lunedì 30 gennaio 2012

Il rimpianto dell'infanzia nei poeti ermetici meridionali

Salvatore Quasimodo (1901-1968), Alfonso Gatto (1909-1976), Libero De Libero (1906-1981) e (Leonardo Sinisgalli (1908-1981) sono stati quattro poeti italiani che la critica letteraria più avveduta accomunò definendoli ermetici, insieme ad altri poeti come Mario Luzi, Piero Bigongiari, Alessandro Parronchi, Vittorio Sereni ecc. Ma i quattro hanno altre caratteristiche in comune che vanno oltre l'ermetismo: a cominciare dal fatto che tutti provenivano dall'Italia meridionale, che tutti (a eccezione di De Libero) ben presto lasciarono la loro terra d'origine per trasferirsi nell'Italia del nord, e infine tutti scrissero dei versi in cui si percepiva una struggente nostalgia per il periodo infantile trascorso nelle loro terre; che parlavano di quella fase della loro vita come fosse un momento magnifico, lo descrivono somigliante ad un vero e proprio mondo mitico, fatto di paesaggi naturali incontaminati, di persone straordinarie che vivevano in quei luoghi, oramai perse per sempre per motivi dovuti alla loro morte sopraggiunta nel frattempo o alla perdita di ogni possibile contatto con loro; a quest'ultimo proposito sono i parenti più stretti (genitori, fratelli, sorelle) e gli amici dei giochi dell'infanzia ad essere maggiormente rimpianti da questi poeti costretti (per motivi di lavoro) ad abbandonare i luoghi amati. Ecco allora una brevissima selezione delle loro poesie più significative al riguardo, tutte tratte dalle loro opere iniziali, perché è proprio lì che si avverte di più questo rimpianto misto a dolore, per la consapevolezza di avr perso qualcosa di irritrovabile, qualcosa che per alcuni di loro va al di là della fanciullezza perduta e diviene quasi impressione netta di vivere una vita presente totalmente inutile: si avverte lo strazio interiore di chi sa di aver lasciato tutto ciò che contava laggiù, nel sud, insieme ai loro genitori ormai scomparsi, ai loro amici persi di vista, e alla loro infanzia mitica.
 
 
 
VENTO A TINDARI
di Salvatore Quasimodo


Tindari, mite ti so
fra larghi colli pensile sull'acque
dell'isole dolci del dio,
oggi m'assali
e ti chini in cuore.

Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m'accompagna
s'allontana nell'aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d'ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d'anima.

A te ignota è la terra
ove ogni giorno affondo
e segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.

Aspro è l'esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d'armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo nel buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.
Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m'ha cercato.

(Da "Ed è subito sera")
 

 
 
INFANZIA
di Alfonso Gatto


Il bambino, sorpreso alla finestra
della sera tranquilla, odorava
la leggerezza tepida dei fiori
sollevati nell'aria celeste.
Inquietamente raccoglieva il volto
in un silenzio scolorito
e calmo la sua vergogna ridonava
all'impalpabile sera
assiepata dall'erbe e dai tetti.
Sognava: nella piazzetta antica
la chiesa era un piccolo chiosco
con la bandierina allegra:
alla cupola di maiolica
s'illuminavano gli scarabei
sulle lastre d'acqua verdina.
Il silenzio dell'umido erboso
acquetava le scale,
i balconcini coi tralci, le stive
dei fondaci colmi di frutta.
Così s'accendeva il fanale,
a poco a poco aggregato dall'acque,
sulla laguna invernale.
Affondavano le case
in lontananze distrutte,
sgretolate senza rumore:
trasaliva il bambino invecchiato
intirizzito all'ombrello.

Andava a trovare i suoi morti
rinchiusi in armadi sconnessi:
traboccava allegra pioggia
sul piccolo porto di legno,
ed una gioia strana
lo flagellava col vento
in un presagio del mare.

(Da "Poesie")
 

 
 
QUESTA PIOGGIA
di Libero De Libero


Questa pioggia di città
(saluto all'inverno con acqua
gentile come un sognato canto
nella stanza della sera)
mi riporta a una collina
amata per un viaggio di cavalli,
al paese in collina
abbrancato nei castagni,
al tempo e all'odore
dei giorni contadini,
a mia madre rimasta
nei figli e nel pane
e nell'amore di mio padre
e per lui morta,
a tutta la mia gente antica
mandriana di palude.

Questa pioggia di città
(dell'inverno fredde radici
e stanche palpebre d'acqua
e timida sera della stanza)
mi riporta alla casa con sedie
tante e della morte sola novità,
al collegio con tanti occhi
e nel segreto meglio si giocava,
a tutta l'infanzia dal corpo
assediata e dalle stagioni.
È questa l'acqua attinta
ai pozzi di Monte Calciano,
acqua venuta dal mare
e il mare molesta il sonno
al fanciullo che il gatto pianse
lapidato nel bosco coi compagni.

(Da "Scempio e lusinga")
 

 
 
LA LUCE ERA GRIDATA A PERDIFIATO
di Leonardo Sinisgalli


La luce era gridata a perdifiato
Le sere che il sole basso
Arrossava il petto delle rondini rase.
Ora e sempre più viva
Sarà la smania di far notte in me solo
E cercar scampo e riposo
Nella mia storia più remota.
Ogni sera mi vado incontro a ritroso.

(Da "Vidi le Muse")
 
 
 
 

Tabernacoli d'oro alza la sera

Tabernacoli d'oro alza la sera
per celebrare i mistici sponsali
fra la terra che freme primavera
e il cielo che n'ha già brividi d'ali.

La melodia dell'erba è sì leggera
che insieme a lei sembra ogni zolla esali
su nella luce; e il cielo, alla preghiera,
si sciolga in caldi baci nuziali.

L'anima che in quel fremito è rapita,
obliando i suoi poveri tormenti,
risorge a quella luce: a quella vita

cosmica, in armonia con gli elementi,
quando al coro degli angeli era unita,
sposa di tutti gli esseri viventi.


Questa lirica appartiene alla seconda fase poetica di Arturo Onofri (1885-1928), poeta romano che nelle sue prime raccolte ("Liriche", 1907; "Poemi tragici", 1908; "Canti delle oasi", 1909) fu attratto e influenzato dalle tematiche del decadentismo e del crepuscolarismo, staccandonese col tempo per approdare ad una poesia del tutto nuova (non solo in Italia) che nasce da una profonda tensione esistenziale e sfocia in una ricerca della purezza intesa dal poeta come rinascita, rigenerazione universale rappresentata dalla natura in un contino evolversi e in una perenne sintesi con l'elemento divino. Molto influirono sulle ultime opere onofriane le teorie religiose e antroposofiche di Rudolf Steiner (1861-1925) filosofo austriaco che a sua volta si rifaceva alla teosofia (varie dottrine mistico-filosofiche collegate tra di loro) ed al pensiero indiano. La poesia è tratta da "Vincere il Drago!" (1928), si tratta di un sonetto che rientra pienamente nella fase più filosofica e mistica di Onofri; l'arrivo della sera sembra annunciare un rito iniziatico in cui si celebrano la Terra ed il Cielo intesi come divinità vere e proprie; nella Terra prevale l'elemento musicale e spirituale mentre il Cielo rappresenta quello di un amore caldo e sensuale. Nelle due terzine diviene protagonista l'anima umana che, assistendo allo spettacolo si libera dei problemi e dei tormenti terreni per obliarsi ed estasiarsi nella luce e nella vita cosmica, in un mondo ultraterreno in cui ha già vissuto e in cui è destinata a ritornare.

sabato 28 gennaio 2012

Da "Vivere ancora" di Ruth Klüger


Si fece umido, poi molto freddo. Era l'inverno '44-45, che nessuno che fosse ancora in Europa dimenticherà mai. La mattina ci svegliavano con una sirena o un fischietto, e nel buio stavamo in piedi per l'appello. Stare in piedi, stare semplicemente in piedi mi ripugna ancor oggi a tal punto, che a volte esco da una coda e me ne vado quando tocca quasi a me, solo perché non voglio restare in fila un istante di più.




Ruth Klüger nacque a Vienna nel 1931, ed è morta a Irvine, in California, nel 2020. Vivere ancora, che uscì per la prima volta nel 1992, è il primo, struggente romanzo della scrittrice viennese, in cui racconta la sua drammatica vicenda umana, ai tempi in cui fu deportata insieme alla madre, nel 1942, dapprima a Theresienstadt e poi ad Auschwitz; entrambe sopravvissero all’Olocausto e, finita la guerra, si trasferirono negli Stati Uniti, dove Ruth professò l’insegnamento.

Il toccante frammento che ho riportato sopra, proviene dall’edizione italiana di Vivere ancora, pubblicata da Einaudi, in Torino nel 1992 (il frammento si trova nella riedizione del 1995, a pagina 145).



venerdì 27 gennaio 2012

Da "Se questo è un uomo" di Primo Levi

In quel modo con cui si vede finire una speranza, così stamattina è stato inverno. Ce ne siamo accorti quando siamo usciti dalla baracca per andarci a lavare: non c'erano stelle, l'aria buia e fredda aveva odore di neve. In piazza dell'Appello, nella prima luce, alla adunata per il lavoro, nessuno ha parlato. Quando abbiamo visto i primi fiocchi di neve, abbiamo pensato che, se l'anno scorso a quest'epoca ci avessero detto che avremmo visto ancora un inverno in Lager, saremmo andati a toccare il reticolato elettrico; e che anche adesso ci andremmo, se fossimo logici, se non fosse di questo insensato pazzo residuo di speranza inconfessabile.

(Da: Primo Levi - "Se questo è un uomo", Ed. San Paolo, 1997, p.144)

Da "Diario" di Anne Frank


Ecco che cos'è difficile in quest'epoca: gli ideali, i sogni e le belle aspettative non fanno neppure in tempo a nascere che già vengono colpiti e completamente devastati dalla realtà più crudele. E' molto strano che io non abbia abbandonato tutti i miei sogni perché sembrano assurdi e irrealizzabili. Invece me li tengo stretti, nonostante tutto, perché credo tuttora all'intima bontà dell'uomo.
Mi è proprio impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria e della confusione. Vedo che il mondo lentamente si trasforma in un deserto, sento sempre più forte il rombo che si avvicina, che ucciderà anche noi, sono partecipe del dolore di milioni di persone, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto tornerà a volgersi al bene, che anche questa durezza spietata finirà, e che nel mondo torneranno tranquillità e pace. Nel frattempo devo conservare alti i miei ideali, che forse nei tempi a venire si potranno ancora realizzare!

Sabato 15 luglio 1944




Questo frammento è tratto dal celebre Diario di Anne Frank (Francoforte sul Meno 1929 – Bergen-Belsen 1945), ovvero dall’unica, straordinaria e altamente commovente opera letteraria di un’adolescente che, insieme alla sua famiglia,  nell’agosto del 1944 fu deportata ad Auschwitz e poi, qualche mese dopo, a Bergen-Belsen, dove morì.

In queste pochi pensieri è facile comprendere l’eccezionale maturità di Anne, che, pur essendo consapevole di trovarsi in un tempo ed in una situazione personale dai risvolti estremamente drammatici, riesce a trovare dei motivi per sperare, per pensare che il suo, come quello dei suoi familiari e dei suoi conoscenti  (trovatisi uniti ad Amsterdam, in un luogo nascosto, in attesa della fine della guerra), sia soltanto un periodo negativo, destinato presto a concludersi. Non ci sono parole per descrivere l’ottimismo ad oltranza di questa ragazzina che, ahimè, di lì a pochi mesi avrebbe trovato la morte in un campo di concentramento tedesco.


giovedì 26 gennaio 2012

Presagio

Come oggi parto verso l'alpe, o amici,
presto m'involerò per altra via,
eternamente. Così vuol che sia
l'anima, se da lei tolgo gli auspici.

Mi evocherete lungo le pendici
dove un giorno cantai la madre mia,
e, sposa eletta, la malinconia
mi soccorreva d'attimi felici.

Non piangerete; favola è la morte
per me, come la vita, che non ebbi
suddita al verbo d'un'ignobil sorte.

Non so per qual prodigio di natura,
io che tra voi, fraternamente, crebbi,
un'immagine fui, non creatura.
 





È questa una delle poesie più belle di Giulio Gianelli (1879-1914) contenute nella raccolta "Intimi vangeli", del 1908. A questo proposito è bene ricordare le parole del critico Carlo Calcaterra, che nel suo saggio "Con Guido Gozzano e altri poeti", ricorda così Gianelli: «Oggi la terzina che meglio lo richiama agli amici è quella che chiude il sonetto Presagio». In effetti Giulio Gianelli fu una figura singolare e sicuramente speciale per il suo impegno sociale a favore dei diseredati della Terra, fu infatti molto attivo per gran parte della sua breve vita, aiutando come poteva i più poveri e i più sfortunati. Malato di tisi già a vent'anni, cercò di reagire coraggiosamente alla grave malattia, ma quest'ultima ebbe il sopravvento quando il poeta piemontese aveva soli trentacinque anni. La poesia sopra riportata ben sintetizza il "presagio" del poeta, che certo si attendeva di dover lasciare la terra prima del tempo, rappresenta perciò una specie di testamento spirituale e un addio agli amici più cari. La foto che segue il testo poetico è tratta dall'antologia "Gozzano e i crepuscolari", a cura di Cecilia Ghelli, Garzanti, Milano 1983.

Alcuni desideri

Non chiedo la grazia divina
del sogno, né la scintilla
del genio: una vita tranquilla
mi basta, una vita meschina.
Per questa manía solitaria
m'occorrerebbe un'onesta
casa, assai vecchia e modesta,
con molta luce e buon'aria,
con alberi verdi e da frutti
d'intorno, sepolta tra un folto
di pergole ombrose; ma molto,
ma molto lontana da tutti.
Un'assai vecchia dimora,
linda, ospitale ed ammodo,
un po' rozza e semplice al modo
delle massaie d'allora;
e in questo rifugio all'antica,
vorrei, nell'oblío secolare,
illudermi di riposare
da un'immaginaria fatica.
Che sonni, che sonni tranquilli
da bimbo nella sua cuna,
le notti col lume di luna,
le notti col canto dei grilli!
Vorrei pure scrivere, senza
fatica, dei versi: ma sparsi
a spizzico, da giudicarsi
con una bonaria indulgenza:
dei versi bizzarri, rimati
secondo la mia prosodía,
con molta malinconía
e quasi niente grammatica:
e il lusso da milionario
vorrei per un mese, d'avere
a nolo per cameriere
un dottore universitario
per mettere in bella copia
le mie bislacche parole
e dirmi dove ci vuole
la lettera semplice o doppia.
O gioia di essere solo!
non l'ombra d'un conosciuto
vicino, toltone il muto
dottore che avrei preso a nolo.
Non ascolterei che la sola
Natura, l'unica amica;
non compirei piú la fatica
di dire una mezza parola.
Avrei con me qualche rado
libro, assai fuori di mano;
andrei per i campi pian piano
senza saper dove vado;
nella mia testa i pensieri
andrebbero com'io li lascio
andare, tutti a rifascio,
i piú pazzi con i piú seri:
e a sera, sull'imbrunire,
un letto fresco e profondo
mi smemorerebbe del mondo
con la voluttà di dormire.
Se un semplice regime uguale
bastasse a guarirmi dal tedio!
Ma in simile caso il rimedio
sarebbe peggiore del male.
Non guarirei, ne son certo,
da tutte queste torture
imaginarie, neppure
se andassi in mezzo al deserto;
il male, purtroppo, non sta
di fuori, ma nel mio interno,
ed è un prodotto moderno
come l'elettricità:
è come un tarlo che roda
addentro, senza mai posa,
ed era in addietro una posa
ormai passata di moda.
Oh come darei le parole
inutili e l'opere vane
dell'uomo, per essere un cane
che dorma placido al sole!
Per esser la foglia o l'insetto
o l'albero o il gufo o il leone,
per non aver la ragione,
per non aver l'intelletto,
per essere (questo conforto
concedi, o Natura, a chi è stanco
già troppo), per esser pur anco
un uomo, ma essere morto!





 
"Alcuni desideri" è il titolo del nono paragrafo del poemetto "Un giorno" di Carlo Vallini (1885-1920). L'opera fu pubblicata nel 1907 ed è considerata la migliore di Vallini. Si tratta di versi ineguali strutturati in paragrafi, similmente a quelli di un altro celebre poemetto: "Laus vitae" di Gabriele D'Annunzio; molto diversi sono però gli argomenti trattati, visto che nell'opera del poeta pescarese si parla di esperienze esaltanti e di azioni eroiche, mentre in quella del Vallini si medita sulla vita e sulla morte in modi che, per certi versi, ricordano il buddismo. Ma poi prevale nettamente l'animo crepuscolare dell'autore, come si può evincere anche dai versi di cui sopra, così pieni di modestia, così permeati di pensieri semplici, vuoti di ambizioni e di eroismi. La parabola poetica di Carlo Vallini fu intensa e pur brevissima, si svolse tutta nel 1907, quando il poeta milanese diede alle stampe le sue uniche opere in versi: "La rinunzia" e "Un giorno"; breve fu anche la sua vita, infatti Vallini morì a soli trentacinque anni per le gravi ferite riportate nella Grande Guerra. La foto che segue il testo poetico è tratta dall'antologia "Poesia italiana del Novecento", a cura di Edoardo Sanguineti, Einaudi, Torino 1969.