Cosa ci dice la
realtà di oggi? Ci dice che l'ignoranza, l'odio, l'egoismo, la malvagità e il
razzismo, tutti insieme stanno prendendo il sopravvento su larghe fasce della
popolazione europea e non solo. Ci dice che a questo punto non si può escludere
l'ipotesi di una nuova guerra (certamente più cruenta di tutte le precedenti)
causata dalla mancanza totale, negli esseri umani, di quei valori fondamentali
che soli possono garantire la pace, e che si rifanno ai sentimenti fondati
sulla solidarietà e sulla tolleranza, nati dalle esperienze negative vissute
attraverso i secoli della storia. L'umanità, insomma, sembra che, una volta di
più, abbia voglia di cadere nel medesimo errore: di assecondare gli istinti
peggiori e di delegare a personaggi infimi il potere. Di fronte a questo
inquietante scenario europeo e mondiale, non ha più alcun senso continuare a
ricordare ciò che di tremendamente brutto è già successo, a causa di governanti
che predicavano il nazionalismo, che inculcavano il razzismo e che infine
crearono tutti i presupposti per la nascita di un conflitto devastante, quale
fu la Seconda Guerra Mondiale. Malgrado ciò, per coerenza e perché non ne so
fare a meno, anche quest'anno, nell' imminenza dell'importantissima data del 25
aprile, voglio riportare due poesie e un frammento in prosa che parlano di
vittime dell'ultima guerra: vittime dell'ignoranza, dell'odio, dell'egoismo,
della malvagità e del razzismo.
La prima poesia è
di Franco Matacotta (Fermo 1916 - Genova 1978): scrittore di cui ho già parlato
in precedenti post dedicati alla Resistenza; i versi qui presenti furono
pubblicati nella rivista Mercurio,
che uscì mensilmente tra il 1944 ed il 1948. Rivista impegnata sul fronte
antifascista, tra i collaboratori di Mercurio
ci furono nomi celebri come quelli di Corrado Alvaro, Eugenio Montale, Alberto
Moravia e Umberto Saba. Matacotta, in Parole
di sangue dà voce ad una vittima della cieca violenza fascista: un ragazzo
che è stato brutalmente torturato e massacrato da un gruppo di uomini feroci,
capaci di inenarrabili crudeltà nei confronti di un giovane che aveva scelto di
combattere il regime. Da notare che in questo caso Matacotta si firmò con lo
pseudonimo di Francesco Monterosso: lo stesso che usò anche quando diede alle
stampe la raccolta poetica Canzoniere di
libertà (1953).
Io lo ricordo col suo triciclo è una poesia di
Sandro Sinigaglia (Oleggio Castello 1921 - Arona 1990), inclusa nella raccolta Il flauto e la bricolla (1954),
all'interno della sezione Versi per
quattro compagni caduti contro i fascisti. Fu ripubblicata, con qualche
variante, nell'Almanacco. Cronache di vita ticinese n. 10 (1991);
lì è possibile leggere anche una nota non firmata, in cui, con preciso
riferimento ai versi 10 e 11, c'è scritto che si allude ad un eccidio portato a
termine dai nazisti nella città di Arona nell'aprile del 1945. Tra le vittime
anche un gelataio la cui unica colpa era quella di aver prestato un furgoncino
a dei partigiani.
Ho infine scelto
un frammento tratto dal romanzo di Primo Levi (Torino 1919 - ivi 1987): La tregua (1963). Parla di Hurbinek, un
bambino nato, vissuto e morto a soli tre anni, all'interno del campo di
concentramento di Auschwitz. Una descrizione straziante, di una tenera vittima
della ferocia nazista, che non risparmiava i bambini e quindi, come nel caso
del povero Hurbinek, era totalmente indifferente a qualsivoglia tipo di pietà,
anche per una piccola vita che tentava, in qualunque modo, di sopravvivere
all'Olocausto.
PAROLE DI SANGUE
(Dette da un
ragazzo massacrato dai fascisti presso il fiume Tenna)
di Franco
Matacotta
M'hanno preso
dietro una siepe di more
Hanno sparato
sulla mia bocca d'ombra,
Un papavero
presso il mio cuore
È caduto con un
rosso tonfo.
M'hanno spogliato
come un rospo nero,
Nero di fame, di
paura e follia,
M'hanno steso sul
sentiero
Come un pezzo di
biancheria.
Parla! Parla! Ma la
mia bocca di marmo,
Di marmo il
cielo, il sole sulla mia bocca,
Nuca contro le
pietre, sangue nella mia gola di marmo,
Le parole erano
murate nella tomba del mio cuore.
Allora mi
staccarono le mascelle,
Mi strapparono i
denti e li gettarono alle ortiche,
La mia bocca di
sangue, le mie parole di sangue,
Se avessi parlato
non mi avrebbero capito.
Allora mi
strapparono i peli
Come si strappano
spine dalle rose,
Cercavano le mie
parole, ma le mie parole erano sangue,
E il mio petto un
campo di trifogli rossi.
Allora non
potendo trovare le mie parole
Cercarono i miei
pensieri e mi strapparono gli occhi,
Coi coltelli mi
frugarono il cervello
E l'avvoltoio del
buio calò su me dal cielo.
Ora sono là sulla
strada di fango
Pieno di mosche,
di morte, di cecità,
Solo sulla mia
bocca c'è una scrittura di sangue
Che dice sempre,
sempre: Libertà.
(dalla rivista
"Mercurio", annata I, fascicolo 4, dicembre 1944, p. 279)
IO LO RICORDO COL
SUO TRICICLO
di Sandro
Sinigaglia
Dietro la fanfara
borghese
quattro
emorroisse bandiere
che già gli manca
la voce a far
coro
si disperde il
codazzo.
Bruciavano
nell'agonia
chiedevano a
bere!
E il gelatiere
Camillo
uscì.
Così furon
quattordici
i morti per
Arona.
Io lo ricordo col
suo triciclo
oggi che la
stagione
del sorbetto
comincia
e la memoria
degli uomini
passa più in
fretta del pesce.
(da
"Poesie", Garzanti, Milano 1997, p. 43)
Hurbinek era un
nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni
circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel
curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle
donne, che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate
che il piccolo ogni tanto emetteva. Era paralizzato dalle reni in giú, ed aveva
le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso
triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di
asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La
parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno
della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo
selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi
sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena.
[...] Hurbinek,
che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un
albero, – Hurbinek, che aveva combattuto
come un uomo, fino all'ultimo respiro, per conquistarsi l'entrata nel mondo
degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il
senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio
di Auschwitz; Hurbinek morì ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non
redento. Nulla resta di lui - egli testimonia attraverso queste mie parole.
(da "La
tregua" di Primo Levi, Einaudi, Torino 1997, pp. 22-24)