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Pierre Puvis de Chavannes, "The Poor Fisherman" |
Scampoli di letteratura dell'Ottocento e del Novecento, poeti dimenticati, vecchie antologie e altro ancora.
martedì 28 luglio 2015
Le figure dimesse nella poesia italiana decadente e simbolista
domenica 12 luglio 2015
Il telefono in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo
Ti chiamo... ancora una volta ti chiamo con la solita speranza: che finalmente parliamo di cose importanti, di noi, di ciò che proviamo l’uno per l’altra. Ma la mia speranza svanisce di nuovo, dopo nemmeno un minuto che parliamo. Tu ricominci a proporre argomenti futili, che riguardano fatti poco interessanti per me. Sto comunque al gioco, e ti rispondo dimostrando attenzione e coinvolgimento. Poi, mi stanco, e continuo a dirti – mentre tu prosegui instancabile il tuo colloquio – un “sì”: un’approvazione che significa sfinimento. Quando hai esaurito ogni possibile dettaglio, e oramai anche tu ti dimostri stanca ed annoiata, mi dici che si è fatto tardi, che hai qualcosa di urgente da fare, e mi saluti velocemente prima di chiudere la comunicazione. Certamente ci risentiremo: sarai magari tu a chiamarmi la prossima volta, o forse sarò ancora io, e di nuovo nascerà in me la speranza che potremo dirci, finalmente, delle parole importanti. No, non posso abbandonare questa mia illusione, poiché mi occorre per continuare a vivere, perché voglio continuare a parlare con te, anche senza vederti mai.
di Giovanni Bertacchi (1869-1942)
Parla un uomo al telefono. Qualcuno
ch'io non odo né veggo a lui risponde:
prega un uomo all'altar: parla con Uno
che per me tace, che per me si asconde.
Deh, se basta a varcar tanta distanza
un tenue filo a chi pur resta immoto;
se il tenue filo d'una pia speranza
basta pei cuori a penetrar l'ignoto,
date a me pure il fil che si dilunga
oltre il giorno dell'uomo e la sua sede;
datemi il tenue tramite che giunga
al Lontano che parla e non si vede!
(Da "Alle sorgenti", Baldini & Castoldi, Milano 1906)
PER TELEFONO
di Alfonso Gatto (1909-1976)
Ascolto per telefono il fragore
di Roma liberata. «Vedi - insiste
l'amico nel chiamarmi - non li vedi,
sempre così, mostrati sulla terra.»
Incalza: «ma strafanno, l'aria è piena
di Roma, di campagne...». «Spegni», grido.
Resta il silenzio e non così divisi
dal filo che ci unisce, «Siamo stanchi»
dico nello scoprirmi amaro, vile
d'invidia «e questo caldo, questa smania
d'uscire... ma che fai, pronto, Giorgio...?»
(Da "La storia delle vittime", Mondadori, Milano 1966)
TELEFONATA NOTTURNA
di Margherita Guidacci (1921-1992)
La tua voce
intensa e quieta, che viene di tanto lontano,
come un raggio improvviso ha attraversato la notte,
inargentando foglie, facendo biancheggiare le spume
d'acque segrete, rivelando
nitido un altro lembo
di questo sempre nuovo paesaggio d'amore -
così vario
che mai finiamo di scoprirlo.
(Da "Inno alla gioia", Centro Internazionale del Libro, Firenze 1983)
Da "LE PETIT MONTAGNARD"
di Mario Luzi (1914-2005)
Lo squillo del telefono nella casa deserta
dà un brivido sottile, recide oscure speranze.
Non mi mossi, non scesi neppure fino all'orto.
Fui qui presente e assente in questa luce
da finestra a finestra della casa
ore e ore, lasciai venire e andare
pensieri eterni nella mente inerte.
Il giorno lungo e fradicio leva alti i suoi vessilli.
È tardi? il carpentiere sale sui castelli e i ponti.
Lo sai, mi tengo pronto al tuo richiamo,
veglio, attendo, fo sì che non risuoni
lo squillo del telefono nella casa deserta.
(Da "Dal fondo delle campagne", Einaudi, Torino 1965)
TELESELEZIONE
di Daria Menicanti (1914-1995)
Soprattutto mi piace col telefono
entrargli nella camera lontana
di là dal monte,
sentire il mio squillo
che si avventa nel buio. Poi la cara
voce fra tutte che risponde:
Sì-ì?
(Da "Canzoniere per Giulio", Manni, Lecce 2004)
TELEFONO
di Marino Moretti (1885-1979)
Sei tu! sei tu! sei tu! Mentre ti parlo,
mentre t'ascolto, immobile, mi pare
che la tua voce seguiti a vibrare
in questo orecchio mio per lacerarlo.
Sei tu! sei tu! La tua voce mi giunge
da una profondità d'anima oscura:
io ti rispondo, amica, ma ho paura,
che vicina mi sei tu che sei lunge.
Ho paura di te, di quest'ordigno
che al mio povero cuor che più non sogna
dona la voce tua, la tua menzogna
come per uno spirito maligno!
E mi par quasi che fra tanto fasto
d'illusioni solo quest'ordigno
fedele al muro, come un vecchio scrigno
pieno di voce tua, mi sia rimasto!
Tu parli e io vedo il tuo bianco profilo
un po' chinato sovra l'apparecchio
mentre raccogli nell'intento orecchio,
più che il mio dire incerto, il mio respiro;
tu parli e io non t'ascolto: non t'ascolto
perché ti vedo: vedo d'improvviso
una lieve penombra di sorriso
ch'erra nel volto tuo, chino e raccolto.
Ah, ridi ridi ridi tu che sei
bella e ami solo la tua gioventù.
Io? Ti rispondo, ma non sono più
che due numeri: 10-36...
(Da "Poesie 1905-1914", Treves, Milano 1919)
PAROLE CHE VENGONO DI LONTANO
di Nino Oxilia (1889-1917)
Dalla finestra aperta guardo i monti.
Qualche nuvola bassa
sui dentati orizzonti
vivida di bagliori
passa.
Ora curvi, ora dritti, i falciatori
taglian l'ultimo fieno
sotto il cielo sereno
con larghi gesti monotoni...
La mia stanza è un immoto
carcere d'ombra ove io sento
battere battere a vuoto
le pale del Tempo che in ozio consumo.
Il vento
anima l'infinito
silenzio di profumo.
Improvviso come un nitrito
nell’ombra squilla il telefono...
«Pronti! Pronti!» Lo specchio
a parete, murato nel tepore
delle stoffe, riflette l’apparecchio
nell’ombra paolotta.
L’apparecchio borbotta:
«Pronti pronti! O mio amore!»
«Pronti! Pronti! Amor mio,
sono giunta stamani.
Ora siamo lontani.
Sono triste» (un contatto) «amore mio!»
«Per quanto tempo! Mi angoscia...»
Ascolto. E l'occhio in giro percepisce
le cose che non guardo:
il gesto or lesto or tardo
dei falciatori e il fieno che si affloscia
sotto le falci lisce...
«Mi angoscia questa vita di bugìa
con l'uomo che non amo e non capisce;
cui fingo. Oh! come ti amo, anima mia!»
Penso la sua bocca leggiadra
nel cerchio nero del trasmettitore,
la sua bocca d'amore
ladra.
Penso il braccio rotondetto
sopra il tavolinetto;
dentro l'alcova il letto.
«Oh! fuggire da quella gabbia!
Correre nelle tue braccia!»
Quanto resta la traccia
di un nome sulla sabbia,
tanto nel cuore umano
le parole che vengono di lontano...
«Son triste. Quest'asilo
è da gufi - Tu sei lontano e poi...»
Gorgoglia l'apparecchio
schernevole all'orecchio;
ora parlo, ora ascolto...
Odo la voce ma non vedo il volto...
E il filo il filo il filo
infinito tra noi...
(Da "Gli orti", Alfieri & Lacroix, Milano 1918)
TI DICEVO AL TELEFONO
di Elio Pagliarani (1927-2012)
Ti dicevo al telefono (di cui
più mi prendono le pause, gl’imbarazzi
docili, e se ci udiamo respirare)
ti dicevo al telefono un amore
che urge, e perché.
(Da "Tutte le poesie: 1946-2005", Garzanti, Milano 2006)
ER TELEFONO
di Trilussa (Carlo Alberto Salustri, 1871-1950)
Co' quello antico? Vergine Maria!
Giravi per un'ora er girarello
e, se volevi un oste, sur più bello
te risponneva quarche farmacia.
Invece mó, coll'urtimo modello,
chiami cór deto, parli e tiri via,
che se tu vedi la signora mia
ce se diverte come un giocarello.
Jeri, presempio, appena s'è svejata
ha bevuto er caffè cór rosso d'ovo
eppoi s'è fatta la telefonata.
E manco ha preso in mano l'apparecchio
ch'ha liticato co' l'amante novo
e ha fatto pace co' l'amante vecchio.
(Da "Poesie scelte", Mondadori, Milano 1951)
TELEFONO PIÙ RADIO
di Cesare Vivaldi (1915-1999)
Dì che è tardi. Baciamoci
nel frettoloso telefono.
Disperdi pure il grigio
della tua voce,
non temere il silenzio.
Lieve continui ad abitarmi accanto,
respirando in un valzer
di cristallo, che in nitidi
tocchi s'estingue.
Serro il capo tra i gomiti. Un cavallo
bianco fende la nebbia,
opaco s'allontana,
si distingue dall'ombra
appena per un palpito lieve.
(Da "Poesie scelte: 1952-1992", Newton Compton, Roma 1993)
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Sergei Vishinsky, "On the telephone" |
martedì 30 giugno 2015
Le fate nella poesia italiana decadente e simbolista
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Sophie Anderson, "A portrait of a fairy" |
domenica 14 giugno 2015
Poeti dimenticati: Giuseppe Zucca
domenica 24 maggio 2015
Gli alberi in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo
di Giovanni Camerana (1845-1905)
Triste, languente,
Chino sul tuo torrente
Come bella sul petto all’amator,
Sempre tu piangi, o salice.
Riso beato
Sfolgora pel creato;
Letizia e pace spiran l’erbe e i fior;
Tu solo piangi, o salice.
E un dì quest’onda
Oserà, furibonda,
Strapparti al nido de’ tuoi mesti amor;
E tu morrai, bel salice.
Ier nell’avello
Fu posto un giovincello
Al dolor nato e ucciso dal dolor...
Così morrai, bel salice.
(Da "Poesie", Einaudi, Torino 1968)
AI LAURI
di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)
Lauri, che ne la grande ombra severa
accoglieste il pensoso adolescente,
parlatemi di lui, la prima sera.
Parlatemi di lui benignamente
vecchi lauri, però ch'egli forse ode;
però ch'egli è lontano e pur presente.
Quanto v'amava il giovine custode!
E quante volte a la sua fronte amica
tendeste i rami in ascoltar la lode!
Egli leggea quel libro ove pudica
l'Anima geme, lacrima e desìa
chiusa nel velo d'una Grazia antica.
Lento d'intorno il bel giardin salìa
fiorendo, come un sogno dal cuor sale;
rigato da la pura melodìa,
in una luce insolita spirtale
che non era del cielo ma sul mondo
effusa da la pagina immortale.
O lauri, io son colui. Non più m'ascondo.
Io son colui che lesse il libro e vide
quella luce e gioì nel cor profondo.
Tutto è perduto? Il raggio ultimo irride
nel gran bacino l'acqua putre e scarsa;
il paone su l'alto muro stride;
tra la gramigna livida e riarsa
giacciono spenti i cari iddii del loco...
Ogni divinità dunque è scomparsa?
Sol giunge suono di campane fioco.
A qual dolore l'onda pia si frange!
L'ombra invade una casa a poco a poco,
la triste casa ove mia madre piange.
(Da "Poema paradisiaco", Treves, Milano 1893)
UN PINO
di Severino Ferrari (1856-1905)
Calan l'ombre estive e il gelo:
già la terra è tutta bruna;
ma sorride, ecco, la luna
tra le nuvole del cielo;
e a quel pin dall'arduo stelo
di selvaggi augelli cuna
ch'ombre orrende al piano aduna,
scende bianca in bianco velo.
L'alto pin muove crucciosi
i suoi rami, come braccia
di giganti minacciosi.
Tu impauri; e al suol la faccia
chini e i grandi occhi amorosi...
Vedi, è un arbor che minaccia.
(Da "Sibi suis", Zanichelli, Modena 1876)
L'ARANCIO
di Cosimo Giorgieri Contri (1870-1943)
Non altiero, non snello; e pur tra cento
ti riconosco, o dolce arbor giulìo,
tu che doni al mio tosco aer natio
bei frutti d'oro e bei fiori d'argento:
tu che ombreggi i belli orti ove ancor sento
tacito indugiar l'animo mio:
e dove il dì ch'ella mi disse addio
colsi un tuo fiore che sperdeasi al vento.
Gracile fior, di vergini pensiero,
che cingere a la sua tenera chioma
ah! ne' dì che saranno io non dispero.
Onde tu serba, o dolce albero, il fiore
tuo più leggiadro e del più molle aroma,
e destinalo tu pel nostro amore...
(Da "Il convegno dei cipressi", Galli di Chiesa e Guindani, Milano 1894)
TRA I CIPRESSI
di Domenico Gnoli (1838-1915)
Informe gruppo di cipressi neri
Che coronate la solinga vetta,
Rosi dagli anni, arsi da la saetta,
Come il mio capo da foschi pensieri;
Ch'or tra livide fonti, irti sentieri
E logge ove s'annida la civetta,
E un dì versaste l'ombra giovinetta
Sovr'amori di dame e cavalieri;
Qui, ne' silenzi lugubri, sospendo
Una piccola bara; il vento mesto
La culli a sera, tra i rami stridendo.
Non dite il nome e le vicende sue.
Su la coltre non ho scritto che questo:
- Anno mille ottocento ottantadue. -
(Da "Nuove odi tiberine", Loescher, Torino 1885)
VECCHI ONTANI
di Arturo Graf (1848-1913)
Ai vecchi ontani il vento,
Ghignando, urlando, narra
Non so che storia lugubre e bizzarra,
Non so che storia d’ira e di spavento.
Tremanti di paura,
Sotto il gel che li allaccia,
I vecchi ontani al cielo ergon le braccia
Gemendo a gara nella notte oscura.
(Da "Dopo il tramonto", Treves, Milano 1893)
SORRIDE L'ARGENTO DEI TIGLI
di Domenico Oliva (1860-1917)
Sorride l'argento dei tigli
All'ombre sorride tranquille
Un vago colore di gigli
Blandisce le umane pupille.
Il vento carezza ed olezza
Profuma soavi bisbigli,
Baciato da questa mitezza
Sorride l'argento dei tigli.
O sera, bellissima sera,
O luna, bellissima luna,
O musica errante e leggera
Per l'ombra fantastica e bruna,
Voi fate una grande armonia
E il core vi dice preghiera,
Il core blandizie t'invia,
O sera, bellissima sera.
(Da "Il ritorno", Galli di Chiesa e Guindani, Milano 1896)
LA QUERCIA CADUTA
di Giovanni Pascoli (1855-1912)
Dov’era l’ombra, or sé la quercia spande
morta, né più coi turbini tenzona.
La gente dice: Or vedo: era pur grande!
Pendono qua e là dalla corona
i nidietti della primavera.
Dice la gente: Or vedo: era pur buona!
Ognuno loda, ognuno taglia. A sera
ognuno col suo grave fascio va.
Nell’aria, un pianto... d’una capinera
che cerca il nido che non troverà.
(Da "Poemetti", Sandron, Milano-Palermo 1900)
RIVEDENDO UN VECCHIO CASTAGNO
di Luigi Pinelli (1840-1913)
Tale è ancor l'aspro tronco, e una famiglia
Di gracili rampolli a la tua negra
Ombra crescenti, a te: - Padre, - bisbiglia,
- Lasciane l'aer che da 'l sol s'allegra.
Tu, come l'uom che avvalla a 'l suol le ciglia
Scorato, guardi e fremi dentro a l'egra
Anima antica che non più somiglia
A quella de' bei dì salda ed integra.
E par che pensi: questa che a me sale
È voce di minaccia o di preghiera?
È la vita o la morte che mi assale?
Saggio castagno, non cercar; l'austera
Testa concedi a 'l nembo trionfale,
A i folgori rubesti, a la bufera.
(Da "Dai nostri poeti viventi", Lumachi, Firenze 1903)
ERO CILIEGIO...
di Giacomo Zanella (1820-1888)
Ero ciliegio: cento volte e cento
I miei rubini maturai: dal suolo
Dopo lunga tenzon sterpommi il vento,
Ed alle man passai dal legnaiuolo.
Fui segato, piallato, ebbi ornamento
Di vernici e di vetri. Ora uno stuolo
Di morti, che immortale hanno l'accento,
Alla polve e de' topi al dente involo.
Guardo Omero, Platone, Orazio e Dante.
Dell'onor che m'è fatto e del riposo
Invidia avranno piú superbe piante;
Io, se il destin mi ridonasse un'ora
Della mia gioventù, volenteroso
Andrei co' venti ad azzuffarmi ancora.
(Da "Opere", Neri Pozza, Vicenza 1988)