Augusto Cardile nacque a Taranto nel 1909. Ben presto dovette affrontare con coraggio alcune situazioni drammatiche che coinvolsero la sua famiglia. Stabilitosi a Firenze, nel capoluogo toscano sembrò trovare una tranquillità che in vero durò poco, visto che nel 1937 decise di togliersi la vita. I suoi versi, mai pubblicati in volume, uscirono nella rivista "Letteratura" nel 1938, arricchiti da una struggente testimonianza del critico Oreste Macrì.
Di seguito si possono leggere due brevi composizioni in versi che ben testimoniano tutta la sofferenza interiore vissuta da questo sfortunato poeta.
NON FUI
Non fui,
malinconia dei lunghi anni trascorsi
in questa casa solitaria:
né sorriso cercai
né dolcezza.
Mi parve buona ebbrezza
quella dei morti libri.
(Dalla rivista «Letteratura», ottobre, 1938)
* * *
IDDIO CHE VEDI...
Iddio che vedi, non posso più andare
ho nell'anima un male profondo
come gorgo senza fine
e se porgessi a te il mio cuore
piegare la mia mano vedresti
sotto il peso.
Non posso camminare
e nella notte
sotto fili di stelle
m'accascerò per sempre.
(Dalla rivista «Letteratura», ottobre, 1938)
Scampoli di letteratura dell'Ottocento e del Novecento, poeti dimenticati, vecchie antologie e altro ancora.
domenica 24 aprile 2016
Poeti dimenticati: Armando Perotti
Nacque a Bari nel
1865 e morì a Cassano delle Murge nel 1924. Figlio di un militare e di una
giornalista, dopo la maturità classica frequentò per un breve periodo
l'Università di Roma per poi trasferirsi, sempre per brevi periodi, in varie
località italiane; a Perugia si laureò in giurisprudenza e, dopo qualche altro
spostamento, tornò finalmente nella regione natale stabilendosi a Bari; qui
cominciò a collaborare assiduamente con giornali e riviste locali, pubblicando
articoli che avevano come argomento portante la tradizione della terra
pugliese. Pubblicò libri di poesie e di prose (tra questi ultimi si ricorda Bari vecchia del 1908).
Fu un poeta
prevalentemente carducciano, anche se non mancano nei suoi versi riferimenti
riconducibili al Pascoli e al D'Annunzio. Fu, in sostanza, un cantore della sua
terra e, soprattutto, del suo mare, visto che i paesaggi marini ritornano
spesso nelle sue liriche migliori.
Opere poetiche
"Sul Trasimeno:
15 sonetti", Vecchi, Trani 1887.
"Il libro dei
canti", Vecchi, Trani 1890.
"Castro: terze
rime", Tip. Alighieri, Bari 1904.
"Da Le Nereidi:
nuovi canti del mare", Vecchi e C., Trani 1907.
"Poesie", Laterza,
Bari 1926.
Presenze in antologie
"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (pp. 323-324).
Testi
SPIAGGIA ADRIATICA
Venti casette
bianche, addormentate
nel meriggio
d'agosto: il mar le culla,
e veglia intorno la
scogliera brulla,
arsa dallo scirocco e
dalla state.
Due povere vecchiette
accovacciate
rattoppano le reti; una
fanciulla,
come può meglio,
canta e si trastulla
fra le mobili dune
arroventate.
Viene dal largo
intanto una paranza
spinta a forza di
remi, e via sull'onde
echeggia una canzon
marinaresca;
una canzon che parla
di speranza,
di mari ignoti, di
lontane sponde,
di donne belle e
d'amore e di pesca.
(Da "Il libro
dei canti")
IL CADUTO È UN
FANCIULLO...
Il caduto è un
fanciullo, un giovinetto,
prole d'ignoti. Niun
lo piangerà,
fuori del can, con
cui spartiva il letto.
Tenne dal mare la
maternità:
dalle calate l'han
raccolto a un bordo;
era destino: donde
venne va.
Piombando urlò nel
labile ricordo:
Mamma! Poi vide il
legno che fuggiva,
sentì la bocca del
gran mostro ingordo
sugger muggendo la
sua carne viva;
s'abbandonò, mancò
pria che morisse.
E galleggiava
sull'acqua nativa.
Un salvagente a lato
gli s'affisse:
oh le sembianze
pallide e leggiadre!
Oh, decoro infantil,
chiome prolisse
che non sapeste mai
bacio di madre!
(Da
"Poesie")
domenica 17 aprile 2016
I giardini, i parchi e gli orti nella poesia italiana decadente e simbolista
Il parco, il giardino
e l'orto sono tra i luoghi più citati e amati dai poeti simbolisti, decadenti,
crepuscolari e liberty. Si possono rintracciare infatti una enorme quantità di
versi dedicatigli. Questi luoghi hanno spesso delle caratteristiche comuni:
sono in abbandono, deserti; nel loro interno si possono incontrare statue e
fontane (anch'esse in stato di degrado e di incuria); in genere la stagione è
quella autunnale, il che comporta una copiosa caduta di foglie dagli alberi e
un tempo tra il grigio ed il piovoso, sì da rendere tali luoghi ancor più
tristi e squallidi. Molti critici, a tal proposito, hanno paragonato i
giardini-parchi-orti ad una sorta di rifugio dell'anima; in quei posti così
appartati, quasi segreti, è infatti possibile per i nostri poeti creare
immagini nate dai sogni, dalle nostalgie di un passato che ormai non c'è più,
da intimi desideri impossibili a realizzarsi. Insomma sono questi i territori
dove c'è l'opportunità di isolarsi aristocraticamente e vivere in un mondo al
di fuori del mondo. La desolazione che presentano, oltre ad esternare uno stato
di profonda demoralizzazione, dimostra la consapevolezza di essere in uno
stato di esclusione, di emarginazione se non di totale separazione; e ciò va
riferito anche alle loro aspirazioni: semplici, modeste, quasi insignificanti,
eppure impossibili, non realizzabili. Naturalmente, questo discorso vale
soprattutto per i poeti che gravitano intorno al crepuscolarismo; se si vuole
invece allargare la prospettiva, si notano differenti elementi, a volte legati
al mistero e alla favola, altre volte all'eros ed alla psiche. Più raramente (e
mi riferisco alle poesie di Palazzeschi) in questi delimitati spazi si osserva
la presenza di situazioni, forme ed entità assai inquietanti: frutti
avvelenati, muffe, fanghiglie, figure ombrose e misteriose che si aggirano
all'interno ecc. Per spiegare tal contesto bisogna risalire ad uno dei romanzi
decadenti per eccellenza: A ritroso di Joris-Karl Huysmans, dove si
ricorderanno le mostruose piante amate dal protagonista del romanzo, il quale
le fa arrivare dai luoghi più reconditi perché possano rendere il suo giardino
unico ed orrido nello stesso tempo.
Poesie sull'argomento
Diego Angeli:
"Il parco" e "Orto botanico" in "La Città di
Vita" (1896).
Diego Angeli:
"In un giardino di sera" in "L'Oratorio d'Amore. 1893-1903"
(1904).
Antonio Beltramelli:
"Il giardino del dolore" in "I Canti di Faunus" (1908).
Dino Campana:
"Giardino autunnale" in "Canti Orfici" (1914).
Francesco Cazzamini
Mussi: "Nel giardino dell'osteria «La Vita»" in "Le allee
solitarie" (1920).
Giovanni Alfredo
Cesareo: "Flamma ardescens" in "Poesie" (1912).
Carlo Chiaves:
"Nel giardino del cuore" in "Tutte le poesie edite e
inedite" (1971).
Sergio Corazzini:
"Giardini" in "Dolcezze" (1904).
Gabriele D'Annunzio:
"Hortus conclusus" e "Hortus larvarum" in "Poema
paradisiaco" (1893).
Alfredo Galletti:
"Il giardino obliato" in "Odi ed elegie" (1903).
Luisa Giaconi:
"L'Orto" in «L'Idea Liberale», aprile 1895.
Luisa Giaconi:
"Il giardino chiuso" in «Il Marzocco», luglio 1897.
Luisa Giaconi:
"Orto antico" in «Il Marzocco», settembre 1897.
Cosimo Giorgieri
Contri: "Il vecchio giardino" in "Il convegno dei cipressi"
(1895).
Cosimo Giorgieri
Contri: "Giardino delle rosine" in "La donna del velo"
(1905).
Emilio Girardini:
"Giardino abbandonato" e "Il parco" in "Chordae
cordis" (1920).
Corrado Govoni:
"Giardini chiusi" in "Le fiale" (1903).
Corrado Govoni:
"Il giardino dell'anima" in "Gli aborti" (1907).
Corrado Govoni:
"Giardino antico" in "Poesie elettriche" (1911).
Luigi Gualdo:
"Nel parco" in Le nostalgie" (1883).
Amalia
Guglielminetti: "Vecchio parco" e "Il giardino segreto" in
"Le Seduzioni" (1909).
Marco Lessona:
"In giardino" e "Nel parco" in "Ritmi" (1902).
Marco Lessona:
"Il giardino" in "Versi liberi" (1920).
Giuseppe Lipparini:
"Il giardino" in "Lo specchio delle rose" (1898).
Nicola Marchese:
"Orto claustrale" e "Villa Pamphily" in "Le
Liriche" (1911).
Tito Marrone: "Desolazione"
in "Cesellature" (1899).
Tito Marrone:
"Corinna" in "Liriche" (1904).
Fausto Maria Martini:
"Il giardino di Psyche" in "Panem nostrum" (1907).
Pietro Mastri:
"Il giardino dei felici" in "La meridiana" (1920).
Marino Moretti:
"Hortus incultus" e "Angolo d'hortulus" in "Poesie
scritte col lapis" (1910).
Marino Moretti:
"Il giardino della stazione" in "Poesie 1905-1914" (1919).
Ada Negri: "Il
giardino dell'Adolescente" in "Dal profondo" (1910).
Aldo Palazzeschi:
"Parco umido" in "Lanterna" (1907).
Giovanni Pascoli:
"Nel giardino" in "Myricae" (1900).
Francesco ed Emilio
Scaglione: "Orto chiuso" in "Limen" (1910).
Emanuele Sella:
"Il giardino delle stelle" in "Il giardino delle stelle"
(1907).
Giovanni Tecchio:
"Il giardino" in "Canti" (1931).
Domenico Tumiati:
"Il rosaio" in "Liriche" (1937).
Carlo Vallini:
"Sola nel parco, a vespero.." in "La rinunzia" (1907).
Mario Venditti,
"L'amplesso" in "Il terzetto" (1911).
Giuseppe Villaroel:
"Giardino pubblico" in "La tavolozza e l'oboe" (1918).
Remigio Zena:
"Nell'orticello della mia coscienza" in "Le pellegrine"
(1894).
Testi
UN GIARDINO
ABBANDONATO
di Enrico Nencioni
Grigio-giallastro, di
lunghe striscie,
Di larghe macchie
d'umido, sordido,
Tutt'orlato di folte
gramigne,
Di selvatici fiori,
di musco;
Alto, remoto d'ogni
frequente
Strada, ermo, tacito,
inaccessibile
Qual di rigido
chiostro ove chiude
Il Carmelo sue sacre
colombe,
È il vecchio muro.
Largo cancello
A cui sormonta l'arme
Medicea,
Colle palle di pietra
consunte
E verdastre dal musco
di secoli.
Di punte armato, sui
ferrei cardini
Aspro-girante, rosso
di ruggine,
Apre il varco a un
antico giardino,
A un antico vial
fiancheggiato
Da verde-cupi alti
cipressi,
Che, come lunghi diti
di scheletri,
Sopra il cielo
d'autunno disegnano
Le lor file monotone
e triste.
Vecchi sedili di
pietra appaiono
Fra pianta e pianta.
Laggiù nel fondo
È una vasca con acqua
stagnante
Dove foglie
ingiallite galleggiano
Fitte, ed i morti
rami s' affollano
Presso le sponde.
Tremante Naiade
Su dal mezzo si leva
marmorea,
Obliato l'antico
zampillo
Che un dì slanciavasi
alto, e l'antico
Murmure, e i vispi
pesci dorati
Che guizzavan fra
l'acque purissime,
Sorridendo i
fanciulli alla sponda.
Oh! come in folla
tornano, accorrono,
E il petto m'agitan
care memorie!
Qui mia madre, allor
giovine donna,
Conducevami spesso
fanciullo.
Su quel muscoso banco
la vedo
Lunghe ore assisa col
suo ricamo,
Mentr'io lieto
gridando, correndo,
A lei porto le colte
viole.
Sovra il pensoso
magro tuo viso
Rideva, o madre, il
sol di maggio;
Ti cantavan sul capo
gli uccelli,
Ridea l'erba stellata
di fiori.
Ed ora, o madre, di
qualche argentea
Riga ho il crin
sparso: tu sottoterra
Sei distesa recente
cadavere,
Nè un tuo bacio più
asciuga il mio pianto.
Poi, quando i primi
rosei fantasimi
Al guardo attonito
risero, e l' anima
sentì il verso de'
grandi poeti,
Senti il palpito
primo d'amore;
Là sotto, pullulati
tra 'l putridume
Fradicio, rosei
funghi venefici;
Strane forme di
gelidi insetti
Lente strisciano in
quei labirinti.
Dove la giovine erba
spargevasi
Di margherite dal
seno d'oro,
Popolosa famiglia
d'ortiche
Gravi esala miasmi
d'attorno.
Poi quando abbuia
Novembre torbido,
Il pluvioso vento si
leva
Ed aggira le morte
tue foglie
Come l'alme del cerchio
ov'è Dido.
Rossastre, gialle,
grigie, violacee,
Luride, pallide di
pallor etico,
Ei le accumula in
funebri mucchii
Cui cementan la
pioggia e la neve.
Ma quando ai primi
tepidi soli
Di marzo il verde
ramarro scaldasi,
E sull'orme di neve
recente
La pervinca fiorisce
e la mammola;
Nelle prim'ore
pomeridiane,
Ai tuoi viali queti
s'avviano
Malinconici
visitatori
Che sol cercan la
pace e il silenzio.
Convalescenti pallidi
seggono
Un'ora al sole,
taciti, immobili:
Lunghe file di bimbe
precedono
Una Suora dal niveo
cappello.
E a rivederti,
vecchio giardino,
Anch'io ritorno;
torno diverso
Come te da quel
ch'ero, e dai casi
Assai più che dagli
anni, prostrato.
Siam due ruine,
vecchio giardino,
Siam due ruine sacre
alla morte.
Ma se brilla su te
gualche raggio,
E fra i cardi in te
spunta un sol fiore;
Se a me fra i gemiti
dal cuore esala
Un delicato sospir
d'affetto ;
Se un umano pensiero
io rivesto
Di un accento che i
cuori commova;
O malinconico vecchio
giardino,
O vecchio muro,
vecchi viali,
Non morremo
incompianti o esecrati.
Non avrem sempre
indarno vissuto!
(Da
"Poesie")
HORTUS CONCLUSUS
di Gabriele
D'Annunzio
Giardini chiusi,
appena intraveduti,
o contemplati a lungo
pe' cancelli
che mai nessuna mano
al viandante
smarrito aprì come in
un sogno! Muti
giardini, cimiteri
senza avelli,
ove erra forse
qualche spirto amante
dietro l'ombre de'
suoi beni perduti!
Splendon ne la
memoria i paradisi
inaccessi a cui
l'anima inquieta
aspirò con un'ansia
che fu viva
oltre l'ora, oltre
l'ora fuggitiva,
oltre la luce de la
sera estiva
dove i fiori
effondean qualche segreta
virtù da' lor feminei
sorrisi,
e i bei penduli pomi
tra la fronda
puri come la carne
verginale
parean serbare ne la
polpa bionda
sapori non terrestri
a non mortale
bocca, e più bianche
nel silenzio intente
le statue guardavan
la profonda
pace e sognavano
indicibilmente.
Qual mistero dal
gesto d’una grande
statua solitaria in
un giardino
silenzioso al vespero
si spande!
Su i culmini dei
rigidi cipressi,
a cui le rose cingono
ghirlande,
inargentasi il cielo
vespertino;
i fonti occulti
parlano sommessi;
biancheggiano ne
l’ombra i curvi cori
di marmo, ora
deserti, ove s’aduna
il concilio degli
ultimi poeti;
tenue su la messe
alta dei fiori
passa la falce de la
nova luna;
ne l’ombra i fonti
parlano segreti;
rare sgorgan le
stelle, ad una ad una;
un cigno con remeggio
lento fende
il lago pura imagine
del cielo
(desìo d’amori umani
ancor l’accende?
memoria è in lui del
nuzial suo lito?)
e fluttua nel lene
solco il velo
de l’antica
Tindaride, risplende
su l’acque il lume de
l’antico mito.
Di sovrumani amori
visioni
sorgono su da’ vasti
orti recinti
che mai una divina a
lo straniero
aprirà coronata di
giacinti
per lui condurre in
alti labirinti
di fiori verso il
triplice mistero
cantando inaudite sue
canzoni.
Ma quegli, folle del
profumo effuso
dal cor degli
invisibili rosai,
chino a la soglia
come quando adora,
pieni d’un sogno non
sognato mai
gli occhi mortali,
giù per l’ombre esplora
nel profondo
crepuscolo in confuso
il dominio silente
ch’egli ignora.
Così la prima volta
io vi guardai
con questi occhi
mortali. Voi, signora,
siete per me come un
giardino chiuso.
(Da "Poema paradisiaco")
PARCO UMIDO
di Aldo Palazzeschi
Il parco è serrato
serrato serrato,
serrato da un muro
ch'è lungo
le miglia le miglia
le miglia,
da un muro coperto di
muffe,
coperto di verdi
licheni,
grondante di dense
fanghiglie.
Né un varco soltanto
nel parco traspare
né un foro vi luce,
soltanto si posson le
muffe cadenti
vedere, soltanto
le dense fanghiglie
grondanti.
Altissimi i cedri ne
passano il muro,
i pini dal fusto
robusto ne sporgon l'ombrello
s'innalzan cipressi,
rossastre magnolie,
e salici, e salici
tanti
piangenti di pianti lontani,
che mischian sul muro
cadenti
le lagrime ai verdi
licheni,
a grige fanghiglie
grondanti.
Di fuori ecco il
parco serrato,
serrato da un muro
eh'è lungo le miglia
e le miglia.
Fra l'ombre, fra
l'ombre potenti
nel folto degli
alberi grandi
soltanto tre donne
s'aggirano lento,
bellissime donne:
Regine Parenti.
S'aggirano lento in
silenzio
ne l'ombre del parco
serrato,
pesante trascinano il
manto di lutto, le Donne,
coperte da un velo
che appena il pallore
del volto ne scopre.
(Da
"Lanterna")
![]() |
Santiago Rusinol, "Giardino abbandonato" |
sabato 16 aprile 2016
Da una lettera di Enrico Thovez
[...] Ho letto in questi giorni qualche brano della conferenza del Fogazzaro a Parigi sul «poeta dell'avvenire». Quando ho letto che il poeta futuro dovrà avere un alto concetto della femminilità; ristabilire nella letteratura gli elevati tipi ideali di altri tempi, se vorrà che la sua arte sia grande, ho provato come un bisogno di gridare di sdegno e di dolore. Io non so se esista un poeta più di me convinto di quella necessità; io non credo che nessuno mai sia come me nato con un violento, struggente bisogno di elevatezza amorosa, con una fede più salda, più ingenua nell'idealità femminile. Ma dove è il cuore che avrebbe potuto conservare intatto quel tesoro, attraverso una vita come la mia? Se anche io potessi rinunciare all'amore, se potessi rassegnarmi a vivere soltanto dei fantasmi della mente, non potrei più rievocare quell'ideale scaduto, sgretolatosi giorno per giorno in quindici anni di disinganni. Io non sono pessimista per partito preso, come (xxx), il quale per consolarsi delle amarezze sofferte coinvolge in un uguale disprezzo tutta la femminilità; io dico soltanto che la sorte mi ha impedito di conoscere quei rari casi di femminilità degna, che pure debbono esistere. Quando penso che non c'è in tutta la mia città un viso che mi faccia sognare, un cuore che mi desti uno slancio d'entusiasmo! Quando penso che tutto ciò che vedo, che odo intorno all'amore è basso, ignobile o quanto meno mediocre, che non posso nemmeno consumarmi in segreto come da fanciullo, perché nulla di degno v'è più anche fra l'irraggiungibile! Quando penso che io vivo fra le ripulse di una sartina ed i sorrisi ironici di un'istitutrice, e che queste derisioni di amore mi sono pure invidiate da mio fratello, da (xxx) e forse da te, e insidiate poi da moltissimi! Idealizzare questa realtà meschina? È ciò che faccio. Ma se io posso avvolgere della poesia del mio desiderio la banalità della materialità amorosa, non posso però creare delle anime che non esistono e infonderle in quei corpi che non potrebbero contenerle. Brutta cosa non essere un letterato puro! Avere una sensibilità e possedere una tecnica pittorica e plastica! non è più possibile sorvolare sulla corrispondenza intima fra la sostanza e la forma, fra l'anima e il corpo. [...]
(Da una lettera di Enrico Thovez datata: 25 marzo 1898)
(Da una lettera di Enrico Thovez datata: 25 marzo 1898)
lunedì 4 aprile 2016
Poeti dimenticati: Marino Marin
Nacque a Corcrevà di Bottrighe nel 1860 e morì ad Adria nel 1951. Dopo gli studi entrò come dirigente nel comune di Adria, dal quale incarico fu messo a riposo nel 1914 per una grave malattia agli occhi che alcuni anni dopo lo fece diventare cieco. Poeta classicista, pascoliano e, in alcune raccolte decadente, i suoi versi furono così definiti da Ugo Zannoni: « [...] questa poesia è un'immersione profonda nell'incanto della natura e nel sentimento dell'amore e del dolore. Agreste nel senso più forte della parola, pare che voglia cogliere il respiro della terra e il candore mite delle cose della terra. Anima la sua solitudine di note dolci e accorate e percepisce il senso nascosto di ogni manifestazione di vitalità, specie se si effonde dal fremito creativo della terra».
Opere poetiche
"Humus", Galli di Chiesa e Guindani, Milano 1892.
"Sonetti secolari", Galli di Chiesa e Guindani, Milano 1896.
"Voci lontane", Barboni, Castrocaro 1898.
"Luci e ombre", Zanichelli, Bologna 1904.
"Narciso", Società Editrice «Avanguardia», Lugano 1907.
"Le Opere e i Giorni", Frisia, Milano 1920.
"Espiazione", Zanichelli, Bologna 1923.
"Rassegnazione", Zanichelli, Bologna 1927.
"Sprazzi di luce", Scarpa e Gambaro, Adria 1930.
"La voce della Gran Madre Antica", «Quaderni di Poesia», Milano 1933.
"Alle soglie dell'infinito", Tempo nostro, Adria 1935.
"Poesie scelte", Il Polesine, Rovigo 1938.
"Vecchie campane", Gastaldi, Milano-Roma 1949.
Presenze in antologie
"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 398-399).
"Poeti delle Venezie", a cura di Federico Binaghi e Guido Marta, Zanetti, Venezia 1926 (pp. 142-147).
"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. IV, pp. 170-183).
"L'Adunata della poesia", 2° edizione, a cura di Arnolfo Santelli, Editoriale Italiana Contemporanea, Arezzo 1929 (pp. 374-376).
"Cenacolo: Antologia di poeti d'oggi", a cura di Francesco Addonizio e Francesco Giovinazzo, Luce Intellettual, Palermo 1931 (pp. 206-211).
"La nuova poesia religiosa italiana", a cura di Gino Novelli, La Tradizione, Palermo 1931 (pp. 241-247).
"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (volume secondo, p. 161).
"Dal simbolismo al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981 (tomo secondo, pp. 347-351).
Testi
VITA MINIMA
Volteggiano e ronzano in aria
i gai moscerini: tra il verde,
che ombreggia la via solitaria,
il murmure sale e si perde.
Che fremito d'ali, che festa
d'aerei connubî e di balli
allor che il pio sole ridesta
sereno i maggesi e le valli!
Il vol de le innumeri vite,
cui nutre un fil d'erba, dispiega
le fulve ali tenere in frega
su l'umide siepi fiorite.
Sgusciata staman, la vivace
tribù degli insetti già figlia:
decrepita a sera avrà pace
nel picciolo avel di famiglia:
nel picciolo avel di lor gente
scavato, opra inver gigantesca,
su un verde cespo di mente
o in seno a una mammola fresca.
(Da "Voci lontane")
Opere poetiche
"Humus", Galli di Chiesa e Guindani, Milano 1892.
"Sonetti secolari", Galli di Chiesa e Guindani, Milano 1896.
"Voci lontane", Barboni, Castrocaro 1898.
"Luci e ombre", Zanichelli, Bologna 1904.
"Narciso", Società Editrice «Avanguardia», Lugano 1907.
"Le Opere e i Giorni", Frisia, Milano 1920.
"Espiazione", Zanichelli, Bologna 1923.
"Rassegnazione", Zanichelli, Bologna 1927.
"Sprazzi di luce", Scarpa e Gambaro, Adria 1930.
"La voce della Gran Madre Antica", «Quaderni di Poesia», Milano 1933.
"Alle soglie dell'infinito", Tempo nostro, Adria 1935.
"Poesie scelte", Il Polesine, Rovigo 1938.
"Vecchie campane", Gastaldi, Milano-Roma 1949.
Presenze in antologie
"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 398-399).
"Poeti delle Venezie", a cura di Federico Binaghi e Guido Marta, Zanetti, Venezia 1926 (pp. 142-147).
"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. IV, pp. 170-183).
"L'Adunata della poesia", 2° edizione, a cura di Arnolfo Santelli, Editoriale Italiana Contemporanea, Arezzo 1929 (pp. 374-376).
"Cenacolo: Antologia di poeti d'oggi", a cura di Francesco Addonizio e Francesco Giovinazzo, Luce Intellettual, Palermo 1931 (pp. 206-211).
"La nuova poesia religiosa italiana", a cura di Gino Novelli, La Tradizione, Palermo 1931 (pp. 241-247).
"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (volume secondo, p. 161).
"Dal simbolismo al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981 (tomo secondo, pp. 347-351).
Testi
VITA MINIMA
Volteggiano e ronzano in aria
i gai moscerini: tra il verde,
che ombreggia la via solitaria,
il murmure sale e si perde.
Che fremito d'ali, che festa
d'aerei connubî e di balli
allor che il pio sole ridesta
sereno i maggesi e le valli!
Il vol de le innumeri vite,
cui nutre un fil d'erba, dispiega
le fulve ali tenere in frega
su l'umide siepi fiorite.
Sgusciata staman, la vivace
tribù degli insetti già figlia:
decrepita a sera avrà pace
nel picciolo avel di famiglia:
nel picciolo avel di lor gente
scavato, opra inver gigantesca,
su un verde cespo di mente
o in seno a una mammola fresca.
(Da "Voci lontane")
lunedì 28 marzo 2016
Poeti dimenticati: Luigi Crociato
Luigi Krischan dei conti di Wurmberg (in arte Luigi Crociato) nacque,
visse e morì a Trieste tra il 1870 ed il 1935. Dopo gli studi calssici si
dedicò all'insegnamento con zelo ed entusiasmo. Fu poeta, prosatore e
drammaturgo. Per ciò che concerne la sua opera poetica, Crociato si dimostrò
lirico aperto alle nuove tendenze (fece uso abbondante del verso libero) e
toccò temi riguardanti la tradizione, la filosofia e la religione. Il suo libro
migliore, dominato da una visionarità a volte lugubre, è "Canta il
selvaggio", che fu lodato, tra gli altri, da Silvio Benco.
Opere poetiche
"L'ulivo", Tipografia Tomasich, Trieste 1900.
"L'ampolla", Editrice Cittadini, Trieste 1908.
"Canta il selvaggio", Voghera, Roma 1912.
"La tragedia divina", Zanichelli, Bologna 1926.
"Le ultime liriche", Società artistico letteraria, Trieste
1969.
Presenze in antologie
"Poeti italiani d’oltre i confini", a cura di Giuseppe
Picciòla, Sansoni Firenze 1914 (pp. 242-244).
"Dal simbolismo al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi,
Torino 1981 (tomo secondo, pp. 525-530).
Testi
SONNO DI VILLA
Dan canti a la messe;
dan musiche al tino;
dan tela a chi tesse.
Dan ombra al camino;
dan fede ai lontani;
dan serti al destino.
Dan rose a le mani;
dan l'ore promesse;
dan tutto..., domani.
Le nove! e nove volte
batte il gallo col rostro di bronzo
su la campana, e numera
le speranze che tornan furtive,
stelle filanti,
e si spengono in seno a la villa
che ha sonno...
Schiude in cielo la chiara finestra
del plenilunio
San Floriano, con secchia e molt'acqua
cerulea, ch'ei versa sui tetti,
intenti a una mandolinata
di grilli.
Stan, là intorno due frassini,
guardie campestri.
Per la strada bagnata di luna
passano due anime:
il cieco e l'armonica. Al bivio
c'è una casa:
c'è un gatto con occhi di lume
che spia.
Van le due anime a destra; a sinistra,
su la palancola
del torrente, va un altro fantasma,
che si ferma,
perché a battere torna quel gallo.
Dieci volte! Di nove è il ricordo,
la decima fila!
Fila, e si spegne ne l'acqua
che ha fretta,
e dall'amplesso dei salci
si svincola... fugge...
«Beata la villa che dorme...»
Continua la strada
quel fantasma: lo spirito mio...
(Da "Canta il selvaggio")
Mattina
M'illumino
d'immenso
COMMENTO
In questa poesia, Giuseppe Ungaretti (1888-1970) raggiunse l'apice della sinteticità e
dell'essenzialità di tutta la sua opera in versi. Rispetto alla lirica vera e
propria risulta assai più lunga l'annotazione che la precede ne
"L'Allegria" (1942), libro dal quale proviene, che è questa:
"Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917". La poesia (se di poesia si
può parlare) comparve per la prima volta nel 1918, col titolo Cielo e mare, su un volume intitolato "Antologia della Diana", e, col medesimo la si ritrova in
"Allegria di naufragi", secondo libro poetico ungarettiano del 1919.
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Giuseppe Pellizza da Volpedo, "Mattino di maggio" |
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