
Morto è il rosajo. Ei più di fior non ride
né più rinverde.
(Da "Non invano")
Scampoli di letteratura dell'Ottocento e del Novecento, poeti dimenticati, vecchie antologie e altro ancora.
domenica 26 giugno 2016
martedì 21 giugno 2016
La solitudine in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo
Se nell'Ottocento il
malessere causato dalla solitudine trovava conforto in dolci malinconie, nel
Novecento l'essere umano solo prova soltanto spiacevoli sensazioni e non riesce
a percepire vie di fuga, consolazioni o giustificazioni tali da alleviare il proprio
dolore. Un grande poeta quale fu Salvatore Quasimodo riuscì, in soli tre versi,
ad esprimere perfettamente la condizione esistenziale dell'uomo moderno, affetto
da una solitudine cronica causata dal tipo di società in cui è costretto a vivere, dominata dal capitalismo: Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera. E che dire del primo
secolo del secondo millennio? Ai posteri l'ardua sentenza.
SOLITUDINE
di Attilio Bertolucci
(1911-2000)
Io sono solo
Il fiume è grande e
canta
Chi c’è di là?
Pesto gramigne
bruciacchiate.
Tutte le ore sono
uguali
Per chi cammina
Senza perché
Presso l’acqua che
canta.
Non una barca
Solca i flutti grigi
Che come giganti
placati
Passano davanti ai
miei occhi
Cantando.
Nessuno.
(Da "Sirio",
Minardi, Parma 1929)
MEDITAZIONE
di Gustavo Botta
(1880-1948)
Ahi!, cieca
solitudine terrena!
Ciascun vi è solo con
il suo dolore
sempiterno ed alcuna
gioia effimera.
Anche il poeta:
armonioso spirito
che, sperso tra le
genti mute, parla
e in questa cupa
notte accende stelle.
(Da "Alcuni
scritti", Ariel, Milano 1952)
CONDIZIONE
di Giorgio Caproni
(1912-1990)
Un uomo solo,
chiuso nella sua
stanza.
Con tutte le sue
ragioni
tutti i suoi torti.
Solo in una stanza
vuota,
A parlare. Ai morti.
(Da "Poesie
1932-1986", Garzanti, Milano 1989)
SOLITUDINE
di Alfonso Gatto
(1909-1976)
Sogno di fioca riva:
cielo sorto
dal trapelato amore
dell'estreme
solitudini chiuse in
uno smorto
lume tranquillo. Ed
il silenzio teme
di muover foglie, in
alito persuaso
nel declivio già
molle del profondo.
Ora s'adagia
nell'oblio, nel caso
d'una felicità
remota, il mondo.
Dimenticato mi rivela
il vento:
addormentato sul mio
corpo stretto,
penetro in rami di
freschezza il lento
approssimarsi rigido
del petto.
Tutta la terra è nel
presagio attento
del mio silenzio, in
un idillio puro:
sogno di morte
estatica, convento
di selve trattenute
lungo il muro.
(Da "Poesie
1929-1941", Mondadori, Milano 1961)
ASPETTI DELLA
SOLITUDINE
di Aleardo Kutufà
d'Atene (?-?)
Persiane chiuse
vicoletti morti,
chiostri deserti
giardini
addormentati,
pianoforti
strimpellati
da mani di fanciulle
malate di clorosi,
mattini inerti,
meriggi silenziosi;
nel tempo d'estate
pallide tende alzate
su le facciate
infrante;
qualche raro
passante;
sui palagi e su le
chiese
zone accese
di luce di vario
colore,
zone violacee
d'ombra,
vapore
saliente
che il dileguar de
l'ore
sposta lentamente.
Languore
provinciale
dell'aria dolente,
quiete domenicale
delle vie silenziose!
Quanta dolce mestizia
esalano le cose!
Spiar l'ombre
dell'ore
su le meridiane,
ascoltar le maliose
elegie delle campane,
veder salire in cielo
nuvole lontane
e vederle vanire
tra amori di
silenzio!
Sentirsi
come in esilio,
nel lentissimo
giorno!
Guardarsi d'intorno
per essere più solo.
E sentirsi nel duolo
perire
di languore
rimpiangendo l'amore,
la giovinezza, la
fede,
tutto ciò che fu
invano
e che la vita
ha distrutto.
(Dall'antologia
"L'Adunata della poesia", Editoriale Italiana Contemporanea, Arezzo
1929)
L'UOMO COL CANE
di Francesco
Pastonchi (1874-1953)
Ogni sera, quando
rincaso,
lo incontro. È un
signore
molto lindo,
in perpetuo lutto,
solo, con un cane
color tamarindo
sbiadito.
Ha un viso distrutto,
indefinibile, sliso,
vuotato di sguardo,
con un immoto
sorriso,
come domandasse scusa
all'aria
d'ingombrarla con la
sua persona,
delusa.
Non fosse così
persuaso
di essere nulla,
si direbbe ch'è un
servitore
di riguardo
che meni ai quieti
divaghi
il cane della vecchia
padrona.
Ma lui non è che il
suo cane.
Non è nemmeno più
stanco:
questa vita bella
non può fargli più
male.
È il cane che lo fa
camminare,
lo tira con la
cordicella,
un poco di fianco,
dall'orlo del
marciapiede,
come si tira da riva
una zattera lungo un
canale.
Lui non guarda, non
vede:
vive come niente viva
al di là del suo cane
color tamarindo
sbiadito.
Gli occhi non c'è
caso che li alzi:
passi lieve una
fanciulla
bellissima in un
nimbo d'odore,
o passi fragoroso un
traino,
sempre li tiene
bassi:
come uno che appena
s'appaghi
a le briciole del
convito.
Per lui non c'è più
cose nuove.
Curvo, come sotto uno
zaino,
muove le sue gambe
flosce:
i suoi piedi paiono
scalzi
come i piedi dei
morti
che non fanno rumore.
Ho chiesto a tutti i
vicini:
nessuno lo conosce.
Certo è di un altro
quartiere,
e vien qui a
passeggiare
questa via solitaria
tutta villette e
giardini
pieni di uccelli.
C'è tanto riposo
dalla città
furibonda,
e il cane ha tanti
cancelli
da odorare.
Vorrei fermarlo, e
non oso.
Un giorno, che mi son
mosso
risoluto a sapere
chi fosse, è svanito
(ma dove? ma dove?).
Vorrei parlargli, e
non posso.
Ho terrore che sia...
ho terrore che mi
risponda
con la voce mia.
(Da "I
versetti", Mondadori, Milano 1931)
LAVORARE STANCA
di Cesare Pavese
(1908-1950)
Traversare una strada
per scappare di casa
lo fa solo un
ragazzo, ma quest'uomo che gira
tutto il giorno le
strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa.
Ci sono d'estate
pomeriggi che fino le
piazze son vuote, distese
sotto il sole che sta
per calare, e quest'uomo, che giunge
per un viale
d'inutili piante, si ferma.
Val la pena esser
solo, per essere sempre più solo?
Solamente girarle, le
piazze e le strade
sono vuote. Bisogna
fermare una donna
e parlarle e
deciderla a vivere insieme.
Altrimenti, uno parla
da solo. È per questo che a volte
c'è lo sbronzo
notturno che attacca discorsi
e racconta i progetti
di tutta la vita.
Non è certo
attendendo nella piazza deserta
che s'incontra
qualcuno, ma chi gira le strade
si sofferma ogni
tanto. Se fossero in due,
anche andando per
strada, la casa sarebbe
dove c'è quella donna
e varrebbe la pena.
Nella notte la piazza
ritorna deserta
e quest'uomo, che
passa, non vede le case
tra le inutili luci,
non leva più gli occhi:
sente solo il
selciato, che han fatto altri uomini
dalle mani indurite,
come sono le sue.
Non è giusto restare
sulla piazza deserta.
Ci sarà certamente
quella donna per strada
che, pregata,
vorrebbe dar mano alla casa.
(Da "Lavorare
stanca", Einaudi, Torino 1943)
SOLITUDINI
di Salvatore
Quasimodo (1901-1968)
Una sera nebbia,
vento,
mi pensai solo: io e
il buio.
Né donne, e quella
che sola poteva
donarmi
senza prendere che
altro silenzio,
era già senza viso
come ogni cosa ch'è
morta
e non si può
ricomporre.
Lontana la casa, ogni
casa
che ha lumi di veglia
e spole che picchiano
all’alba
quadrelli di rozzi
tinelli.
Da allora
ascolto canzoni di
ultima volta.
Qualcuno è tornato, è
partito distratto
lasciandomi occhi di
bimbi stranieri,
alberi morti su prode
di strade
che non m’è dato
d’amare.
(Da "Acque e
terre", Ediz. di «Solaria», Firenze 1930)
LAOCOONTE
di Giorgio Vigolo
(1894-1983)
La peggio solitudine
dipende
da un amore smodato
di sé.
Sei così solo perché
dentro sempre
un amico geloso hai
che non vuole
vicino altro
compagno,
ma esserti, lui solo,
il solo amico,
ed è questa metà non
divisibile
che in mille divieti
ci lega.
La sua furente
gelosia ci addensa
una nuvola intorno
di paure, di ambasce
appena un'altra
compagnia ci attira.
Subito lui si sente
tradito, come serpe
ci stringe intorno al
collo la sua spira.
(Da "I fantasmi
di pietra", Mondadori, Milano 1977)
AMARA SOLITUDINE
di Giuseppe Villaroel
(1889-1968)
Amara solitudine, la
vita
trascorre
inutilmente. E questa folla
mi trascina per le
vecchie strade.
Così sospinge a galla
il mare un naufrago.
Anche tu sei
scomparso, amore. E il tempo
cancellò la tua bocca
e il tuo sorriso.
Arido cuore senza
pace. E pure,
se dal giardino della
villa antica,
ove sostammo nelle
notti estive
smemorati dai baci e
dalle lacrime,
si leva il vento e
porta la tua voce
tra le foglie e i
ricami della luna,
il sangue mi si
scioglie; e il canto fermo
dei grilli a valle e
il sonno dei cipressi
oh, come tristi
tornano al pensiero!
Nebbia che scende
lenta alle pianure
quando arriva
l'autunno e il sole è spento.
(Da "Quasi vento
d'aprile", Mondadori, Milano 1956)
Edvard Munch, "Despair"
mercoledì 15 giugno 2016
La solitudine in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo
La solitudine,
rispetto alla misantropia, è un sentimento più dolente; se il misantropo va
alla ricerca della solitudine perché infastidito dall'umanità, il solo o
solitario si ritrova in tale condizione senza volerlo: perché respinto, per
qualche motivo, da tutti, oppure perché incapace di trovare almeno una persona
che possa soddisfare le sue esigenze, con cui possa trovare un minimo di
accordo e di complicità. Da qui nasce il dolore dell'uomo e della donna che si sentono soli; ma questo tormento a volte si stempera in dolce malinconia o in compiaciuto vittimismo. Ecco allora
dieci poesie di dieci poeti italiani, scritte e pubblicate durante il XIX
secolo (fa eccezione quella del Camerana, che comunque porta la data del 1885), in cui vengono esternati questi
sentimenti di sofferenza; a volte essi sono autobiografici, a volte no, ma
comunque ritengo che tutti quelli riportati di seguito siano dei versi di buon
valore, degni di essere letti e riletti da anime sensibili, come certo saranno
tutte quelle che si soffermeranno su questo post.
SOLITUDINE
di Bruna (pseud. di Laura
Clementina Maiocchi, 1866-1945)
Ho pianto molto; ora
una pace blanda,
quasi mortale, scende
sul mio core.
Parmi di camminare in
una landa
vasta, silenzïosa,
senza un fiore.
Ma dove, dove, vado?
che mai spero
così sola e dolente
ne l'intenso
silenzio? Nulla so
del gran mistero
che mi circonda, ed
altro più non penso.
Il mio pensiero, ch'è
dolore, tace;
pietoso tace perchè
molto ho pianto:
io vo, come dormendo,
in questa pace.
Ed è il mio core un
ermo campo santo.
(Da "In
solitudine", Cappelli, Rocca S. Casciano, 1898)
LA NERA SOLITUDINE
di Giovanni Camerana
(1845-1905)
La nera solitudine
alla nera
solitudine;- il sogno
alto al profondo
pensier;- la sera che
è triste, alla sera
che piange; - al
mondo infranto, il bieco mondo.
(Da
"Versi", Streglio, Torino 1907)
LA BUONA VOCE
di Gabriele
D'Annunzio (1863-1938)
Sei solo. D'altro più
non ti sovviene.
E d'altro più non ti
sovvenga mai!
Sul tuo cuore fluisca
l'oblìo lene.
Ti sien dolci questi
umili sentieri.
Ancóra qualche rosa è
ne' rosai.
Sarà domani quel che
non fu ieri.
Domani prenderà novo
coraggio
e nova forza l'anima
che teme.
A la prima rugiada,
al primo raggio
non s'alza l'erba che
il tuo piede preme?
(Da "Poema
paradisiaco", Treves, Milano 1893)
LA VITA SOLITARIA
di Giacomo Leopardi
(1798-1837)
La mattutina pioggia,
allor che l'ale
Battendo esulta nella
chiusa stanza
La gallinella, ed al
balcon s'affaccia
L'abitator de' campi,
e il Sol che nasce
I suoi tremuli rai
fra le cadenti
Stille saetta, alla
capanna mia
Dolcemente
picchiando, mi risveglia;
E sorgo, e i lievi
nugoletti, e il primo
Degli augelli
susurro, e l'aura fresca,
E le ridenti piagge
benedico:
Poiché voi, cittadine
infauste mura,
Vidi e conobbi assai,
là dove segue
Odio al dolor
compagno; e doloroso
Io vivo, e tal morrò,
deh tosto! Alcuna
Benché scarsa pietà
pur mi dimostra
Natura in questi
lochi, un giorno oh quanto
Verso me più cortese!
E tu pur volgi
Dai miseri lo
sguardo; e tu, sdegnando
Le sciagure e gli
affanni, alla reina
Felicità servi, o
natura. In cielo,
In terra amico
agl'infelici alcuno
E rifugio non resta altro che il ferro.
Talor m'assido in
solitaria parte,
Sovra un rialto, al
margine d'un lago
Di taciturne piante
incoronato.
Ivi, quando il
meriggio in ciel si volve,
La sua tranquilla
imago il Sol dipinge,
Ed erba o foglia non
si crolla al vento,
E non onda
incresparsi, e non cicala
Strider, né batter
penna augello in ramo,
Né farfalla ronzar,
né voce o moto
Da presso né da lunge
odi né vedi.
Tien quelle rive
altissima quiete;
Ond'io quasi me
stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto; e già
mi par che sciolte
Giaccian le membra
mie, né spirto o senso
Più le commova, e lor
quiete antica
Co' silenzi del loco si confonda.
Amore, amore, assai
lungi volasti
Dal petto mio, che fu
sì caldo un giorno,
Anzi rovente. Con sua
fredda mano
Lo strinse la
sciaura, e in ghiaccio è volto
Nel fior degli anni.
Mi sovvien del tempo
Che mi scendesti in
seno. Era quel dolce
E irrevocabil tempo,
allor che s'apre
Al guardo giovanil
questa infelice
Scena del mondo, e
gli sorride in vista
Di paradiso. Al
garzoncello il core
Di vergine speranza e
di desio
Balza nel petto; e
già s'accinge all'opra
Di questa vita come a
danza o gioco
Il misero mortal. Ma
non sì tosto,
Amor, di te
m'accorsi, e il viver mio
Fortuna avea già
rotto, ed a questi occhi
Non altro convenia
che il pianger sempre.
Pur se talvolta per
le piagge apriche,
Su la tacita aurora o
quando al sole
Brillano i tetti e i
poggi e le campagne,
Scontro di vaga
donzelletta il viso;
O qualor nella
placida quiete
D'estiva notte, il
vagabondo passo
Di rincontro alle
ville soffermando,
L'erma terra
contemplo, e di fanciulla
Che all'opre di sua
man la notte aggiunge
Odo sonar nelle
romite stanze
L'arguto canto; a
palpitar si move
Questo mio cor di
sasso: ahi, ma ritorna
Tosto al ferreo
sopor; ch'è fatto estrano
Ogni moto soave al petto mio.
O cara luna, al cui
tranquillo raggio
Danzan le lepri nelle
selve; e duolsi
Alla mattina il
cacciator, che trova
L'orme intricate e
false, e dai covili
Error vario lo svia;
salve, o benigna
Delle notti reina.
Infesto scende
Il raggio tuo fra
macchie e balze o dentro
A deserti edifici, in
su l'acciaro
Del pallido ladron
ch'a teso orecchio
Il fragor delle rote
e de' cavalli
Da lungi osserva o il
calpestio de' piedi
Su la tacita via;
poscia improvviso
Col suon dell'armi e
con la rauca voce
E col funereo ceffo
il core agghiaccia
Al passegger, cui
semivivo e nudo
Lascia in breve tra'
sassi. Infesto occorre
Per le contrade
cittadine il bianco
Tuo lume al drudo
vil, che degli alberghi
Va radendo le mura e
la secreta
Ombra seguendo, e
resta, e si spaura
Delle ardenti lucerne
e degli aperti
Balconi. Infesto alle
malvage menti,
A me sempre benigno
il tuo cospetto
Sarà per queste
piagge, ove non altro
Che lieti colli e
spaziosi campi
M'apri alla vista. Ed
ancor io soleva,
Bench'innocente io
fossi, il tuo vezzoso
Raggio accusar negli
abitati lochi,
Quand'ei m'offriva al
guardo umano, e quando
Scopriva umani
aspetti al guardo mio.
Or sempre loderollo,
o ch'io ti miri
Veleggiar tra le
nubi, o che serena
Dominatrice
dell'etereo campo,
Questa flebil
riguardi umana sede.
Me spesso rivedrai
solingo e muto
Errar pe' boschi e
per le verdi rive,
O seder sovra l'erbe,
assai contento
Se core e lena a
sospirar m'avanza.
(Da
"Canti", Le Monnier, Firenze 1860)
NEBBIE
di Ada Negri
(1870-1944)
Soffro. — Lontan
lontano
Le nebbie sonnolente
Salgono dal tacente
Piano.
Alto gracchiando, i
corvi,
Fidati all'ali nere,
Traversan le
brughiere
Torvi.
Dell'aere ai morsi
crudi
Gli addolorati
tronchi
Offron, pregando, i
bronchi
Nudi.
Come ho freddo! Son
sola;
Pel grigio ciel
sospinto
Un gemito d'estinto
Vola;
E mi ripete: Vieni,
È buia la vallata.
O triste, o disamata.
Vieni!...
(Da
"Fatalità", Treves, Milano 1892)
AL FUOCO
di Giovanni Pascoli
(1855-1912)
Dorme il vecchio
avanti i ciocchi.
Sogna un nuvolo di
bimbi,
che cinguetta. Il
ceppo al foco
russa roco.
Dorme anch’esso. A
tutti i nocchi
sogna grappoli e
corimbi.
Rosei pendono
nell’aria
solitaria.
Bianchi i bimbi tra
il fogliame,
su su, a quel roseo
sorriso
vanno. Il ceppo occhi
di brace
apre, e tace.
Ecco pendulo lo
sciame
dal grande albero
improvviso,
su su. Il vecchio nel
cor teme,
guarda e geme.
Ogni bimbo al suo
fiore alza
la mano e... scivola
e va.
Sbarra il ceppo la
pupilla:
crocchia e brilla.
E il vegliardo, al
crocchiar, balza
nella rotta oscurità.
Gira lento gli occhi.
Solo!
solo! solo!
(Da "Myricae",
Giusti, Livorno 1894)
ISOLAMENTO
di Giovanni Prati
(1815-1884)
Amo il fiore se,
germina soletto,
Più che se adorna di
mill'altri il suolo;
Amo il ruscello, che
per picciol letto
Passa ne'campi, e
l'uccellin che il volo
Muta per poche
fronde, e fuor del petto,
Versa cantando
qualche antico duolo;
Ed amo l'astro che
nell'aer schietto
Senz'altra compagnia
brilla nel polo.
Amo la nuvoletta, che
si tinge
d'una languida
porpora, e non posa
Per l'ignoto desio
che la sospinge;
Mi prende amor d'ogni
isolata cosa,
Perché l'anima mia vi
si dipinge
Isolata in eterno e
dolorosa.
(Da "Memorie e
lacrime", Marietti, Torino 1844)
IL TRENO HA FISCHIATO...
di Giacinto Ricci
Signorini (1861-1893)
Il treno ha
fischiato: fremendo
Sotto l'ampia sonora
tettoia
S'arresta; di un
balzo discendo,
E mi canta nel cuore
la gioia.
Veloce mi volgo
all'uscita,
Guardo: dietro i
cancelli lucenti
Mi aspetti con ansia
infinita,
E mi accenni dagli
occhi ridenti.
Così m'era dolce
l'arrivo
Nel passato: nessuno
ora viene
Che mi attenda
all'uscita giulivo,
Che mi baci e mi
dica: Stai bene?
Cammino tra il
chiasso a rilento,
Ma non odo il tuo
riso giocondo:
Ho voglia di pianger:
mi sento
Tanto solo e perduto
nel mondo.
(Da "Thanatos",
Società coop. per l'arte tipografica, Cesena 1892)
OH PICCOLO UCCELLO
DAGLI OCCHI NERI...
di Igino Ugo
Tarchetti (1839-1869)
Oh piccolo uccello
dagli occhi neri; tu vai accarezzando colle ali le onde dell’Oceano, e canti
lietamente la tua canzone nella solitudine. Entrambi siamo soli ed abbandonati
in questo deserto; una profonda quiete domina sulla natura, ma questo silenzio
non influisce sul mio cuore. Esso batte assai forte, o piccolo uccello dagli
occhi neri.
Io vengo quivi a
versare le mie lagrime , e a nascondere agli uomini il rossore della mia
debolezza. - Amare senza essere amato, - desideri inesauditi - sogni vani e
impotenti, e giovinezza senza speranze. Io canto i fiori recisi dalla mia
primavera, e tu canti lietamente la tua canzone, o piccolo uccello dagli occhi
neri.
Vorrei che una barca
sul mare, e la mia fanciulla tra le braccia, e un ultimo addio alla mia terra
natale. Forse, ed allora mi sembrerebbe meno desolata la vita. Ma ohimè! nessun
conforto io posso attendermi dagli uomini, se i miei lamenti non valgono pure
ad interrompere la tua canzone, o piccolo uccello dagli occhi neri.
Sí canta lietamente,
o piccolo uccello, uccello felice delle montagne. Io vorrei teco dividere il
mio destino. Vorrei io pure avere le ali, per vivere lontano dalla terra, e la
tua incostanza per non amare, e la brevità della tua vita per piangere di meno.
Ma addio, tu mi hai fatto sentire la tua canzone sopra la riva del mare, e una
grande tempesta hai suscitata nel mio cuore, o piccolo uccello dagli occhi
neri.
(Da "Disjecta",
Zanichelli, Bologna 1879)
SPLEEN
di Remigio Zena
(pseud. di Gaspare Invrea, 1850-1917)
Vibra, o sol della
poesia,
Vibra un raggio
d'armonia
Sulla negra anima
mia.
Della noia tra le
lotte
La caligine
m'inghiotte
D'un'opaca
mezzanotte.
Nel chiarore
vacillante
Della lampa
agonizzante
Son qui solo
brancolante
E alla Musa mia
sorella
Chiedo invan la
strofa bella,
Ma la Musa si
ribella,
Non discende a darmi
aiuto,
La sua man sdegna il
lïuto,
E il suo labbro resta
muto.
Altra musica non
sento
Che la musica del
vento
In risposta al mio
lamento.
Privi che l'ultimo
sbadiglio
Mandi il lume, in
questo esiglio
Entra tu, sole
vermiglio.
Vibra un raggio
d'armonia,
Santo sol della
poesia,
Sulla negra anima
mia.
(Da "Poesie
grigie", Tip. del r. I. de' sordo-muti, Genova 1880)
William-Adolphe Bouguereau, "Seule au monde" |
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