sabato 15 dicembre 2012

Il freddo in 20 brani letterari

Esistono due tipi di freddo.
C'è il freddo esterno, che percepisco a partire dal mese di dicembre, e che mi crea fastidi e dolori, poiché io mal sopporto la stagione invernale, soprattutto quando è più cruda del solito, con tante giornate rigide, quando il freddo penetra nelle ossa e causa sofferenza. Dicembre, gennaio e febbraio sono i mesi in cui questo freddo la fa da padrone, e non se ne va fino all'arrivo della primavera, che a volte giunge - ahimè - in ritardo, facendo sì che l'inverno si prolunghi ulteriormente. 
C'è, pure, un freddo interno, che io ho cominciato ad avvertire fin dall'adolescenza, ogniqualvolta mi accorgevo di essere completamente solo, in disarmonia con tutti gli esseri umani che mi circondavano. Mi rendevo conto di avere pensieri, sentimenti, opinioni ed emozioni che nulla o quasi avevano a che vedere con il resto dell'umanità. Quando, negli anni che seguirono, cercai in ogni modo qualcosa che potesse unirmi minimamente, almeno ad un essere umano, per brevi periodi m'illusi di averlo trovato; poi, finalmente capii che ciò era impossibile. Così, il mio isolamento crebbe, e alla stessa stregua si fece più intenso il freddo all' interno della mia anima, sempre più scoraggiata e convinta di essere predestinata ad una vita vuota di comprensione ed affetto. Ora, questo tipo di freddo è aumentato in modo considerevole, forse acuito dalla solitudine cronica che caratterizza e caratterizzerà la mia esistenza. Ora, tra me ed il resto dell'umanità c'è un abisso incolmabile. Sto in un luogo desolato, dove c'è un vento gelido che non smette mai di soffiare, e di lontano non scorgo alcuna forma vivente, soltanto ghiaccio e nebbia che s'infittisce sempre di più, coprendo completamente l'orizzonte.




Il freddo in 20 brani letterari


I.

E Johnny entrò nel ghiaccio e nella tenebra, nella mainstream del vento. L'acciaio delle armi gli ustionava le mani, il vento lo spingeva da dietro con una mano inintermittente, sprezzante e defenestrante, i piedi danzavano perigliosamente sul ghiaccio affilato. Ma egli amò tutto quello, notte e vento, buio e ghiaccio, e la lontananza e la meschinità della sua destinazione, perché tutti erano i vitali e solenni attributi della libertà.

(Da "Il partigiano Johnny" di Beppe Fenoglio)
 
 
 

II. ALLEGRIA

Faceva freddo. Il vento
mi tagliava le dita.
Ero senza fiato. Non ero
mai stato più contento.

(Da "Tutte le poesie" di Giorgio Caproni)
 

 
 
III.

Era mattina. Me ne stavo nella postazione piu avanzata sopra il ghiaccio del fiume e guardavo il sole che sorgeva dietro il bosco di roveri sopra le postazioni dei russi. Guardavo il fiume ghiacciato da su dove compariva dopo una curva fin giù dove scompariva in un'altra curva. Guardavo la neve e le peste di una lepre sulla neve: andavano dal nostro caposaldo a quello dei russi. "Se potessi prendere la lepre!", pensavo. Guardavo attorno tutte le cose e dicevo: - Buon Natale! - Era troppo freddo star lì fermo e risalendo il camminamento rientrai nella tana della mia squadra. - Buon Natale! - dissi, - buon Natale!

(Da "Il sergente nella neve" di Mario Rigoni Stern)
 
 

 
IV. VENNERO I FREDDI

Vennero i freddi,
con bianchi pennacchi e azzurre spade
spopolarono le contrade.
Il riverbero dei fuochi splendé calmo nei vetri.
La luna era sugli spogli orti invernali.

(Da "Le poesie" di Attilio Bertolucci)
 
 



V.

Il treno viaggiava lentamente. Comparvero a sera villaggi bui, apparentemente deserti, poi scese una notte totale, atrocemente gelida, senza luci in cielo né in terra. Solo i sobbalzi del vagone ci impediva di scivolare in un sonno che il freddo avrebbe reso mortale. Dopo interminabili ore di viaggio, forse verso le tre di notte, ci arrestammo finalmente in una stazioncina sconvolta e oscura.
Il greco delirava (parlava di velieri, coste e mari...): degli altri, quale per paura, quale per pura inerzia, quale nella speranza che il treno ripartisse presto nessuno volle scendere dal vagone.
Io scesi, e mi aggirai nel buio col mio bagaglio ridicolo finché vidi una finestrella illuminata. Era la cabina del telegrafo, gremita di gente: c'era una stufa accesa. Entrai, guardingo come un cane randagio, pronto a sparire al primo gesto di minaccia, ma nessuno badò a me.
Mi buttai sul pavimento e mi addormentai all'istante, come si impara a fare in Lager.

(Da "La tregua" di Primo Levi)
 


 
VI. NOTTE BOLSCEVICA

Noi eravamo soli nella stanza
d'ingresso d'una casa abbandonata,
un poco antica. Spenta era la stufa.
Deserta la contrada e segregata.

Un po' di brace, triste, balenava
in quella stanza torbida e glaciale.
La sera, col crepuscolo confusa,
traspariva, dai vetri, sepolcrale.

Notte da lupi, lunga, tenebrosa.
Colmo di neve tutto il vasto piano.
E noi, in casa, soli con le icone,
sgomenti pel nemico non lontano.

M'era concesso d'esser testimonio
di tempi abominevoli e spietati;
ed era tanto gelido il mio cuore,
quanto quei vetri lugubri agghiacciati.

(Ivan Alekséevic Bunin in "Orfeo. Il tesoro della lirica universale")

 


VII.

La giornata era fredda, ma luminosa, il paesaggio nitido: gli alberi, i campi, le rocce davano l’impressione di una gelida fragilità, come se un colpo di vento o un urto potesse frantumarli in un suono di vetro. E come vetro l’aria vibrava del motore della seicento; e grandi uccelli neri volavano come dentro un labirinto di vetro, improvvisamente virando o strapiombando o verticalmente avvitando in su il volo come tra invisibili pareti.

(Da "Il giorno della civetta" di Leonardo Sciascia)
 


 
VIII. I VIALI IRRIGIDITI

I viali irrigiditi
nell'argento delle brine,
s'allungavan senza fine
come zuccheri canditi.

Giù dai rami scheletriti
era un vol di farfalline,
eran petali e perline
bianche, fiori seleniti.

Come dolce era l'andare
sotto il bianco incantamento
presso presso, e stretti al braccio...

Le parole usate e care
s'involavan pure al vento,
... ma non erano di ghiaccio.

(Da "Buchi nella sabbia e pagine invisibili" di Ernesto Ragazzoni)
  



IX.

E l'inverno si fece così freddo, così freddo!... L'anitroccolo doveva nuotare e nuotare senza posa per isfuggire al gelo. Ma ogni notte il buco dove nuotava si faceva più piccino, sempre più piccino. Era così freddo, che la superficie del ghiaccio scricchiolava. L'anitroccolo doveva agitare continuamente le gambe, per impedire che il buco finisse di chiudersi. Finalmente, si sentì esausto, si abbandonò lì, senza muoversi più, e così rimase, quasi gelato, sul ghiaccio.

(Da "Il brutto anitroccolo" di Hans Christian Andersen)
 
 


X. MATTINO

Gela sul palo l'orina del cane
trascinato da un vecchio stizzoso,
chiuso nel suo tabarro,
che lo sgrida con nuvole di nebbia,
«andiamo, dài, mi fai crepare».

(Da "Il cavallo saggio" di Gianni Rodari)
 
 


XI.

Fu un inverno freddo. I vetri, la mattina, erano coperti da uno strato di gelo e la luce che filtrava attraverso essi, biancastra come quella dei vetri smerigliati, si manteneva talvolta uguale per tutta la giornata. Alle quattro del pomeriggio bisognava già accendere il lume.
Nelle belle giornate, Emma scendeva in giardino. La brina aveva posato sui cavoli merletti d'argento con lunghi fili chiari che andavano da un cespo all'altro. Gli uccelli tacevano, tutto sembrava addormentato, la spalliera coperta di paglia, e la vigna, simile a un grande serpente malato sotto la sporgenza del muro, dove, avvicinandosi, era possibile scorgere i centopiedi trascinarsi sulle innumerevoli gambe.

(Da "Madame Bovary" di Gustave Flaubert)
 


 
XII. IL FREDDO

Una città nell'aria periferica
non brilla, si levi o discenda
il nuovo ferro, una ruggine vi s'appiglia,
antico sempre. Di fuori l'autunno,
se ne godono i muri che s'allungano
all'infinito, cada su dicembre
la prospettiva e il freddo duri, quello
vero, laggiù da Abele a Zaccaria...
e la fortuna per fuggir d'aprile?
averlo un tetto che lo schiuda il cuore
dalla neve di Dio, penetrato
dolcemente - non è certo vendetta
la vecchiaia, la più lenta giustizia
che ti raffredda mentre sei a letto.

(Da "Poesie" di Michele Pierri)
 
 


XIII.

E così la bambina camminava coi piccoli piedi nudi, fatti rossi e turchini dal freddo: aveva nel vecchio grembiale una quantità di fiammiferi, e ne teneva in mano un pacchetto. In tutta la giornata, non era riuscita a venderne uno; nessuno le aveva dato un soldo; aveva tanta fame, tanto freddo, e un visetto patito e sgomento, povera creaturina... I fiocchi di neve le cadevano sui lunghi capelli biondi, sparsi in bei riccioli sul collo; ma essa non pensava davvero ai riccioli! Tutte le finestre scintillavano di lumi; per le strade si spandeva un buon odorino d'arrosto; era la vigilia del capo d'anno: a questo pensava.

(Da "La piccina dei fiammiferi" di Hans Christian Andersen)
 
 


XIV. AVVENIRE

La luna si fa più distinta,
la neve cessò di cadere:
in gelida morsa serrati
dovremo noi sempre restare?
s'approssima nuova tempesta:
guardate: nel pallido cielo
un fulgido lampo è passato!

(Takeshi Yanagisawa in "Orfeo. Il tesoro della lirica universale")
 
 


XV.

Egli fece con la spalla un gesto di dispettoso consentimento; l'aiutò a rimettersi la pelliccia e il cappellino; poi egli pure si mise il cappello, prese il bastone e le chiavi di casa, spense i lumi, e uscirono. La scala era buia. Paolo provò la sensazione, per la prima volta in quella casa, di uscire da un albergo, di nascosto del padrone, con una donna raccattata per via.
Aprì la porta di strada, e si trovarono all'aria aperta. Era un freddo acuto: in alto, nel cielo vasto e profondo, le stelle scintillavano, pure e innumerabili. Egli offrì il braccio a Leona, che vi si appoggiò mollemente. Una campana lontana chiamava i fedeli alla messa di mezzanotte.

(Da "L'innamorata" di Evelina Cattermole)
 
 

 
XVI. C'ERA AI VETRI DI FREDDO DEL NATALE

 C'era ai vetri di freddo del Natale
tra i graffi dei bambini anche il tuo nome.
Io bevevo il caffè, dicevo come
potrò vederla, càpita che il male
paziente all'improvviso m'allontani
nell'ansia dell'averti ove non sei.

Ma sei dovunque l'ora dei cortei
che passano, la festa del domani.

(Da "Poesie d'amore" di Alfonso Gatto)
 
 


XVII.

Voi festeggiate l'inverno... Ma ci son dei ragazzi che non hanno né panni, né scarpe, né fuoco. Ce ne son migliaia i quali scendono ai villaggi, con un lungo cammino, portando nelle mani sanguinanti dai geloni un pezzo di legno per riscaldare la scuola. Ci sono centinaia di scuole quasi sepolte fra la neve, nude e tetre come spelonche, dove i ragazzi soffocano dal fumo o battono i denti dal freddo, guardando con terrore i fiocchi bianchi che scendono senza fine, che s'ammucchiano senza posa sulle loro capanne lontane, minacciate dalle valanghe. Voi festeggiate l'inverno, ragazzi. Pensate alle migliaia di creature a cui l'inverno porta la miseria e la morte.

(Da "Cuore" di Edmondo De Amicis)
 
 


XVIII. IL FREDDO

Nel piccolo caffè dell'alta rocca
sto seduto fra i borghigiani
mentre la tramontana
spiffera per le viuzze
e il freddo nell'interno mi rintana.
Da dietro i vetri guardo la pianura
a picco, immensa; le prime faville
s'accendono della città lontana,
ma il mio cuore è un baratro desolato.
Poesia, poesia, siedi al mio tavolo,
stammi vicino, fammi compagnia
come sempre me l'hai fatta,
tu sola e vera moglie della mia vita.

(Da "La luce ricorda" di Giorgio Vigolo)
 
 


XIX.

Una volta - fra tutti i giorni dell'anno, la vigilia di Natale, - il vecchio Scrooge stava lavorando nel suo ufficio. Era una giornata fredda, sinistra, pungente, nebbiosa; ed egli poteva sentire, fuori nel cortile, la gente passeggiare in su e in giù e picchiarsi il petto con le mani e pestare i piedi sulle pietre del lastrico per riscaldarsi. Gli orologi della città avevano appena battuto le tre, ma era già completamente buio; del resto, non c'era mai stata luce in tutta la giornata; e nelle finestre degli uffici vicini luccicavano le candele, simili a macchie rossastre sulla densa aria bruna. La nebbia si infiltrava attraverso le fessure e la serratura e fuori era così densa che, per quanto il cortile fosse uno dei più angusti, le case di fronte non erano che puri fantasmi. Vedere quella nuvola scura scendere lentamente in basso ed oscurare tutto quanto, faceva pensare che la Natura vivesse a due passi di lì e stesse fabbricando birra su larga scala.

(Da "Cantico di Natale" di Charles Dickens)
 
 


XX.

Esco, nel freddo di gennaio, e il cuore
caldo d'amore, d'un subito, al nevischio
che mi sferza, grida: ben venga il gelo
a custodirti, mistero amoroso, poi
che non sei concesso a chi già invecchia,
se non come pacata solitudine
del gelo, ed armonia di cose eterne.

(Da "Tutte le poesie" di Carlo Betocchi).







 

martedì 11 dicembre 2012

Poeti dimenticati: Mario Giobbe

Mario Giobbe nacque a Napoli nel 1863 e ivi morì nel 1906. Talento precoce, ottenne la laurea in legge a soli diciotto anni, dedicandosi poi totalmente al giornalismo; famosi sono i suoi articoli pubblicati sui giornali dell'epoca, che denotano una cura quasi maniacale per il linguaggio raffinato. Nel contempo Giobbe maturò la passione per la poesia che si estrinsecò sia in ottime traduzioni (soprattutto di autori classici greci), sia in versi suoi, che pubblicò in riviste e in due volumi apparsi tra il 1889 ed il 1891. La poesia di Giobbe è certamente legata alla tradizione ottocentesca italiana (i suoi punti di riferimento sono i romantici, Guerrini e D'Annunzio), ed è l'argomento amoroso che prevale nettamente sugli altri. In età matura lo scrittore napoletano fu colpito da una depressione che progressivamente peggiorò il suo stato mentale, fino a portarlo al suicidio quando aveva appena quarantadue anni.
 
 
 
Opere poetiche
"I primi versi", Corriere di Napoli-Luigi Pierro, Napoli 1889.
"Gli amori", Bideri, Napoli 1891.
 


Frontespizio del volume "I primi versi" di Mario Giobbe


 
Testi
BIANCA

Io v'ho, Bianca, rivista. Oh, voi non vale
niun'altra bellezza, ed io mi scuso
se d'amare altra femmina ricuso
come per voto. In fiero atto regale

voi passaste, e una dolce meraviglia
il cor de i riguardanti conquistò,
ognun con disiose, immote ciglia
sino in fondo a la via v'accompagnò.

Un cor di lodi allor subitamente
levossi intorno, e ognun s'estasiava
lodandovi. Sol io, muto, tremava,
come per suo rimorso un delinquente.

Né rimorso maggior credo che sia
di questo che ne l'anima mi sta:
d'aver con voi, per non so qual follia,
ripudiato la felicità.
...

(Da "Gli amori")

lunedì 10 dicembre 2012

Antologie: "Le più belle pagine dei poeti d'oggi"

"Le più belle pagine dei poeti d'oggi" è il titolo di una mastodontica antologia pubblicata dall'editore Carabba in Lanciano e curata dal critico e poeta Olindo Giacobbe. La prima edizione di questa interessantissima opera uscì nel 1922, e comprendeva 5 volumi, ciascuno di oltre 200 pagine. Ben più consistente e allargata è la successiva edizione che fu data alle stampe nel 1929, e che poteva vantare ben 8 volumi e versi selezionati di 161 poeti più o meno famosi ai quali fu dato uno spazio non indifferente, anche se, per ognuno, risulta assente una presentazione degna di tal nome, visto che Giacobbe si limita a riportare brevi bio-bibliografie e veloci commenti sui poeti (questi ultimi scelti tra quelli già pubblicati in libri, riviste e giornali dell'epoca). Nell'ultimo volume dell'antologia, esaurite le poesie dei poeti preselezionati (presentati in ordine alfabetico), in una appendice sono ripescati i nomi di altri scrittori dapprima esclusi dall'opera. Per "poeti d'oggi", naturalmente, il compilatore voleva intendere i poeti del suo tempo, ovvero coloro che furono attivi nel primo trentennio del XX secolo. Analizzando i poeti antologizzati, è facile notare che gli esclusi sono ben pochi e che, al contrario, il curatore ha abbondato nelle inclusioni, ivi comprese quelle di poeti prettamente ottocenteschi, i quali risultano un po' fuori posto, vista la decisione, da parte di Giacobbe, di non inserire nella mischia la famosa triade Carducci-Pascoli-D'Annunzio. Sorprende, visti i tempi in cui uscì l'antologia, trovare, tra tanti nomi di sconosciuti o giù di lì, anche il grande Eugenio Montale, che all'epoca aveva pubblicato soltanto la raccolta "Ossi di seppia". Ma ecco, per concludere, tutti i nomi dei poeti presenti nella 2° edizione di "Le più belle pagine dei poeti d'oggi".
 



Copertina anteriore del volume I della 2° edizione di "Le più belle pagine dei poeti d'oggi"


VOL. I

Sibilla Aleramo, Corrado Alvaro, Antonio Aniante, Antonino Anile, Riccardo Balsamo Crivelli, Sem Benelli, giovanni Bertacchi, Ugo Betti, Pompeo Bettini, Bino Binazzi, Piero Bolzon, Massimo Bontempelli, Giuseppe Antonio Borgese, Giosuè Borsi, Ettore Botteghi, Paolo Buzzi, Aniello Calcàra, Dino Campana, Francesco Cangiullo, Vincenzo Cardarelli.



VOL. II

Enrico Cardile, Silvio Catalano, Enrico Cavacchioli, Giovanni Cavicchioli, Francesco Cazzamini Mussi, Emilio Cecchi, Giovanni Cena, Annunzio Cervi, Giovanni Alfredo Cesareo, Giovanni Chiapparini, Carlo Chiaves, Francesco Chiesa, Mario Chini, Franco Ciarlantini, Antonio Cippico, Guelfo Civinini, Sergio Corazzini, Ettore Cozzani, Gino Cucchetti, Auro d'Alba, Guglielmo Felice Damiani, Adolfo De Bosis.



VOL. III

Federico De Maria, Gaetano Di Biasio, Giacomo Etna, Giuseppe Fedele, Lionello Fiumi, Luciano Folgore, Francesco Gaeta, Antonio Galeazzo Galeazzi, Augusto Garsia, Amelia Gasparetto, Vincenzo Gerace, Ugo Ghiron, Luisa Giaconi, Giulio Gianelli, Elio Gianturco, Cesare Giardini, Cosimo Giorgieri-Contri, Domenico Giuliotti, Gino Gori, Corrado Govoni.



VOL. IV

Guido Gozzano, Luigi Grilli, Amalia Guglielminetti, Piero Jahier, Francesco Lanza, Giovanni Lattanzi, Giuseppe Lipparini, Vittorio Locchi, Giuseppe Longo, Gian Pietro Lucini, Nino Maccari, Olindo Malagodi, Malaprarte (Curzio Suckert), G. Manzella Frontini, Enzo Marcellusi, Nicola Marchese, Marino Marin, Filippo Tommaso Marinetti, Guido Marta.



VOL. V

Fausto Maria Martini, Pietro Mastri (Pirro Masetti), Riccardo Mazzola, Francesco Meriano, Pietro Mignosi, Eugenio Montale, Marino Moretti, Curio Mortari, Nicola Moscardelli, Renato Mucci, Mercede Mundula, Ada Negri, Paolo Nobile, Angiolo Silvio Novaro, Raissa Olkienizkaia-Naldi, Arturo Onofri, Giulio Orsini, Luigi Orsini.



VOL. VI

Angiolo Orvieto, Nino Oxilia, Aldo Palazzeschi, Ferdinando Paolieri, Giovanni Papini, Ferdinando Pasini, Corrado Pavolini, Enrico Pea, Guido Pereyra, Edvige Pesce Gorini, Renzo Pezzani, Valentino Piccoli, Luca Pignato, Luigi Pirandello, Carlo Ravasio, Giuseppe Ravegnani, Clemente Rebora, Alda Rizzi, Ceccardo Roccatagliata-Ceccardi, Ettore Romagnoli.



VOL. VII

G. Titta Rosa, Cesarina Rossi, Umberto Saba, Carlo Saggio, Luisa Santandrea, Francesco Sapori, Margherita Grassini Sarfatti, Sebastiano Satta, Camillo Sbarbaro, Giuseppe Sciortino, Luigi Siciliani, Niccolò Sigillino, Tomaso Sillani, Ardengo Soffici, Maria Stella, Carlo Stuparich, Marcello Taddei, Enrico Thovez, Domenico Tumiati, Teresa Ubertis (Térésah), Aurelio Ugolini, Giuseppe Ungaretti, Nicola Valenza.



VOL. VIII

Diego Valeri, Luigi Valli, Fausto Valsecchi, Ruggero Vasari, Mario Venditti, Nicola Vernieri, Guido da Verona, Pietro Zanfrognini, Giuseppe Zucca, Emilio Agostini, Andrea Agueci, Carlo Baccari, Alfredo Baccelli, Sandro Baganzani, Leopoldo Baroni, Calogero Bonavia, Alfredo Catapano, Umberto Mancuso.

domenica 9 dicembre 2012

Notte di Natale

Ardon gli astri nell'ombra e le campane
si rispondono querule e sonore;
così una voce piange in fondo al cuore
per desiderio di cose lontane.

Oh avere adesso in questa greve festa
notturna che di buon incenso tepe
una piccola valle di presepe,
anche di cera, anche di cartapesta.

Aver magari tutto un paesaggio
di Terrasanta coi laghi di vetro,
le pie casette col lumino dietro
e la stella che in alto fa viaggio;

e ascoltare con l'anima che sogna
la musica improvvisa che s'aduna
semplicemente, dietro un soffio, in una
esiliata anima di zampogna;

mentre ardon gli astri e piangon le campane
e le finestre sono tanti lumi...
(oh dolce cuore perché ti consumi
in desiderio di cose lontane?).

Sì, sì, anche giocattoli! Oh la chiara
stanza dove una mano frettolosa
e occulta preparò la bella cosa,
la bella cosa che or non più si prepara!

Non le piccole sfere di cristallo
o tremule d'argento né le stelle
di talco ardenti come ceri, quelle
piccole zone d'oro e di metallo...

Ardono gli astri, ed ecco le campane.
Salgon le nebbie pallide dai fiumi.
O dolce cuore, perché ti consumi
in desideri di cose lontane?

(Da "Poesie scritte col lapis" di Marino Moretti, Mondadori, Milano 1970)



 
 
Ecco una poesia tipica del primo Marino Moretti: quello più crepuscolare. È tutta pervasa dalla nostalgia di vecchie usanze e di passati entusiasmi che caratterizzavano, un secolo fa, la festa del Natale. L'occasione al poeta è data dall'annuale ripresentarsi della ricorrenza, coi suoi inconfondibili suoni e le sue tradizionali immagini, in un tempo in cui l'uomo ha perduto tutti gli slanci per quelle cose estremamente coinvolgenti quando si vivono in età infantile. Allora non rimane che ricordare quei fantastici momenti di felicità, elencando gli oggetti tanto cari e mai dimenticati: il presepe fatto di elementi semplici e poveri, i lumini, i giocattoli, le sfere di cristallo, le stelle di talco... È in tal modo (e soltanto in questo) che Moretti riesce illusoriamente a rivivere un tempo ormai lontano e irripetibile: quello del Natale dei bambini.

sabato 8 dicembre 2012

Poeti dimenticati: Alfredo Petrucci

Alfredo Petrucci nacque a San Nicandro Garganico nel 1888 e morì a Roma nel 1969. Dopo la laurea in Lettere ottenuta a Napoli, si trasferì nella capitale italiana dove, nel 1941, venne insignito del prestigioso incarico di direttore del Gabinetto Nazionale delle Stampe di Roma che ricoprì per dodici anni. Storico dell'arte, incisore e scrittore, Petrucci è autore di numerosi saggi sulla storia dell'incisione europea e dell'arte italiana; scrisse anche elzeviri, prose e poesie. Queste ultime, raccolte in vari volumi, mostrano un carduccianesimo iniziale che via via si evolve a favore di poetiche più moderne e dell'ermetismo in particolar modo.
 
 
 
Opere poetiche
"Ruit hora", Perrella, Napoli 1910.
"Piccolo poema dei nostri giorni", Giuntini-Bentivoglio, Siena 1918.
"La radice e la fronda", La Italiana, Roma 1930.
"Tre paesi, tre canti", Arti grafiche Pescatore, Foggia 1950.
"Esitazione della sera", Danesi, Roma 1951.
"Dietro l'opaca siepe", Amministrazione provinciale, Foggia 1979.
 


 
 
Presenze in antologie
"Novissima antologia", a cura di Pasquale Ceravolo, Tip. Carrara, Bergamo 1929 (pp. 281-285).
 
 
 
Testi
STILLICIDIO

Oh questa goccia
che stilla
giù da la doccia
tranquilla
secca ed eguale
come uno strale!

Oh questa goccia
che batte
su le disfatte
mie tempie come un martello,
questo succhiello
che punge fora
divora!

Tarlo tenace
che picchia
rosicchia
nello squallore
notturno del cuore
che non ha pace,
pietà!

Pietà, non stillare
più!
Pietà, non picchiare
più!
Pietà, non forare
più!

Notte, e tu avvolgimi nelle
tue sciarpe di stelle,
ripetimi il canto
lontano della mia culla,
rinnova l'incanto
smarrito della fanciulla
età,
dammi tu l'oblivioso
riposo,
pietà!

(Da "La radice e la fronda")

giovedì 6 dicembre 2012

Il cipresso nella poesia italiana decadente e simbolista

La simbologia del cipresso, come si può facilmente intuire, è strettamente connessa all'oltretomba e la presenza di questi alberi nei cimiteri lo dimostra. Il cipresso, sempre per lo stesso motivo ma anche perchè sempreverde, rappresenta la vita eterna; la sua forma, che suggerisce un innalzamento verso il cielo, è stata collegata all'anima che sale verso il regno divino. In altri casi questo albero ha attinenza con la luce (perché la sua forma ricorda vagamente quella della fiamma) e con il dolore.
 
 
 
Poesie sull'argomento
Diego Angeli: "I cipressi legati" in "L'Oratorio d'Amore" (1904).
Enrico Cavacchioli: "Convegno tra i cipressi" in "L'Incubo Velato" (1906).
Guelfo Civinini: "L'albero che ascolta" in "I sentieri e le nuvole" (1911).
Adolfo De Bosis: "Cipressi isnelli..." in "Amori ac silentio e Le rime sparse" (1914).
Diego Garoglio: "Spiriti fraterni" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).
Cosimo Giorgieri Contri: "Il convegno dei cipressi" in "Il convegno dei cipressi" (1894).
Domenico Gnoli: "Tra i cipressi" in "Nuove odi tiberine" (1885).
Domenico Gnoli: "Il cipresso" in "Fra terra e astri" (1903).
Corrado Govoni "I cipressi e le rose" e "Il cipresso" in "Gli aborti" (1907).
Arturo Graf: "Al cipresso" in "Le Danaidi" (1897).
Giuseppe Lipparini: "Cipressi" in "Stati d'animo e altre poesie" (1917).
Fausto Maria Martini: "In cordis vigilia" e "Il cipresso" in "Le piccole morte" (1906).
Pietro Mastri: "Il cipresso inghirlandato" in "La Meridiana" (1920).
Aldo Palazzeschi: "Guardie di notte" in "Poemi" (1909).
Giovanni Pascoli: "Il cuore del cipresso" in "Myricae" (1900).
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: "Il cipresso" in "Sonetti e poemi" (1910).
Aurelio Ugolini: "Inter viburna cupressi..." in "Viburna" (1905).
 
 
 
 
Testi
IL CIPRESSO
di Domenico Gnoli

Ho abbracciato coll'anima un fosco
obelisco vivente, un cipresso
solitario sull'erma collina
nella luce vespertina.
L'ho penetrato l'ho vissuto
tutto, dal tronco all'acuto
vertice; colle serpenti
radici dalle latenti
mammelle della terra madre
ho succhiato. coll'umore
della vita, l'amore
e il dolore.

Per rimmobilità del mio tronco,
de' miei rami, dell'irte fogliuzze
aspiranti il sereno e la piova,
su su per la mia nova
funerea compostezza
saliva una tenerezza
di cari morti, una tristezza
di passato, un senso d'addio,
un desiderio d'oblio.

A un soffio soave di vento
dondolavo la cima con lento
abbandono, accennavo un saluto
al silenzio disteso
dall'azzurro lontano del monte
a' pascoli verdi, all'acceso
giro dell'orizzonte.
Solo, non udita
da alcuno, pigolava una vita
di gemiti e piccoli stridi
dal tepore de' nidi
nascosti amorosamente
dentro le fide làtèbre
della vita dolente.

(Da "Poesie edite e inedite")

mercoledì 5 dicembre 2012

Da "Rassegnazione" di Luigi Capuana

La mia timidezza proveniva, in gran parte, dal convincimento della inferiorità fisica a cui mi credevo condannato, e dal sentimento della mia inferiorità intellettuale che giudicavo dovesse risultare da quella.
Non già che io mi stimassi uno sciocco, no; sapevo benissimo quel che valevo; valevo quanto molti altri. Ma che importava? Non valevo però tanto da essere assai più di molti altri. Misuravo la distanza frapposta tra quel che sapevo di essere e quel che avrei voluto e non avrei potuto mai essere, e mi sentivo preso da scoraggiamento che mi rendeva eccessivamente severo con me stesso, fino a farmi giudicare inutile qualunque sforzo, anzi inutile la vita medesima! Avrei voluto essere un braccio, una mano; e potevo appena fare la funzione di un meschino strumento in mano altrui, caso che ci fosse stato chi avesse voluto adoprarmi in qualche umile circostanza. Non sapevo rassegnarmi.
In quei quattro anni, ero passato per una serie di prove tentate una dietro all'altra, non la speranza che, forse, quando meno me l'attendevo e da dove meno l'attendevo, sarebbe venuta fuori la coscienza della mia vita, la ragione del mio avvenire.
Ecco, invece, quel che n'era venuto fuori.
Ma prima debbo dire di un'altra anomalia del mio organismo. Debole, ero poco sensibile; e avrei dovuto essere l'opposto.
Non mi eccitavo per nulla; non avevo scatti di ribellione o di allegria, come gli altri fanciulli. Ripensando, oggi, le mie sensazioni di allora, rimettendomi con la immaginazione in quello stato, mi sento intorpidito, impacciato, incapace di ricevere intero l'urto delle impressioni esterne, di trasformarlo, di assimilarlo; quasi mi mancasse l'attitudine della resistenza, quasi i miei nervi fossero stati di bambagia.
Era proprio così. Tutto veniva a posarvisi, ad adagiarvisi cautamente, dolcemente, sofficemente. E non posso prolungar molto questo sforzo dell'immaginazione per rivivere la mia fanciullezza e spiegarmela. Soffro ora quel che non soffrivo allora; mi sento mancar l'aria, mi sento imprigionato dentro me stesso; e mi vengono le lagrime agli occhi per quegli anni così smorti, così tristi, per quella, sto per dire, mia anticipata vecchiezza.


(Da "Rassegnazione", capitolo II, di Luigi Capuana)



Ecco un frammento di uno dei romanzi più riusciti dello scrittore siciliano Luigi Capuana (Mineo 1839 – Catania 1915). Come Il marchese di Roccaverdina, Rassegnazione va ritenuto uno dei più grandi capolavori del verismo; fu pubblicato per la prima volta sulla rivista Flegrea, in cinque puntate, tra  l’aprile ed il maggio del 1900. Uscì in volume soltanto nel 1907, grazie all’editore Treves di Milano. Il frammento che ho trascritto parla del travaglio interiore che contraddistingue il personaggio principale del romanzo.