martedì 24 aprile 2018

Tre vittime del nazifascismo in due poesie e un frammento in prosa


Cosa ci dice la realtà di oggi? Ci dice che l'ignoranza, l'odio, l'egoismo, la malvagità e il razzismo, tutti insieme stanno prendendo il sopravvento su larghe fasce della popolazione europea e non solo. Ci dice che a questo punto non si può escludere l'ipotesi di una nuova guerra (certamente più cruenta di tutte le precedenti) causata dalla mancanza totale, negli esseri umani, di quei valori fondamentali che soli possono garantire la pace, e che si rifanno ai sentimenti fondati sulla solidarietà e sulla tolleranza, nati dalle esperienze negative vissute attraverso i secoli della storia. L'umanità, insomma, sembra che, una volta di più, abbia voglia di cadere nel medesimo errore: di assecondare gli istinti peggiori e di delegare a personaggi infimi il potere. Di fronte a questo inquietante scenario europeo e mondiale, non ha più alcun senso continuare a ricordare ciò che di tremendamente brutto è già successo, a causa di governanti che predicavano il nazionalismo, che inculcavano il razzismo e che infine crearono tutti i presupposti per la nascita di un conflitto devastante, quale fu la Seconda Guerra Mondiale. Malgrado ciò, per coerenza e perché non ne so fare a meno, anche quest'anno, nell' imminenza dell'importantissima data del 25 aprile, voglio riportare due poesie e un frammento in prosa che parlano di vittime dell'ultima guerra: vittime dell'ignoranza, dell'odio, dell'egoismo, della malvagità e del razzismo.
La prima poesia è di Franco Matacotta (Fermo 1916 - Genova 1978): scrittore di cui ho già parlato in precedenti post dedicati alla Resistenza; i versi qui presenti furono pubblicati nella rivista Mercurio, che uscì mensilmente tra il 1944 ed il 1948. Rivista impegnata sul fronte antifascista, tra i collaboratori di Mercurio ci furono nomi celebri come quelli di Corrado Alvaro, Eugenio Montale, Alberto Moravia e Umberto Saba. Matacotta, in Parole di sangue dà voce ad una vittima della cieca violenza fascista: un ragazzo che è stato brutalmente torturato e massacrato da un gruppo di uomini feroci, capaci di inenarrabili crudeltà nei confronti di un giovane che aveva scelto di combattere il regime. Da notare che in questo caso Matacotta si firmò con lo pseudonimo di Francesco Monterosso: lo stesso che usò anche quando diede alle stampe la raccolta poetica Canzoniere di libertà (1953).
Io lo ricordo col suo triciclo è una poesia di Sandro Sinigaglia (Oleggio Castello 1921 - Arona 1990), inclusa nella raccolta Il flauto e la bricolla (1954), all'interno della sezione Versi per quattro compagni caduti contro i fascisti. Fu ripubblicata, con qualche variante, nell'Almanacco. Cronache di vita ticinese n. 10 (1991); lì è possibile leggere anche una nota non firmata, in cui, con preciso riferimento ai versi 10 e 11, c'è scritto che si allude ad un eccidio portato a termine dai nazisti nella città di Arona nell'aprile del 1945. Tra le vittime anche un gelataio la cui unica colpa era quella di aver prestato un furgoncino a dei partigiani.
Ho infine scelto un frammento tratto dal romanzo di Primo Levi (Torino 1919 - ivi 1987): La tregua (1963). Parla di Hurbinek, un bambino nato, vissuto e morto a soli tre anni, all'interno del campo di concentramento di Auschwitz. Una descrizione straziante, di una tenera vittima della ferocia nazista, che non risparmiava i bambini e quindi, come nel caso del povero Hurbinek, era totalmente indifferente a qualsivoglia tipo di pietà, anche per una piccola vita che tentava, in qualunque modo, di sopravvivere all'Olocausto.



PAROLE DI SANGUE
(Dette da un ragazzo massacrato dai fascisti presso il fiume Tenna)
di Franco Matacotta

M'hanno preso dietro una siepe di more
Hanno sparato sulla mia bocca d'ombra,
Un papavero presso il mio cuore
È caduto con un rosso tonfo.

M'hanno spogliato come un rospo nero,
Nero di fame, di paura e follia,
M'hanno steso sul sentiero
Come un pezzo di biancheria.

Parla! Parla! Ma la mia bocca di marmo,
Di marmo il cielo, il sole sulla mia bocca,
Nuca contro le pietre, sangue nella mia gola di marmo,
Le parole erano murate nella tomba del mio cuore.

Allora mi staccarono le mascelle,
Mi strapparono i denti e li gettarono alle ortiche,
La mia bocca di sangue, le mie parole di sangue,
Se avessi parlato non mi avrebbero capito.

Allora mi strapparono i peli
Come si strappano spine dalle rose,
Cercavano le mie parole, ma le mie parole erano sangue,
E il mio petto un campo di trifogli rossi.

Allora non potendo trovare le mie parole
Cercarono i miei pensieri e mi strapparono gli occhi,
Coi coltelli mi frugarono il cervello
E l'avvoltoio del buio calò su me dal cielo.

Ora sono là sulla strada di fango
Pieno di mosche, di morte, di cecità,
Solo sulla mia bocca c'è una scrittura di sangue
Che dice sempre, sempre: Libertà.

(dalla rivista "Mercurio", annata I, fascicolo 4, dicembre 1944, p. 279)




IO LO RICORDO COL SUO TRICICLO
di Sandro Sinigaglia

Dietro la fanfara borghese
quattro emorroisse bandiere
che già gli manca
la voce a far coro
si disperde il codazzo.
Bruciavano nell'agonia
chiedevano a bere!
E il gelatiere Camillo
uscì.
Così furon quattordici
i morti per Arona.
Io lo ricordo col suo triciclo
oggi che la stagione
del sorbetto comincia
e la memoria degli uomini
passa più in fretta del pesce.

(da "Poesie", Garzanti, Milano 1997, p. 43)






Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle donne, che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva. Era paralizzato dalle reni in giú, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena.
[...] Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero, –  Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all'ultimo respiro, per conquistarsi l'entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morì ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui - egli testimonia attraverso queste mie parole.

(da "La tregua" di Primo Levi, Einaudi, Torino 1997, pp. 22-24)

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