domenica 20 ottobre 2024

Tre poesie di Gabriele Briganti

 Gabriele Briganti (Ripafratta 1874 - Lucca 1945) non pubblicò mai raccolte di versi; svolse per tutta la vita l'attività di bibliotecario, limitandosi saltuariamente a dare alle stampe alcuni suoi studi su Giovanni Pascoli. A proposito del poeta romagnolo, nel 1901 fece uscire un opuscolo con la famosa poesia Il gelsomino notturno, proprio per le nozze dell'amico Briganti. Ma ciò che in questo post voglio mettere in risalto, è la segreta e quindi inedita scrittura di versi del bibliotecario toscano, che rimase sempre un appassionato di poesia non soltanto pascoliana. Il primo a fare cenno di tale celata attività fu Pietro Pancrazi, in un saggio a lui dedicato subito dopo la sua scomparsa. Quindi Antonio Baldini, sulle pagine della rivista Fiera Letteraria, pubblicò tredici poesie del Briganti, ritrovate fra le sue carte inedite e familiari. Si tratta solamente di un saggio - come specifica lo stesso Baldini - del corpus poetico di Briganti, che evidentemente deve essere ben più consistente. Da questo saggio ho trascritto tre poesie che attestano, oltre ad una affinità incontestabile con la poesia del Pascoli, una capacità e un talento poetico che fanno del Briganti un vero e originale poeta. Fu quasi certamente l'eccessiva timidezza (peculiarità caratteriale che lo avvicinava una volta di più a Giovanni Pascoli) ad impedire al bibliotecario toscano di trovare il coraggio per proporre ad un editore i suoi ottimi versi; peccato, sarebbe stato interessante poter avere tra le mani un volume di liriche del Briganti, e leggere per intero la sua opera poetica.




Da "TREDICI POESIE DI GABRIELE BRIGANTI"


III.

Fredda estate dei morti, estate mia,

cader di foglie e sogni in un languore

chiaro di sole, e di malinconia

                     chiusa nel cuore.


Fredda estate dei morti: ultima luce

chiara nel cielo; poi, nuvole e pianto,

e poi, per me, la strada che conduce

                     al camposanto.





VII. 

Dolce l'oblio. Poi che tramontan l'ore

de la tua vita, e non un raggio pio

più scalda il gelo del tuo triste cuore,

dolce l'oblio…


Dolce l'oblio di un troppo dolce amore

che ti sorrise, appena, in un addio

tacito e ti lasciò col tuo dolore.


Poiché tutto scolora e tutto muore

e vano è il sogno, ormai, Signore Iddio,

sul mio cammino sbocci, unico fiore,

dolce l'oblio…





X.

Solitudine mia, tu mi trapungi

il seno di sottil malinconia,

da che le illusioni ultime lungi

con la speranza ultima van via.


Solitudine mia, di già la notte,

notte senza stellato e senza aurora,

con le tenebre cala, ininterrotte:

solitudine mia, venuta è l'ora.


Non odi? già la pallida fanciulla,

sorella Morte, il ventilar dell'ala

verso te muove. Attendi un poco e sulla

sua dolce bocca alfin l'anima esala.


(da «Fiera Letteraria», Anno 1, N. 26, 3 Ottobre 1946)


domenica 13 ottobre 2024

"Canto autunnale" di Umberto Bellintani

 Soltanto di recente ho avuto modo di leggere l'unica raccolta poetica di Umberto Bellintani (Gorgo di San Benedetto Po 1914 - San Benedetto Po 1999) che ancora non conoscevo. Ricordo che nel 1998: anno in cui fu pubblicata - insieme ad un'altra che ricapitolava l'intero percorso poetico dello scrittore lombardo - pur sapendo che era uscito, trascurai il volume, pensando che non aggiungesse gran che al resto dell'opera in versi di Bellintani. Ora so per certo che sbagliavo, poiché Canto autunnale (è questo il titolo della raccolta) è uno dei libri di poesie più belli che abbia letto in questi ultimi anni. Qui c'è, di nuovo, il migliore Bellintani: un poeta allo stesso tempo semplice e complicato, dotato di un talento eccezionale ma, purtroppo, non particolarmente prolifico. Sicuramente sarebbe il caso, dopo ben venticinque anni dalla sua scomparsa, che uscisse un volume con la sua intera opera poetica, comprendente anche un ulteriore libro pubblicato postumo non molti anni fa. Canto autunnale è stato pubblicato a Verona, da Perosini Editore; contiene in tutto 45 poesie, divise in quattro sezioni senza titolo, ognuna preceduta da una citazione di poeti o di scrittori famosi. Molto bella è anche la prefazione alla raccolta, scritta dal poeta Italo Bosetto. Ovviamente consiglio a chiunque di reperire e di leggere per intero questo assai prezioso volumetto di 88 pagine che è, in sostanza, una vera e propria "perla" di poesia. Ecco, infine, tre poesie che ho trascritto da Canto autunnale.





NULLA POTRAI


Qui tu cerchi un barlume di luce, una certezza

che in sé contenga tutta l'immensità.


Tu vuoi fermarti così, a metà del tuo cammino

e il duro nodo disbrogliare della storia.


Nulla potrai nemmeno in capo al giorno:

un uomo è appena una goccia d'universo


che dentro il cuore della vita si consuma.


Quietati dunque. Già sai che la speranza

or non ti resta a dar senso al tuo dolore.


(da "Canto autunnale", Perosini, Verona 1998, p. 27)





CONTINUARE


Bisogna continuare a credere nella poesia,

bisogna continuare a vivere di poesia,

a vivere la vita.

Bisogna uscire dalla folla,

credere ancora in Dio, tornare fanciulli nel cuore,

tornare alla contemplazione dei fiori,

della luna, delle piccole e grandi cose.

Lasciamoli agli altri gli stadi

le macchine le fabbriche le adunate sulle piazze

dove s'infolla l'essere e muore.


Se uccidi un grillo, quale strada

può accogliere il tuo piede, quale cielo

il tuo occhio?

Quale cavallo la tua mano, quale fiore

il tuo sorriso?


Tutto è così difficile, impossibile... Ma chissà.

È nel mistero il clamore bianco della gioia.


(da "Canto autunnale", Perosini, Verona 1998, p. 36)





È DIO


Semplice:

quando vedi qualcosa di bello

di più bello o di meno bello

è Dio che vedi

sempre Dio


perché Dio è la terra

il sole e le stelle

è la mattina la sera e la notte.

La vita la morte e la resurrezione

sono sempre Dio.


(da "Canto autunnale", Perosini, Verona 1998, p. 63)



domenica 6 ottobre 2024

La poesia di Adolfo Jenni

 Adolfo Jenni nacque a Modena nel 1911 e morì a Berna nel 1997. Stabilitosi a Parma con la famiglia (suo padre era svizzero tedesco e sua madre modenese), ivi frequentò il liceo per poi iscriversi all’Università di Bologna, dove nel 1935 si laureò in Lettere. L’anno successivo emigrò in Svizzera, avendo preferito la nazionalità elvetica a quella italiana, avendo trovato enormi difficoltà a lavorare stabilmente nella nazione di nascita. A Berna divenne insegnante, e nella capitale svizzera completò la sua carriera lavorativa durata quarant’anni. Jenni, letterariamente parlando, rimase sempre italiano, preferendo in modo assoluto la nostra lingua a quella tedesca – ovvero del Cantone nel quale risiedeva e lavorava –. Ebbe fortuna come prosatore e saggista, meno come poeta; eppure, secondo me, la sua opera in versi, del tutto particolare e direi unica nel panorama letterario italiano del XX secolo, possiede delle qualità indubbie. Lo Jenni, dopo aver ripudiato le sue prime raccolte risalenti agli anni ’30 del Novecento, andò via via raffinando e precisando il suo fare poetico, caratterizzato da strutture assai differenti, che vanno dalle forme chiuse ai versi liberi; dai recitativi (è questo anche un titolo di un suo volume) alle prose poetiche. La poesia, praticamente, rimase sempre centrale negli interessi e nelle preferenze dello scrittore italo-elvetico, tant’è che le sue raccolte (la prima è del 1943 e l’ultima del 1992) attraversano un arco temporale vastissimo, che sfiora i cinquant’anni. In conclusione riporto l’elenco delle opere poetiche di Jenni, comprese quelle ripudiate, a cui seguono tre bellissime poesie che già da sole rendono l’idea del talento di questo scrittore ingiustamente trascurato.

 

 

 

Opere poetiche

 

"Le notti e i giorni", Istituto Editoriale Ticinese, Bellinzona 1937.

"Foglie", Istituto Editoriale Ticinese, Bellinzona 1938.

"Le bandiere di carta", Collana di Lugano, Lugano 1943.

"Addio alla poesia", Guanda, Parma 1959.

"Recitativi", Pantarei, Lugano 1971.

"Le occorrenze recitate", Pantarei, Lugano 1976.

"Ricapitolazione", Pantarei, Lugano 1980.

"Poesie e quasi poesie", Casagrande, Bellinzona 1987.

"Mia cara giardiniera", Casagrande, Bellinzona 1992.

 

 



 

 

Testi

 

 

 PRIMASERA

 

  La bambina magra e selvaggia rincorre la sua palla rossa che le è sfuggita per incontrare la sera. Infatti, alla prima ombra dove rotola, diviene ormai grigia. La luce elettrica dell'unico negozio di fiorista, nel sobborgo dignitoso e povero, è di un rosa goloso. I petali si colorano a caramelle vitree, e le foglie grasse e puntute si metamorfosano a lance di stagnola ramarro, lamiera verniciata.

  È quell'ora fuggitiva di prima sera, che pare sempre autunno, un autunno sereno, appena fresco, fatto soprattutto d'aria, così stinto com'è.

 

(da "Le bandiere di carta", Collana di Lugano, Lugano 1943 p. 31)

 

 

 

 

 

ORCHESTRA IN DICEMBRE

 

  La grande orchestra esalava

gli affreschi di angeli e rose

l'andante in sordina

della Sinfonia opus 9 numero 2

in mi bemolle maggiore di Bach,

e il signore dagli occhi celesti

pensava alla sua età più giovane,

alle occasioni perdute.

  Mentre poi si effondeva

il Concerto per violoncello e archi

(Largo, Allegro, Lento alla siciliana,

Allegretto) di Antonio Vivaldi,

rivide con lancinante

nostalgia la giovane donna

che anni prima aveva più amata,

ora morta, ora più niente.

  E quando infine,

dopo il più lungo intervallo,

la stessa orchestra scandiva

la Simple Symphonie

di Benjamin Britten

(Boisterous Bourrée,

Playful Pizzicato,

Sentimental Saraband,

Frolicsome Finale),

capì davvero, sentiva,

di avere sciupato da sempre

la sua vita, per sempre.

  Ma dopo il concerto,

uscito a rivedere le stelle

(le stelle gremite, nel cielo

di quel dicembre sereno),

per l'eco nell'animo dei suoni

combinato col palpito arcano,

angoscioso nell'infinto, degli astri,

si ricordò la gente,

fuori da lui:

con le altre pene di anima e corpo

i travagli di classe e di miseria

che aspettavano, e bisognava risolverli.

  E la storia del suo io,

in ultimi giorni dell'anno

finalmente moderni,

prese proporzioni più miti.

Se quei princìpi si fossero incarnati,

a riudire le stesse musiche

le avrebbe trovate, in buon ordine, trionfali.

Da mattina di Capodanno.

 

(da "Le Occorrenze recitate", Pantarei, Lugano 1976, pp. 41-42)

 

 

 

 

QUANDO NON SEI PIÙ GIOVANE

 

Quando non sei più giovane, ogni calare del pomeriggio in sera è per l'animo, anche se non lo pensa la mente, il simbolo del deperire e morire: di tutto, di te.

 

Ogni giorno così, per quanti anni, passati, futuri.

 

E in quella figurazione ci vivi, ben dentro. Nido fondo e ruvido.

 

Il lento spettacolo t'invade da ogni parte: quel mutare del clima, il colore nuovo dell'aria,

 

come se ogni giorno si succedessero due stagioni.

 

A lungo andare è una vicenda che ti sfibra, subdola.

 

Si ripete a distanza troppo breve.

 

Migliaia di volte. E con una regolarità che puoi prevedere, fino all'alba.

 

Ogni sera ti spegni anche tu come una fiaccola consunta.

 

M., 16.2.72.

 

(da "Mia cara giardiniera", Casagrande, Bellinzona 1992, p. 37)

 

domenica 29 settembre 2024

Il grande amico

 

È qui l'amico a cui diedi

metà della mia anima.

Conserva le mie lettere

di ragazzo dentro un cofanetto.

Mimì non si è mosso

da cinquant'anni, sfascia

le sedie, le botti, rilegge

gli stessi libri.

Gli vado incontro

ma passa oltre,

deve pensare che io sia morto.

 

 

 

COMMENTO

Ecco una delle tante poesie di Leonardo Sinisgalli (Montemurro 1908 - Roma 1981) in cui si parla di amici. Questa si trova alla pagina 16 della penultima raccolta di versi del poeta lucano: Mosche in bottiglia, edita dalla Mondadori di Milano nel 1975. Fa parte della prima sezione senza titolo del medesimo volume. Il tema, come detto, è uno dei più trattati da Sinisgalli, a partire già dalle prime raccolte giovanili; in questo caso il poeta, che troppo presto dovette abbandonare la sua terra natale, torna nei luoghi cari dove nacque e trascorse il periodo più felice della sua esistenza; qui incontra un caro vecchio amico, a cui è legato da un rapporto epistolare avuto in gioventù (sa che lui possiede ancora le lettere speditegli molti anni or sono); questo amico ha deciso di non lasciare la terra natale, pur sopravvivendo con lavori umili e saltuari. Come Sinisgalli ama la lettura, anche se non ha allargato più di tanto i suoi orizzonti letterari. Il poeta decide di fargli visita, quindi lo vede in lontananza e gli va incontro, ma il vecchio amico, dato che è passato tanto tempo dall'ultimo giorno in cui si sono visti, non lo riconosce, o forse pensa che non può essere lui ritenendolo morto, e perciò lo supera senza rivolgergli nemmeno il saluto. L'ultima parte della breve poesia potrebbe nascondere qualcosa d'inespresso: la delusione, da parte del vecchio amico, per i troppi anni di lontananza e forse per l'interruzione totale del rapporto d'amicizia che nel frattempo si è venuta a creare; se così fosse, la scelta di quest'ultimo, d'ignorare la presenza del poeta, sarebbe dovuta ad una sorta di risentimento e di grande delusione che prova nei suoi confronti.



Leonardo Sinisgalli nel 1938
(da questa pagina web)


domenica 22 settembre 2024

Il silenzio in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 C'è chi lo ama e chi lo detesta, chi lo desidera e chi lo teme: il silenzio, a causa di differenti situazioni esistenziali o, più semplicemente, per questioni di mere preferenze personali, non risulta piacevole a tutti gli esseri umani. Come è facile intuire, la totale mancanza di voci o di rumori può causare, in alcuni individui, una sorta di ansia (se non di angoscia); tanto più se tale silenzio perdura in presenza di altre persone che, per scelta, decidono di tacere. Ma quante anime, che vivono tutti i loro giorni nelle chiassosissime città moderne, desidererebbero vivere, almeno per un po' di tempo, in luoghi in cui domina il silenzio? Personalmente ritengo il silenzio come qualcosa di estremamente opportuno in determinati casi; mentre in altri (soprattutto quelli in cui la noia la fa da padrone) mi risulta per lo meno spiacevole. Ma di quali silenzi si parla nelle dieci poesie che ho trascritto in questo post? C'è il silenzio di chi ha paura, perché si trova in una situazione di pericolo a causa di una guerra devastante. C'è il silenzio di chi non riesce a parlare, perché gli è appena accaduto qualcosa di estremamente grave, e non può fare altro che rimanere attonito, quasi incredulo, a meditare sul disastro. C'è il silenzio di chi è innamorato, e di fronte agli occhi di una ragazza rimane muto, bloccato a causa della fortissima emozione che lo sovrasta. C'è il silenzio della felicità condivisa, quel silenzio che viene da sé, perché quando si è tanto felici non c'è alcun motivo di aprire la bocca e parlare. C'è il silenzio della solitudine di un uomo che, pensieroso, cammina col suo cane, e che all'improvviso ha la strana sensazione di essere l'unico uomo rimasto sulla terra, percependo il suo stato di solitudine come qualcosa di irrimediabile, di definitivo. E ancora la solitudine, unita alle tante ingiustizie subite, rendono un altro uomo muto, incapace di pronunciare qualsiasi parola a causa della iniquità patita lungo la sua esistenza, che ora è divenuta qualcosa simile ad un "mostruoso incubo", terrorizzante a tal punto da costringere l'uomo all'assoluto silenzio. C'è infine il silenzio dei morti: quelli che ci erano più cari, e che ci capita di ricordare spesso, perché noi amavamo loro, e loro amavano noi; è questo il silenzio più duro da sopportare, perché siamo ben consci del fatto che quelle persone così importanti per noi, non ritorneranno più, e se provassimo a chiamarle per nome, non risponderebbero; il loro silenzio è il nostro dolore più intenso, e non possiamo attenuarlo, tanto meno farlo passare.




IL SILENZIO IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO



FIORE DEL SILENZIO

di Gaetano Arcangeli (1910-1970)


I silenzi più fondi

li ascoltai tra un passaggio

e l’altro di aerei

(e la luce del giorno

non era più che una vibrazione

dello spasimo muto delle sorti);

quando voci infantili

accennanti al pericolo,

scendenti in tumulto da altane,

lasciavano, spegnendosi, deserta

l’attonita periferia...

Poi, nell’ingorgo tetro del rifugio,

portavo quell’immagine

di fiore del silenzio

a odorare segreta in mezzo all’ansia.


[da "Solo se ombra (1941-1953)", Scheiwiller, Milano 1995, p. 29]





SILENZIO D'AMORE

di Arnaldo Beccaria (1904-1972)


Le parole d'amore che, compiute,

vorrei dirti, e ordinate

in un fluido discorso,

si rapprendono invece

in grumi di silenzio

dentro di me, se gli occhi miei s'incontrano

con i verdi tuoi occhi e il tuo sorriso.

E come quella luce 

che sulle foglie brulica

dell'alberello

che si scapriccia al vento,

così l'anima mia trema e si frange.


(da "sull'orlo del cratere", Mondadori, Milano 1966, p. 172)





SILENZIO

di Vittorio Bodini (1914-1970)


Era un silenzio

calzato di sandali verdi

e con la fronte d'un soldato antico

(quegli oscuri soldati

dal cui labbro, nell'urto delle schiere,

escono inaspettate

parole d'una semplice grandezza).


(da "Tutte le poesie", BESA Editrice, Lecce 1997, p. 117)





SILENZIO ORANTE

di Olinto Dini (1873-1951)


Vado per alpi, e s'incupisce l'aria.

Spontaneo licenzio

da me un roseo lieto immaginare,

e il cuore mi si nega

ad altro che non sia sacro mistero.

M'è augusto ogni pensiero.

Par tempio questa valle solitaria,

e l'alpi paiono are

solenni d'un silenzio

che prega.


(da "Poesie", Edizioni d'Arte Rassegna, Bergamo 1971, p. 147)





SILENZIO 

di Luca Ghiselli (Cesare Ghiselli, 1910-1939)


Silenzio, 

su tutta la veglia silenzio.

Smessa la passione, spento il fuoco,

chiediamo perdono a noi stessi.

Così, dopo il terremoto,

la gente provata si siede sulla strada

fra le rovine, a dormire per espellere

l'ultimo brano d'angoscia.


Più tardi verrà la malinconia.


                                                          (V., 31-834)


(da "Prose e versi", Pananti, Firenze 1985, p. 354)





CADEVA LA SERA VERSO CASA

di Angiolo Silvio Novaro (1866-1938)


Cadeva la sera verso casa

Ci affrettavamo.

Stanco era il cane, e tu fanciullo

Lo tenevi al guinzaglio.

Muta la mamma,

Muti noi due,

Allungavamo il passo.

Perché avremmo dovuto

Parlare?

Eravamo così felici!


Guardavamo il mare

Trascorso da soffi

Terreni di vento,

Dipinto a riflessi

Di tramonto ultimi rosa,

Aspiravamo l'odore

Del timo.

Perché avremmo dovuto

Parlare?

Eravamo così felici!


Pregustavamo la casa

Musicale,

La mensa illuminata,

L'amico tepore,

La sacra intimità,

Le armonie

Di nuovi amorevoli gaudiosi sensi.

Perché avremmo dovuto

Parlare?

Eravamo così felici!


E non era che un sogno!


(da "Tempietto", Mondadori, Milano 1939, pp. 46-47)





IL SILENZIO DEGLI SCHIAVI

di Salvatore Quasimodo (1901-1968)


Notte, o calice azzurro di musica,

fiori portiamo ai tuoi altari di cenere,

or che le lampade d'oro

alle porte dei tempî sono accese.


Con diverse cadenze,

diciamo ciò che, in natura, è la stessa cosa;

ma sul cammino, la luce era del sole,

l'acqua che addormentò la nostra sete

era fiore di roccia sempre fresco,

e l'acqua, come il sole, era la stessa.


Dacci silenzio pei nostri divini convegni;

lo schiavo che, nella casa lontana,

lasciò l'ultimo sogno come un fuoco acceso,

sa anche pregare, sorella buona

che chiudi gli occhi ai fanciulli

ne l'ora che chiudi le rose.


(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1995, p. 475)





SILENZIO

di Umberto Saba (Umberto Poli, 1883-1957)


Camminavo, pensavo, muto, con gli occhi bassi.

  Erano senza meta quei pensieri e quei passi.

  Precedeva il mio cane.

Io lo seguivo, ignaro. Questa volta era il cane

  che conduceva l'uomo, erano l'orme umane

  dopo, prima le sue;

vedevano i ferini occhi per ambedue

  le forre della strada.


Dove fu questo? Quando? Come la mente invasa

  fu da quello stupore di sonno? Ancora questo

  so: all'improvviso desto

mi ritrovai fra i muri di tacito sentiero.

  Sopra era piombo il cielo, e m'agghiacciò un pensiero

  strano: tanto profondo

udii intorno il silenzio, senza voci lontane,

  che mi parve di essere solo, con il mio cane

  solo nel tetro mondo.


(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1994, p. 743)





IL SILENZIO

di Giorgio Vigolo (1894-1983)


Sopra l'immenso muro di granito

non puoi graffiare il minimo segno,

così sul buco della solitudine

è vano sogno incidere parole.


E come nell'immensa arida rupe

l'acqua è dimenticata nel profondo,

così dal masso del lungo dolore

indurito da anni nel silenzio


nessun miracolo desta una fonte.

Tutti i monti stanno sopra il mio petto

e sul mio cuore il peso dell'offesa;


l'iniquità che patì la mia vita

come mostruoso incubo mi schiaccia,

mi respinge nel cuore le parole.


(da "La luce ricorda", Mondadori, Milano 1967, pp. 287-288)





SILENZIO

di Giuseppe Villaroel (1889-1965)


Padre, le sere i lunghi treni a riva

e le stelle sospese alle scogliere,

a risacca di mare. Il vento secco

delle zàgare nuove nei giardini.

Segno di lume alla finestra e il cupo

dorso selvoso del vulcano. Entravi

alto nell'ombra. La cucina nera

schermata dalle fiamme e il volto chino

della mamma. Di voi solo silenzio

ora resiste. Lucida dal mare

la notte cala sui velieri antichi.


(da «La Fiera Letteraria», Anno XI, n. 18, 29 aprile 1956)



Lucien Lévy-Dhurmer, "Le Silence"
(da questa pagina web)


domenica 15 settembre 2024

Riviste: "Lirica"

 Lirica è il titolo di una rivista che nacque a Roma, grazie all'iniziativa di Arturo Onofri, nel gennaio del 1912. La sua vita fu breve (durò soltanto due anni) ma intensa: nelle sue pagine, infatti, trovarono modo di pubblicare interessantissimi versi e prose, alcuni giovani intellettuali vogliosi di rinnovamento; lo stesso fondatore, insieme a Vincenzo Cardarelli, Giuseppe Antonio Borgese, Teofilo Valenti, Aurelio Enrico Saffi, Armando De Santis, Giorgio Vigolo e altri ancora, avevano la precisa intenzione di rompere con gli schemi tradizionali della nostra letteratura ed intraprendere nuove strade, avendo come riferimento alcuni paesi europei (Francia e Germania in primis). L'ultimo numero di Lirica uscì nel dicembre del 1913. Ecco, infine, tre testi poetici molto belli, pubblicati per la prima volta sulla rivista romana.





Da "APPUNTI"

di Aurelio Enrico Saffi (1890-1976)


Oh, dalla terrazza sul mare, le vele piccole e nebbiose di lontananza! - le più lontane vele che tocca lo sguardo.

A l'oriente declina il temporale e il giorno battuto e stanco si adagia in un poco di sole, tenero, arridente, prima che muoia:

da l'oriente escono, vengono nel sole le vele,

verso la terra ferrigna, sfavillante di fuochi al tramonto;

e ciascuna porta cuori solidi e tranquilli;

i marinai contenti di riabbracciare, sotto le prime stelle, le loro donne rassicurate.


(da «Lirica», aprile 1912)





ADDORMENTARSI

di Arturo Onofri (1885-1928)


Vaghe torme d'ombre intorno al letto;

per l'insonnia buia i miei ricordi

nel silenzio fanno a colpi sordi

un rullìo di febbre sul mio petto…

    Siete voi, che in un attimo ho scorte,

    ombre antiche d'amore e di morte?


Non intendo che il rullìo febbrile

annegarsi nel fluir dell'ore;

ma improvviso, in fondo al muto orrore,

scatta il bronzeo cuor d'un campanile:

    campanile che batte in eterno,

    cuore d'angelo, cuore d'inferno.


Ora ascolto: il tempo a mano a mano

goccia al fondo dell'eternità;

senza fine cade, e niuno sa

che l'abisso è il mio mistero umano.

    Campanile, non battere più!

    L'orologio son io, non sei tu.


Una stilla è ogni attimo, che piove

nel padule nero del ricordo,

e, cadendo in un gocciolìo sordo,

lo rincrespa di speranze nuove.

    Ora taci, stillìo secolare!

    Sono stanco del troppo sperare.


In silenzio un roseo velo cala

sui miei occhi, nella notte fissi,

ma nel fondo di fiorenti abissi

mi trasogno allo svolar d'un’ala,

    e quest'ombra di morte mi culla

    nel riposo infinito del nulla…


(da «Lirica», giugno 1912)





HOMO SUM

di Vincenzo Cardarelli (Nazzareno Caldarelli, 1887-1959)


Io pago tutto. 

Non c'è mica un peccato 

che io non abbia, finora, 

debitamente scontato. 

Ho un organismo vitale 

che vuole, contrariamente 

al Diavolo di Goethe, 

vuole il Bene e fa il Male. 

Pensate quale puntualità, 

e che liste di conti da saldare! 

Ai cursori d'Iddio

l'uscio della mia casa è sempre aperto. 

E spesso delle loro intimazioni, 

prevenendole, 

io stesso senz'attenderli mi faccio esecutore. 

Sì che quand'essi giungono, 

ritto sull'uscio, li fermo 

e li rimando dicendo: 

- Amici, sono anch'io 

cursore e complice d'Iddio. 

Che dunque venite a fare 

se il debito è già pagato? -

Qualche teologo in tale

inammissibile complicità

sillogizzando

pone il principio della santità.

Beate le terrestri creature

- vuol dire il teologo -

che non peccano senza martirio,

che accenderanno, per uscirne,

fuochi nella gran selva;

e quivi con essa bruceranno,

olocausto docile a Dio,

senza pensare a fughe di Caino!

Quanto a me volentieri

mi piacerebbe peccare

senza pentimento,

trincare senza scotto,

rompere il fato d'Iddio

con fortunate licenze;

e vi dico in verità

che senza indugio darei,

se pur l'avessi,

a qualche persona proba

che stima d'averla e non l'ha,

l'anima mia di santo,

per un poco d'allegra umanità.

 

(da «Lirica», dicembre 1913)


domenica 8 settembre 2024

I ricordi nella poesia italiana decadente e simbolista

 A volte, questi ricordi che affiorano, hanno le caratteristiche di una favola (Ugo Betti), oppure sono molto vaghi (D’Annunzio, Mastri e Sinadinò); altre volte somigliano a sogni di un “incarnato spirito” (Gianelli). Nella poesia Le memorie, di Tito Marrone, i “morti” ricordi rivivono se qualcuno si prova a suonare un vecchio clavicembalo. Ci sono anche i ricordi tristi (Giorgieri Contri e Marcellusi) che, in alcuni casi, riguardano amori possibili mai realizzatisi. Spesso però, i poeti decadenti e simbolisti italiani si lasciano andare sulla corrente dei ricordi più lontani e più belli, inerenti all’amore e all’infanzia soprattutto; e, insieme al benessere mentale che essi suscitano in loro, emerge una amara consapevolezza che quei tempi felici evocati dalla memoria ancor viva, si sono dissolti per sempre; alcuni, come il Bongioanni, si chiedono il motivo per cui si vadano a cercare dei ricordi meravigliosi ma strazianti, perché alla fin fine non fanno altro che acuire il dolore di chi sa che il passato non può più ritornare; Civinini, invece, pur rievocando con rimpianto le memorie della sua infanzia, si riconsola pensando che, nel presente, in lui ancora esistono dei sogni e delle speranze simili a quelle ormai perdute. Sia Gabriele D’Annunzio che Italo Dalmatico, infine, ipotizzano la possibilità di dimenticare i ricordi di un passato amoroso che gli causa troppa sofferenza.

 

 

Poesie sull’argomento

 

Mario Adobati: "L'inutule ritorno" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).

Diego Angeli: "Quello che è stato" in "La città di Vita" (1896).

Diego Angeli: "San Saba" in "L'Oratorio d'Amore" (1904).

Antonio Beltramelli: "Nostalgie" in "I Canti di Faunus" (1908).

Ugo Betti: "I ricordi" in "Il Re pensieroso" (1922).

Bino Binazzi: "Le nostre Pasque" in "La via della ricchezza" (1919).

Fausto M. Bongioanni: "Via Giulio, di sera" in "Venti poesie" (1924).

Carlo Chiaves: "Ne l'ora de le memorie" in «La Donna», febbraio 1910.

Guelfo Civinini: "Memorie dell'infanzia" in "L'Urna" (1900).

Guelfo Civinini: "Riverenza d'un ricordo veneziano" in "I sentieri e le nuvole" (1911).

Lucio D'Ambra: "Il rondò de i narcisi" in "Le Sottili Pene" (1896).

Italo Dalmatico: "Forse io di te mi scorderò..." in "Juvenilia" (1903).

Gabriele D'Annunzio: "Un ricordo" (3 poesie) in "Poema paradisiaco" (1893).

Giuseppe Del Guasta: "In questi occasi pallidi, sfumati" in «Le Varietà», febbraio 1894.

Francesco Gaeta: "Settimana santa" in "Poesie d'amore" (1920).

Diego Garoglio: "Ricordi e sogni" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).

Giulio Gianelli: "Ricordo di vita anteriore" in "Intimi vangeli" (1908).

Cosimo Giorgieri Contri: "Un'oasi" in "Primavere del desiderio e dell'oblio" (1903).

Cosimo Giorgieri Contri: "Un'ora" in «Nuova Antologia», luglio 1906.

Corrado Govoni: "Natale" in "Le Fiale" (1903).

Giuseppe Lipparini: "Madame Chrysanthème" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).

Enzo Marcellusi: "Ricordo d'un pomeriggio piovoso" in "Il giardino dei supplizi" (1909).

Tito Marrone: "Ricordi la marina" in "Le rime del commiato" (1901).

Tito Marrone: "Le memorie" in "Liriche" (1904).

Fausto Maria Martini: "I giorni" in "Poesie provinciali" (1910).

Pietro Mastri: "Contrasto" in "L'arcobaleno" (1900).

Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: "Sogni d'ottobre" in "Il Libro dei Frammenti" (1895).

Agostino john Sinadinò: "Lied delle atonie" in "Melodie" (1900).

Alberto Sormani: "Ultima passeggiata" in «Cronaca d'Arte», aprile 1892.

Giovanni Tecchio: "Aurora" in "Mysterium" (1894).

Diego Valeri: "Dove fu? quando?..." in "Umana" (1916).

Giuseppe Villaroel: "Veglia" e "Le cose morte che tornano" in "La tavolozza e l'oboe" (1918).

 

 

 

Testi

 

 

QUELLO CHE È STATO

di Diego Angeli (1869-1937)

 

O memorie lontane come in bianche

stanze deserte e non aperte mai,

stanze chiuse ove il sol filtra dai fori

delle finestre. O mie memorie stanche,

laghi pieni di gigli ove già mai

nessuna man recise i bianchi fiori!

 

Il était un petit navire: oh vana

cantilena che i miei sonni cullava

aprendo agli occhi miraggi profondi:

navigli in rotta verso una lontana

isola, in mezzo ai flutti, ove raggiava

un sole ignoto, sopra ignoti mondi.

 

Memorie della Bella che a traverso

il bosco d'elci addussi in mia vittoria

mentre i merli fischiavano tra i rami,

della Bella cui pur ridea nel verso

l'illusione di futura gloria

e dolce cedeva ai miei richiami.

 

Memorie delle prime lotte quando

alzavo il capo in vano alla conquista

ultima, d'ogni più superba cima

e non vedevo il sangue che balzando

fuor dalle piaghe mi rendea la trista

battaglia inane, di quella ora prima.

 

O memorie, deserto ove già sono

le tombe delle cose che avverranno

e che saranno, come un tempo fu,

deserto immenso ove non giunge il suono

di voce umana e dove a schiera vanno

tutti i pensieri che non tornan più!

 

(da "La Città di Vita", Premiata Tip. dell'Umbria, Spoleto 1896, pp. 8-9)

 

 

 

 

RICORDI LA MARINA

di Tito Marrone (1882-1967)

 

Ricordi la marina

solitaria, quel giorno,

co' i brulli alberi a torno

umidi di pruina?

 

Ci rivolgemmo al sole

igneo su Favignana.

Due barche lente e sole

solcavan la fiumana

d'oro su l'acqua piana,

a 'l vespro novembrale.

L'anima autunnale

fu de 'l loco regina.

 

Arse l'estremo cielo

nel chiarore vermiglio.

La luna (parve un giglio

tenero su lo stelo,

 

un arco senza telo

apparso a l'orizzonte)

con la pallida fronte

vegliava la marina.

 

(da "Antologia poetica", Guida, Napoli 1974, p. 68)

 

Fernand Khnopff, "Memories"
(da questo sito web)