domenica 8 dicembre 2019

La mitologia nella poesia italiana decadente e simbolista


Di riferimenti alla mitologia se ne possono trovare a non finire in tutta la poesia di ogni epoca, ed anche, ovviamente, nelle poesie dei decadenti e dei simbolisti italiani; quella greca è, per forza di cose, la più presente: miriadi di versi sono dedicati a divinità, mostri e personaggi vari che compongono la stupenda e altamente affascinante mitologia della Grecia antica. In minor misura, ma ben presenti, sono altre figure leggendarie, spesso appartenenti alla storia della letteratura. Ancora più rari sono i versi in cui la fanno da protagonisti i santi o comunque i personaggi della religione cristiana che, col tempo, furono ammantati da un'aura leggendaria (tanto potente e convincente da divenire veri e propri miti). C'è infine qualche poeta che rievoca le mitologie nordiche: anch'esse colme di personaggi fantasiosi e di storie suadenti, ma evidentemente meno conosciute nel nostro paese. Inutile aggiungere che ogni storia ed ogni personaggio di queste poesie hanno un riferimento più o meno chiaro ai tempi in cui furono scritte, e di conseguenza possono essere il simbolo di qualcosa o di qualcuno.



Poesie sull'argomento

Mario Adobati: "Circe" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).
Vittoria Aganoor: "L'ultimo canto di Saffo" in "Poesie complete" (1912).
Diego Angeli: "Dafne" in "L'Oratorio d'amore" (1904).
Alfredo Baccelli: "Miti silvestri" in "Poesie" (1929).
Gustavo Botta: "Medusa" in "Alcuni scritti" (1952).
Giovanni Camerana: "Su, galoppate adunque..." in "Poesie" (1968).
Guglielmo Felice Damiani: "Leggenda" in "Lira spezzata" (1912).
Gabriele D'Annunzio: "Diana inerme" in "L'Isotteo. La Chimera" (1890).
Gabriele D'Annunzio: "Psiche giacente" in "Poema paradisiaco" (1893).
Luisa Giaconi: "Philomela" in «Dai nostri poeti viventi» (1896).
Luisa Giaconi: "Il pianto di Agar" in "Tebaide" (1912).
Cosimo Giorgieri Contri: "Il viale delle Muse" in "Mirti in ombra" (1913).
Domenico Gnoli: "Ostia" in "Fra terra ed astri" (1903).
Domenico Gnoli: "Via Appia" in "Poesie edite e inedite" (1907).
Corrado Govoni: "Siringa fioca", "San Giorgio",  "Gruppo" e "Graal" in "Le Fiale" (1903).
Corrado Govoni "Loengrino" in "Gli aborti" (1907).
Guido Gozzano: "L'invito" in "poesie e prose" (1961).
Arturo Graf: "Le Danaidi" in "Le Danaidi" (1905).
Luigi Gualdo: "Venere nera" in "Le Nostalgie" (1883).
Virgilio La Scola: "Delo" in "La placida fonte" (1907).
Giuseppe Lipparini: "Il fauno" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Gian Pietro Lucini: "Protesa Ella fatale e sovrumana", "La "Chimera" e "Penelope moderna, dalle spole" in "Il Libro delle Figurazioni Ideali" (1894).
Gian Pietro Lucini: "Adone" e "Klingsor" in "Il Libro delle Imagini Terrene" (1898).
Marino Marin: "È l'Ellade..." in "Sonetti secolari" (1896).
Tito Marrone: "La Gorgone" in "Sonetti dell'estate e dell'autunno" (1900).
Tito Marrone: "Nummus" in "Le Gemme e gli Spettri" (1901).
Tito Marrone: "La morte dei centauri" in "Liriche" (1904).
Fausto Maria Martini: "Il Cavaliere" in "Le piccole morte" (1906).
Angiolo Orvieto: "Le Chimere" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: "Apua, Ninfa" in «Riviera Ligure», 1903.
Umberto Saffiotti: "Le Sirene" in "Le Fontane" (1902).
Giulio Salvadori: "Saffica ascolana" in «Nuova Antologia», ottobre 1920.
Fausto Salvatori: "La Chimera" in "La Terra promessa" (1907).
Emanuele Sella: "I Numi" in "Rudimentum" (1911).
Pietro Sgabelloni: "Fauno" in «Il Tirso», aprile 1907.
Agostino John Sinadinò: "La morte di Parsifal" in «Poesia», ottobre/novembre/dicembre/gennaio 1906/1907.
Agostino john Sinadinò: "La Dea nel sonno" e "L'Ara d'Apolline" in "Il Dio dell'attimo" (1924).
Giovanni Tecchio: "Alastor" in "Canti" (1931).
Domenico Tumiati: "Aretusa" in "Liriche" (1937).
Alfredo Tusti: "L'arco" in «Roma Flamma», luglio 1904.
Domenico Zarlatti: "Nascono le Walkirie" in «Cronache latine», gennaio 1906.



Testi

VENERE NERA
di Luigi Gualdo

Era una notte chiara e tropicale.
          Nell'aria torrida
Passava un soffio di languor letale,
          Afrodisiaco.

Sul mar brillava un luccichìo di fosforo,
          Misterïoso;
Parca forier di cósmiche battaglie
          L'alto riposo,

Morivan lenti in su la calda riva
          I flutti languidi,
L'onda lambendo la rena moriva
          Con lungo murmurare.

Tutto era bruno: e terra e cielo e oceano;
          Taceano i venti,
Eppur movea lassù un arcano palpito
          Le stelle ardenti.

Stendeasi in là, vastissima pianura,
          Il suol dell'India;
Il sacro suoi della gran fede oscura
          Pieno di tènebre.

Pareva il mar d'alto portento gravido.
          Irrequieto,
Ma la natura già potea conoscere
          Il suo segreto.

Ecco, d'un tratto, l'onda si divide,
          E sorge argentea
In mezzo al mar che intorno ad essa ride
          Una conchiglia,

Vasta conchiglia illuminata, rosea,
          Che par dischiuda
Cosa di ciel, poiché vi sorge Venere
          Divina e nuda,

Ma paurosa ancor più della greca
          Bellezza candida,
Ché bianca no, ma è d'un color che acceca,
          Di bronzo splendido.

S'allieta il ciel, la luna vibra un raggio...
          Ed ecco altera
Incanta allora in sua beltà terribile
          Venere Nera.

(da "Le nostalgie")




IL FAUNO
di Giuseppe Lipparini

Appresso a la fontana ove perenni
sgorgan dal seno del granito l'acque,
a un antico signor del loco piacque
erger un Fauno con lascivi cenni.

Danzavan le fanciulle quando venni
nel magico recesso. Tosto tacque
ogni danzare; ognuna d'esse giacque
a' pie de l'Erma con arguti accenni.

Una sottile voluttà ne l'aria
era; dal suolo un umido languore
saliva; ed elle co i procaci gesti

destavano ne l'anima una varia
brama di baci, o di tranquillo amore,
o di abbracci malefici funesti.

(da "Le foglie dell'alloro")



Gaston Bussière, "Le Nereidi"
(da questa pagina web)


domenica 1 dicembre 2019

"La Città di Vita" di Diego Angeli


Il nome di Diego Angeli (Firenze 1869 - Roma 1937) ricorreva spesso nelle più importanti riviste italiane di fine Ottocento e d'inizio Novecento; interventi e articoli di vario genere, prose, traduzioni e poesie infatti si ritrovano sulle pagine del Convito, del Marzocco, di Nuova Antologia e addirittura in Poesia. Scrisse versi in gioventù, pubblicando due raccolte poetiche di grande valore. La Città di Vita uscì nel 1896 e segnò il suo esordio poetico. Il libriccino, edito a Spoleto dalla Tipografia dell'Umbria, si sostanzia in 62 pagine che contengono 38 poesie. La prima, che dà il titolo all'opera, mette in risalto una sorta di luogo ideale, ovvero una città dell'anima, popolata da pensieri di estrema purezza, da sogni, da orti protetti da mura alte e da santi pregati o invocati dal poeta all'interno di un oratorio ben isolato e sicuro; altro non è che la torre d'avorio immacolata dove nessun altro ha mai potuto giungere né sporcare o violare quel luogo fantastico eppur reale, necessario al poeta per poter vivere una vita degna. Altra poesia da segnalare è il sonetto Lacrime, dove si assiste ad una pioggia notturna di gocce ardenti che giungono al suolo e vengono bevute dalla terra. La pioggia di lacrime non ha fine e donde vengano è un mistero assoluto. Il mondo intero rimane esterrefatto di fonte a questa caduta continua d'acqua, mentre la Terra se ne compiace e l'accoglie felice di essere fecondata grazie da essa. Molto bella è anche Tristezze d'una sera d'inverno, seppure debba più di qualcosa al D'Annunzio del Poema Paradisiaco. Più avanti, si trovano tre poesie: L'Amorosa, Il Castigo e L'Addolorata, incentrate su personaggi femminili sofferenti; anche in questi versi Angeli è debitore del D'Annunzio, ma riesce comunque ad aggiungere qualcosa di più intenso rispetto al poeta pescarese, mostrando una partecipazione ed una comprensione personale al dolore sofferto dalle donne descritte in modo eccelso. L'Abbandonato e L'Albero sono invece due brevi poesie che devono molto al Giovanni Pascoli di Myricae; piace comunque la prima delle due, per l'ottima capacità di Angeli nel tratteggiare il patimento del povero bambino a cui è stato da poco amputato un arto. Ne La vedova, è di nuovo in primo piano una figura femminile dolorante, ma insieme a lei, il dolore ha sconvolto anche l'intera famiglia, ovvero i due piccoli figli che la seguono sulla strada verso il cimitero, dove il defunto genitore troverà sepoltura. Bellissime le poesie intitolate Il parco e Orto botanico, in cui è evidente l'influenza dannunziana esercitata sul nostro (soprattutto pensando ai versi di Hortus conclusus e Hortus larvarum, inserite nella raccolta Poema paradisiaco), ma, come in altri casi, Angeli riesce ad eguagliare - se non a migliorare - il suo maestro, inserendo nel contesto del giardino-parco-orto decadente, personaggi ed atmosfere di grande suggestione. Seguono, nell'ordine, quattro poesie invernali (Santa Sabina; Sera d'inverno ad Acqua Traversa; Giorno d'inverno a Lunghezza; Pomeriggio di Decembre ai monti Parioli) e tre autunnali (In una villa, d'autunno; Tramonto di un giorno d'ottobre; Sonetto d'autunno), in cui di nuovo la fa da padrone un clima decadente che Angeli riesce a ricostruire in maniera egregia. Nell'ultima lirica: La festa, si rilevano elementi che paiono anticipare le prime poesie di Aldo Palazzeschi. In effetti, a proposito di quest'ultimo accostamento, sia La Città di Vita che L'Oratorio d'amore (pubblicato nel 1904), sono libri che presentano molti versi "crepuscolari", se non fosse che l'autore li scrisse in netto anticipo rispetto alla nascita del movimento poetico che inaugurò la migliore stagione della poesia italiana del Novecento.
Chiuso riportando tre poesie presenti in La Città di Vita.




L'AMOROSA


Sotto il bassorilievo del seicento,
nel parco, un poco triste, ella è seduta.
Ora in lei sorge un nuovo sentimento:
pensa la dolce illusion perduta,
e sibila tra i rami esili, il vento.

Ella è sola e già prossima è la sera;
un vapor d'oro scende su gli estremi
orizzonti; una tacita preghiera
in lei s'agita; i bianchi crisantemi
tutti abbandona sulla veste nera.

Ella pensa: - L'amore è stato breve.
Il bel sogno è finito! Ora qui sola
io ritorno. L'amore è stato breve. -
Chi ascolterà la sua dolce parola?
Oh il silenzio! L'amore è stato breve.

Sta sul banco di marmo l'Amorosa:
un platano su lei tende una rama
tutta d'oro; la fronte dolorosa,
casta, rispecchia la profonda brama
del suo cuore. Nell'ombra ella riposa.

(da La Città di Vita, p. 20)




ORTO BOTANICO

Era quello che ho visto in una sera
d'inverno, dentro l'orto abbandonato.
Il sole a quando a quando era velato
dalle nebbie diafane, sul prato
cadean le foglie ed era già la sera.

Nessuno più sedea sopra i sedili
marmorei, nessuno più passava
nei viali ove l'erba germogliava
da tempo; qualche foglia pur restava
su gli olmi, altre ingombravano i sedili.

Fumigava nel vespero la terra
umida e si spargea come un odore
grave di muffe e il sole avea un languore
indefinito e sembrava che l'ore
indugiasser più lente sulla Terra.

E in fondo all'Orto ardea limpido un fuoco.
In fondo, accanto alle solenni porte
di travertino ardean le foglie morte
le fiamme divampavano scontorte,
e sola cosa viva era quel fuoco.

(da La Città di Vita, p. 50)




IN UNA VILLA, D'AUTUNNO

L'infinita tristezza del cortile 
veduto nelle lunghe ore piovose 
a traverso le imposte polverose 
rigate dalla fredda acqua sottile. 
La pianta che intristisce in un bacile 
di creta tra le mura tediose, 
e le bianche pozzanghere fangose 
in fondo allo scalone signorile. 

Piombano l'ore ad una ad una nello 
spazio, senza speranza di ritorno, 
lenta misura dell'eternità. 
Ma l'aspetto del luogo è sempre quello, 
sempre quello, così per tutto il giorno 

per sempre: e chi sa mai se cambierà?

(da La Città di Vita, p. 55)

mercoledì 27 novembre 2019

Alla finestra









A volte crede di essere il solo
a guardare un passaggio di nuvole
sui tetti di questa città
una avanza, è tutt'uno con l'altra
rispunta, è diversa, scompare
la finestra è il suo microscopio
le nuvole i suoi minimi quanta.






Alla finestra è la dodicesima poesia del volumetto poetico di Luciano Erba (Milano 1922 - ivi 2010) intitolato Negli spazi intermedi: poesie '96 - '98, All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1998; più esattamente, si trova alla pagina 31, all'interno di una sezione senza titolo (come deduco dagli spazi divisori visibili nell'indice, che frammentano in cinque gruppi le poesie del volumetto) insieme ad altre quattro¹. La medesima è presente anche nel volume Poesie 1951 - 2001, Mondadori, Milano 2002, che raccoglie l'intera opera poetica di Erba; qui è possibile rintracciarla nella sezione intitolata: Nella terra di mezzo (p. 278). A proposito dell'ultima fase della carriera poetica di Erba - e la poesia riportata ci entra in pieno - ecco cosa afferma il critico Enrico Testa in un frammento tratto dall'antologia Dopo la lirica. poeti italiani 1960-2000 (Einaudi, Torino 2005):


 [...] Agli elementi da sempre peculiari della poesia di Erba (principio inventivo, tensione immaginaria, dato biografico) s'aggiunge ora un'istanza riflessiva volta a sondare quei «mondi» o «spazi intermedi» in cui il soggetto, suddito dei «vari regni di sonno e d'assenza», si sente rapito «un po' di qua e un po' di là».²

Per quel che riguarda il testo, i "minimi quanta" dell'ultimo verso si rifanno alla parola latina "quantum" ("quanto" in italiano), ovvero, parafrasando il dizionario Zanichelli, ad "una quantità estremamente piccola, non ulteriormente divisibile, di grandezze fisiche".


NOTE
1) Le altre poesie sono: Tagiko (p. 25); Dal terrazzo (p. 27); In libreria (p. 29); Capodanno a Milano (p. 33).
2) Dal volume citato, alla pagina 119.

domenica 24 novembre 2019

Antologie: "Il tempo del Ceppo"


Per meglio comprendere il contenuto di questo libro, riporto la sinossi pubblicitaria presente sulla quarta di copertina de Il tempo del Ceppo.

Una godibilissima raccolta (curata da Paolo Fabrizio Iacuzzi) di racconti e poesie di autori italiani, selezionati - e insigniti del Premio Letterario il Ceppo - nell'arco degli ultimi quarant'anni: scrittori che, allora, erano esordienti o già affermati (da Bertolucci a Zanzotto, dalla Banti alla Ortese, da Bevilacqua a Parise), accanto ad esponenti dell'ultima generazione (da Mussapi a Carifi, da Van Straten a Doninelli).
Attraverso l'articolazione della rapidità, peculiare a queste forme espressive, emerge l'aspirazione a confrontare realtà "oggettiva" e visione "personale".
I testi d'autore - fra cui molti inediti - sono accompagnati da brevi e autorevoli giudizi critici (Baldacci, Betocchi, Bigongiari, Lisi, Luzi, Pampaloni e Piccioni), che valgono come un invito alla riflessione e alla lettura.

Aggiungo che l'Accademia Pistoiese del Ceppo, a partire dal 1956, indice e organizza il Premio Letterario Nazionale Ceppo Pistoia, che ad anni alterni viene assegnato ad un'opera in prosa e ad un'opera in versi, uscite nel biennio precedente (della giuria hanno fatto parte personaggi illustri della nostra letteratura come Luigi Baldacci, Carlo Betocchi, Piero Bigongiari e Carlo Bo). Il tempo del Ceppo, pubblicato nel 1997 grazie alla collaborazione delle case editrici Giunti e Camunia, si limita a considerare le opere a cui è stato assegnato questo prestigioso premio nei primi quarant'anni della sua esistenza (dal 1956 al 1995).
Chiarita la sostanza dell'opera, e volendo prendere in considerazione la sola parte dedicata alla poesia, ritengo che in questa antologia ci siano parecchie cose interessanti; soprattutto vi ho trovato un certo numero di opere poetiche molto valide e trascurate (o addirittura ignorate) dalla critica letteraria italiana del Novecento; potrei citare, ad esempio, Le croci di Cartesio di Sergio Salvi, Lo stormire notturno di Francesco Tentori, Nubi di Domenico Rea, Dei fuochi la neve ardente di Paola Lucarini Poggi. Tutte queste raccolte che ho menzionato sono qui adeguatamente ricordate, insieme ad altre di poeti consacrati come Attilio Bertolucci, Bartolo Cattafi, Margherita Guidacci e Maria Luisa Spaziani. Altrettanto interessante è la parte dedicata agli inediti di alcuni autori premiati dall'Accademia del Ceppo. Insomma, si tratta di un'antologia preziosa e intrigante, che vale certamente la pena di leggere. Per concludere riporto i nomi dei poeti i cui versi compaiono nelle 724 pagine di questo libro.


Il tempo del Ceppo



Sergio Salvi, Francesco Tentori Montalto, Margherita Guidacci, Silvio Ramat, Bartolo Cattafi, Domenico Rea, Sebastiano Grasso, Benito Sablone, Roberto Mussapi, Paola Lucarini Poggi, Renzo Barsacchi, Roberto Carifi, Attilio Bertolucci, Maria Luisa Spaziani, Alessandro Ceni, Giorgio Luzzi, Gaio Fratini.


domenica 17 novembre 2019

La poesia di Alberto Frattini


Constatando l'assenza quasi costante del nome di Alberto Frattini (Firenze 1922 - Roma 2007) tra i poeti selezionati nelle antologie della poesia italiana del secolo scorso, mi sono convinto che, visto l'indubbio valore della sua opera poetica, quest'ultima non sia stata mai considerata abbastanza. Ebbe senza dubbi riconoscenze e apprezzamenti il suo considerevole lavoro di critico letterario, che si concentra maggiormente sulla poesia dell'Ottocento e del Novecento (curò anche diverse e interessanti antologie poetiche). La sua poesia, forse perché non è stato mai possibile farla rientrare nelle varie correnti dei suoi tempi, né, tanto meno, si può inserire nella poetica delle avanguardie che, nel cuore del XX secolo, troppo attiravano l'attenzione degli addetti ai lavori, fu sempre trascurata; il nome di Frattini, infatti, non compare quasi mai nelle antologie più famose del secondo dopoguerra. Per quel che mi riguarda, posso dire di conoscere piuttosto bene la prima fase della poesia di Frattini, compresa tra Giorni e sogni (1950) e Tra il nulla e l'amore (1969). Ebbene, leggendo le poesie pubblicate in un preciso ventennio, mi sono reso conto che il critico e poeta fiorentino scrisse versi molto belli. Alcuni di essi si distinguono per la particolare attenzione dedicata agli affetti, ai problemi di attualità, al destino della vita umana e alla religione; quest'ultimo elemento appare frequentemente, poiché il poeta non dimentica mai di porre in evidenza la sua visione cristiana della realtà. Rilevanti sono i due saggi introduttivi presenti nelle prime pagine di Come acqua alpina e di Tra il nulla e l'amore, scritti rispettivamente da Giorgio Barberi Squarotti e Adriano Grande, riguardanti il fare poetico di Frattini; ecco, a tal proposito, cosa scrive Grande:

Si tratta di una poesia, com'è stato osservato da alcuni critici che di essa si sono occupati, fondata specialmente sull'umano e i suoi affetti, sul reale, dei paesaggi e della storia corrente, assunto e trasfigurato, e talora in contrasto drammatico, con motivi e influssi ideali: il tutto su un tessuto d'implicita, e sovente anche esplicita, religiosità.

Oltre a questo esplicativo frammento, mi permetto di aggiungere che la poesia di Frattini possiede delle peculiarità che la avvicinano a quella di altri due poeti fiorentini un po' più anziani: Mario Luzi (1914-2005) e Alessandro Parronchi (1914-2007); in particolare trovo delle somiglianze con due bellissime raccolte di questi maestri della poesia italiana del Novecento: Onore del vero (1957) di Luzi e Coraggio di vivere (1961) di Parronchi, ovvero il picco più alto mai toccato dai due: entrambe sono opere imprescindibili della nostra poesia del secolo scorso, che giustamente hanno fatto scuola. Concludo riportando tre poesie che ho scelto da tre raccolte di Frattini pubblicate nel ventennio citato.




CREPUSCOLO

Quando ogni voce è spenta
e il cielo si scolora
e il vento non è più che una carezza
d'angelo triste su bianchi giardini,
silenzioso discendo nel mio cuore.
Tace il creato assorto nel pallore
nivale dell'azzurro,
senza luce è la terra, ma la notte
ancor non schiuse il suo stellato fiore.
Ora ogni cosa dorme,
in placido stupore,
cullata da una musica lontana.
Nella quiete mi perdo e più non vedo
che la luce smarrita dei miei sogni.

(da "Giorni e sogni", Edizioni «Pagine Nuove», Selci Umbro 1950)






CASA D'INFANZIA

Casa mia antica, dal tuo quieto volto
mi specchio in un cristallo di sorgenti.
Aria e luce ora svegliano il profondo,
sottile rete di sogni.
Questo è paese d'infanzia:
passo felpato di fate
sui tetti, danze di bionde
regine nell'occhio di un bimbo
assorto a pigolanti nidi.
Da qui comincio: delizia
di malinconiche notti,
se un'eco accende sulla corte cupa
allegria di bicchieri e voci e canti.
Questo è paese dell'anima;
scale povere, apritevi a un sorriso:
lieve su voi era l'orma di Gesù
per il mio cuore, rondine sgomenta.

(da "Come acqua alpina", Accademia di Studi «Cielo d'Alcamo», Trapani 1956)






È VERO SOLTANTO QUESTO

Velocità, viscida via volando,
al volante t'ho visto, irreversibile
morte, viola vagabonda
sul verde veleno dei valichi.
Vittima senza vindice, violenza
senza virtù della tua vinta vela.
È vero solo questo, d'invisibile
vena sangue sul volto, chiuso, urlante,
della volk-wagen vis-à-vis col vuoto,
il vano vitreo vortice del vento.

(da "Tra il nulla e l'amore", Quaderni di «Persona», Roma 1969)




lunedì 11 novembre 2019

San Martino


La nebbia a gl'irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;

ma per le vie del borgo
dal ribollir de' tini
va l'aspro odor dei vini
l'anime a rallegrar.

Gira su' ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
su l'uscio a rimirar

tra le rossastre nubi
stormi d'uccelli neri,
com'esuli pensieri,
nel vespero migrar.






San Martino è una delle poesie più conosciute, insieme a Davanti San Guido e a Pianto antico, di Giosuè Carducci (Valdicastello di Pietrasanta 1835 - Bologna 1907); uscì per la prima volta nel volume Rime nuove (1882)¹ e di lì a breve fu inserita nei libri di testo delle scuole italiane, tant'è che anch'io, come molti altri studenti delle generazioni che son venute prima o dopo la mia, hanno dovuto studiare e imparare a memoria questa poesia, che, al di là degli interrogativi sull'obbligo di memorizzare un testo poetico, è molto bella.
A proposito del santo festeggiato nella giornata odierna, la figura di Martino è un po' avvolta nella leggenda, secondo la quale l'uomo, ancora giovane ma già vescovo di Tours (siamo all'incirca verso la metà del IV secolo d. C.), durante una giornata rigida e piovosa vide un mendicante infreddolito e seminudo; impietosito, gli donò metà del suo pesante mantello; a distanza di poco tempo, Martino incontrò un altro mendicante, nelle medesime condizioni del primo, e non esitò a donargli l'altra metà del suo mantello. Passarono pochi minuti e il cielo schiarì, e il sole, grazie ad una anomala potenza dei suoi raggi, in breve tempo rese il clima assai meno rigido, anzi, quasi estivo. Da qui nasce la famosa espressione "Estate di San Martino", ad indicare un ritorno del caldo pur in tempi in cui si annuncia la stagione invernale.

NOTE
1) Il testo qui riportato è tratto dal volume Poesie scelte, Mondadori, Milano 1992, p. 117.