venerdì 27 gennaio 2012

Da "Diario" di Anne Frank


Ecco che cos'è difficile in quest'epoca: gli ideali, i sogni e le belle aspettative non fanno neppure in tempo a nascere che già vengono colpiti e completamente devastati dalla realtà più crudele. E' molto strano che io non abbia abbandonato tutti i miei sogni perché sembrano assurdi e irrealizzabili. Invece me li tengo stretti, nonostante tutto, perché credo tuttora all'intima bontà dell'uomo.
Mi è proprio impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria e della confusione. Vedo che il mondo lentamente si trasforma in un deserto, sento sempre più forte il rombo che si avvicina, che ucciderà anche noi, sono partecipe del dolore di milioni di persone, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto tornerà a volgersi al bene, che anche questa durezza spietata finirà, e che nel mondo torneranno tranquillità e pace. Nel frattempo devo conservare alti i miei ideali, che forse nei tempi a venire si potranno ancora realizzare!

Sabato 15 luglio 1944




Questo frammento è tratto dal celebre Diario di Anne Frank (Francoforte sul Meno 1929 – Bergen-Belsen 1945), ovvero dall’unica, straordinaria e altamente commovente opera letteraria di un’adolescente che, insieme alla sua famiglia,  nell’agosto del 1944 fu deportata ad Auschwitz e poi, qualche mese dopo, a Bergen-Belsen, dove morì.

In queste pochi pensieri è facile comprendere l’eccezionale maturità di Anne, che, pur essendo consapevole di trovarsi in un tempo ed in una situazione personale dai risvolti estremamente drammatici, riesce a trovare dei motivi per sperare, per pensare che il suo, come quello dei suoi familiari e dei suoi conoscenti  (trovatisi uniti ad Amsterdam, in un luogo nascosto, in attesa della fine della guerra), sia soltanto un periodo negativo, destinato presto a concludersi. Non ci sono parole per descrivere l’ottimismo ad oltranza di questa ragazzina che, ahimè, di lì a pochi mesi avrebbe trovato la morte in un campo di concentramento tedesco.


giovedì 26 gennaio 2012

Presagio

Come oggi parto verso l'alpe, o amici,
presto m'involerò per altra via,
eternamente. Così vuol che sia
l'anima, se da lei tolgo gli auspici.

Mi evocherete lungo le pendici
dove un giorno cantai la madre mia,
e, sposa eletta, la malinconia
mi soccorreva d'attimi felici.

Non piangerete; favola è la morte
per me, come la vita, che non ebbi
suddita al verbo d'un'ignobil sorte.

Non so per qual prodigio di natura,
io che tra voi, fraternamente, crebbi,
un'immagine fui, non creatura.
 





È questa una delle poesie più belle di Giulio Gianelli (1879-1914) contenute nella raccolta "Intimi vangeli", del 1908. A questo proposito è bene ricordare le parole del critico Carlo Calcaterra, che nel suo saggio "Con Guido Gozzano e altri poeti", ricorda così Gianelli: «Oggi la terzina che meglio lo richiama agli amici è quella che chiude il sonetto Presagio». In effetti Giulio Gianelli fu una figura singolare e sicuramente speciale per il suo impegno sociale a favore dei diseredati della Terra, fu infatti molto attivo per gran parte della sua breve vita, aiutando come poteva i più poveri e i più sfortunati. Malato di tisi già a vent'anni, cercò di reagire coraggiosamente alla grave malattia, ma quest'ultima ebbe il sopravvento quando il poeta piemontese aveva soli trentacinque anni. La poesia sopra riportata ben sintetizza il "presagio" del poeta, che certo si attendeva di dover lasciare la terra prima del tempo, rappresenta perciò una specie di testamento spirituale e un addio agli amici più cari. La foto che segue il testo poetico è tratta dall'antologia "Gozzano e i crepuscolari", a cura di Cecilia Ghelli, Garzanti, Milano 1983.

Alcuni desideri

Non chiedo la grazia divina
del sogno, né la scintilla
del genio: una vita tranquilla
mi basta, una vita meschina.
Per questa manía solitaria
m'occorrerebbe un'onesta
casa, assai vecchia e modesta,
con molta luce e buon'aria,
con alberi verdi e da frutti
d'intorno, sepolta tra un folto
di pergole ombrose; ma molto,
ma molto lontana da tutti.
Un'assai vecchia dimora,
linda, ospitale ed ammodo,
un po' rozza e semplice al modo
delle massaie d'allora;
e in questo rifugio all'antica,
vorrei, nell'oblío secolare,
illudermi di riposare
da un'immaginaria fatica.
Che sonni, che sonni tranquilli
da bimbo nella sua cuna,
le notti col lume di luna,
le notti col canto dei grilli!
Vorrei pure scrivere, senza
fatica, dei versi: ma sparsi
a spizzico, da giudicarsi
con una bonaria indulgenza:
dei versi bizzarri, rimati
secondo la mia prosodía,
con molta malinconía
e quasi niente grammatica:
e il lusso da milionario
vorrei per un mese, d'avere
a nolo per cameriere
un dottore universitario
per mettere in bella copia
le mie bislacche parole
e dirmi dove ci vuole
la lettera semplice o doppia.
O gioia di essere solo!
non l'ombra d'un conosciuto
vicino, toltone il muto
dottore che avrei preso a nolo.
Non ascolterei che la sola
Natura, l'unica amica;
non compirei piú la fatica
di dire una mezza parola.
Avrei con me qualche rado
libro, assai fuori di mano;
andrei per i campi pian piano
senza saper dove vado;
nella mia testa i pensieri
andrebbero com'io li lascio
andare, tutti a rifascio,
i piú pazzi con i piú seri:
e a sera, sull'imbrunire,
un letto fresco e profondo
mi smemorerebbe del mondo
con la voluttà di dormire.
Se un semplice regime uguale
bastasse a guarirmi dal tedio!
Ma in simile caso il rimedio
sarebbe peggiore del male.
Non guarirei, ne son certo,
da tutte queste torture
imaginarie, neppure
se andassi in mezzo al deserto;
il male, purtroppo, non sta
di fuori, ma nel mio interno,
ed è un prodotto moderno
come l'elettricità:
è come un tarlo che roda
addentro, senza mai posa,
ed era in addietro una posa
ormai passata di moda.
Oh come darei le parole
inutili e l'opere vane
dell'uomo, per essere un cane
che dorma placido al sole!
Per esser la foglia o l'insetto
o l'albero o il gufo o il leone,
per non aver la ragione,
per non aver l'intelletto,
per essere (questo conforto
concedi, o Natura, a chi è stanco
già troppo), per esser pur anco
un uomo, ma essere morto!





 
"Alcuni desideri" è il titolo del nono paragrafo del poemetto "Un giorno" di Carlo Vallini (1885-1920). L'opera fu pubblicata nel 1907 ed è considerata la migliore di Vallini. Si tratta di versi ineguali strutturati in paragrafi, similmente a quelli di un altro celebre poemetto: "Laus vitae" di Gabriele D'Annunzio; molto diversi sono però gli argomenti trattati, visto che nell'opera del poeta pescarese si parla di esperienze esaltanti e di azioni eroiche, mentre in quella del Vallini si medita sulla vita e sulla morte in modi che, per certi versi, ricordano il buddismo. Ma poi prevale nettamente l'animo crepuscolare dell'autore, come si può evincere anche dai versi di cui sopra, così pieni di modestia, così permeati di pensieri semplici, vuoti di ambizioni e di eroismi. La parabola poetica di Carlo Vallini fu intensa e pur brevissima, si svolse tutta nel 1907, quando il poeta milanese diede alle stampe le sue uniche opere in versi: "La rinunzia" e "Un giorno"; breve fu anche la sua vita, infatti Vallini morì a soli trentacinque anni per le gravi ferite riportate nella Grande Guerra. La foto che segue il testo poetico è tratta dall'antologia "Poesia italiana del Novecento", a cura di Edoardo Sanguineti, Einaudi, Torino 1969. 


mercoledì 25 gennaio 2012

Poeti dimenticati: Gustavo Brigante Colonna

Gustavo Brigante Colonna nacque a Fano nel 1878 e morì a Roma nel 1956. Dopo la laurea in legge partì per la Grande Guerra dove si distinse per coraggio. Si dedicò al giornalismo e scrisse su varie testate tra cui anche il "Giornale d'Italia". Scrisse versi in italiano e in dialetto romanesco; tra i primi spiccano i versi della gioventù, che denotano atteggiamenti e atmosfere molto vicine al crepuscolarismo.
 
 
Opere poetiche


"Gli ulivi e le ginestre", M. Carra & C., Roma 1912.
"L'offerta", F.lli Druker, Padova 1919.
"Le melangole", Le Monnier, Firenze 1927.
"Filastrocche", REDA, Roma 1945.
 
 
Presenze in antologie


"Cenacolo. Antologia di poeti d'oggi", a cura di F. Addonizio e F. Giovinazzo, «Luce intelletual», Palermo 1931 (pp. 64-67).
 
 
Testi


Dal tedio che mi opprime
Torno pe' molli clivi
Al rezzo degli ulivi
Ove fiorian le rime:
Più d'un capello bianco
Dice che il cuore è stanco.

Salgo al paese antico
Col cuor gonfio di pianto,
Guardo di tanto in tanto
Se scorga un volto amico:
Dicono gli occhi intorno
Che inutile è il ritorno.

Con l'anima pervasa
Del sogno già sognato,
Come un allucinato
Torno a la vecchia casa.
Batto a la porta. Tu
non mi rispondi più.

(Da "Gli ulivi e le ginestre")

Poeti dimenticati: Luisa Anzoletti

Luisa Anzoletti nacque a Trento nel 1863 e vi morì nel 1925. Scrisse poesie, prose, saggi e fu particolarmente attiva nel campo sociale, divenedo una femminista convinta e perseguendo quei valori e quegli ideali cattolici ai quali si ispirò anche nella sua opera poetica, molto lodata dai critici di fine Ottocento. Si interessò anche di musica e, dopo la morte prematura del marito, seguì assiduamente nel lavoro e nella carriera il fratello, divenuto famoso violinista.
 
 
Opere poetiche



"Vita", L. F. Cogliati, Milano 1898.
"Alba", L. F. Cogliati, Milano 1904.
"Vita. Nuove liriche", Zanichelli, Bologna 1904.
"Canti dell'ora", Treves, Milano 1914.
"Sera", «L'Eroica», Milano 1927.
 
 
 
Presenze in antologie



"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (pp. 20-21).
"Poeti italiani d'oltre i confini", a cura di Giuseppe Picciòla, Sansoni, Firenze 1914 (pp. 188-195).
"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 314-315).
"La fiorita francescana", a cura di Tommaso Nediani, Ist. It. d'Arti Grafiche, Bergamo 1926 (pp. 105-106; pp. 286-287).
"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (volume quarto, pp. 199-205).
 
 
 
Testi


APATIA

Stagioni, che l'acqua con sùbite scosse
su l'alida terra vapora e non bagna.
Stagioni, che 'l sole gli è come non fosse
per l'irta nel gelo marmata campagna.

Stagioni, che l'aria non giova d'alena,
ma torpe nel cavo a gl' inerti polmoni;
e 'l sangue che affredda entro l'arida vena
scaldare non posson gli ardenti carboni.

Stagioni, in cui tacita prende l'avvio
colei che di nulla non sente bisogno:
l'Ignota, che semina in terra l'oblio,
e miete anco i fior tenerelli del sogno.

Stagioni, ove qualche gran cosa finisce,
o forse al nativo suo mondo trasvola:
si parla si parla, e nessuno capisce;
si soffre si soffre, e niente consola.


(Da "Canti dell'ora")

Antologie: Dal simbolismo al déco

"Dal simbolismo al déco" è il titolo di un'antologia curata dal critico letterario Glauco Viazzi, che uscì nel 1981 per Einaudi editore. È la seconda, più completa e dettagliata, selezione di poeti italiani simbolisti (e non solo) dopo "Poeti italiani simbolisti e liberty", opera realizzata dallo stesso Viazzi e dall'editore Vanni Scheiwiller tra il 1967 ed il 1972, e di cui ho già parlato. Questa antologia, pur essendo realizzata in due tomi, è da considerarsi quale opera unica (al contrario della precedente). Si tratta (come viene specificato nel retro della copertina del primo tomo) di una indagine, una selezione e quindi una rilettura della poesia italiana sorta tra l'ultimo decennio del XIX secolo ed il primo ventennio del XX secolo. Il tutto avviene escludendo consapevolmente dei pilastri della poesia italiana primo-novecentesca non per scelta di merito, ma perché non inseriti nel contesto delle mode e dei movimenti letterari che più hanno influenzato durante quel preciso trentennio la lirica italiana ed anche quella europea.
Si nota che in questa sua opera Viazzi a sorpresa decide di porre i poeti antologizzati all'interno di gruppi che, quasi sempre, sono ridefiniti da lui stesso, secondo una sua personale visione della poesia italiana di quegli anni. Ecco, per capire meglio, i raggruppamenti creati da Viazzi e i nomi di chi ne fa parte:


IDEOSIMBOLISTI, ESTETI, SIMBOLISTI

Gian Pietro Lucini; Mario Morasso; Gino Borzaghi; Ceccardo Roccatagliata Ceccardi; Adolfo De Bosis; Romolo Quaglino; Luisa Giaconi; Domenico Tumiati; Pier Ludovico Occhini; Diego Angeli; Alessandro Giribaldi; Mario Malfettani; Alessandro Varaldo; Gustavo Botta; Ricciotto Canudo; Giuseppe Lipparini; Tito Marrone; Agostino J. Sinadinò; Angelo Toscano; Pier Angelo Baratono; Umberto Saffiotti; Giuseppe Rino; Teofilo Valenti.
 
 
VERSO IL LIBERTY

Corrado Govoni; Aldo Palazzeschi; Paolo Buzzi; Giovanni Cavicchioli.
 
 
MISTICI, ORFICI, ESOTERICI

Giuseppe Vannicola; Emanuele Sella; Luca Pignato; Raoul Dal Molin Ferenzona; Guido Pereyra; Enrico Cardile; Girolamo Comi; Arturo Onofri; Mornor Yadolphe.
 
 
ELEGIACI E INTIMISTI

Alberto Sormani; Giovanni Tecchio; Cosimo Giorgieri-Contri; Pietro Mastri; Marino Marin; Adelchi Baratono; Italo Dalmatico; Guelfo Civinini; Sergio Corazzini; Fausto Maria Martini; Alberto Tarchiani; Yosto Randaccio; Auro D'Alba; Marino Moretti; Carlo Chiaves; Francesco Cazzamini Mussi; Diego Valeri.
 
 
DAL LIBERTY ALL'ART DÉCO

Guido Da Verona; Federico De Maria; Gesualdo Manzella Frontini; Enrico Cavacchioli; Guido Gozzano; Amalia Guglielminetti; Carlo Vallini; Antonio Rubino; Francesco Scaglione; Libero Altomare; Enzo Marcellusi; Luigi Crociato; Fausto Valsecchi; Alberto Viviani; Nicola Moscardelli; Nino Oxilia; Mario Venditti; Fausto M. Bongioanni; Alceo Folicaldi.
 


Ora, volendo fare un confronto con la precedente "Poeti italiani simbolisti e liberty", è facile notare la massiccia esclusione di poeti secondo-ottocenteschi, probabilmente perché l'antologia voleva mettere in luce i poeti veramente "nuovi". È poi evidente un inserimento di molti poeti crepuscolari, sparpagliati in vari gruppi. Giusta è anche l'inclusione di nomi a torto trascurati nella antologia di Viazzi-Scheiwiller, come quelli dei fratelli Baratono, di Mario Morasso, di Giovanni Tecchio ecc.
Ogni poeta è posto, all'interno del gruppo di appartenenza, seguendo l'ordine cronologico dei suoi scritti: ovvero seguendo l'ordine di uscita dei suoi volumi o delle sue poesie pubblicate in riviste.
Infine colpisce la presentazione dedicata da Viazzi a ciascun poeta preso in esame: trattasi di una analisi assai particolareggiata, che molto si occupa dell'aspetto più psicologico dell'opera poetica di ciascun autore, e che usa, a volte, un linguaggio decisamente ostico.

Da "Il lupo della steppa" di Hermann Hesse


Egli faceva parte della categoria dei suicidi. A questo punto dobbiamo osservare che è errato definire suicidi solamente coloro che si uccidono davvero. Tra questi ci sono anzi molti che diventano suicidi quasi per caso e il suicidio non fa necessariamente parte della loro natura. Tra gli uomini senza personalità, senza un'impronta marcata, senza un forte destino, tra gli uomini da dozzina e da branco ce ne sono parecchi che commettono suicidio senza per questo appartenere per carattere al tipo dei suicidi, mentre viceversa moltissimi di coloro che vanno annoverati per natura fra i suicidi, anche forse la maggior parte, effettivamente non attentano alla propria vita. Il «suicida» (Harry era uno di questi) non occorre che abbia uno stretto rapporto con la morte: lo si può avere anche senza essere suicidi. Ma il suicida ha questo di caratteristico: egli sente il suo io, indifferente se a ragione o a torto, come un germe della natura particolarmente pericoloso, ambiguo e minacciato, si reputa sempre molto esposto e in pericolo, come stesse sopra una punta di roccia sottilissima dove basta una piccola spinta esterna o una minima debolezza interna per farlo precipitare nel vuoto. Di questa sorta di uomini si può dire che il suicidio è per loro la qualità di morte più probabile, per lo meno nella loro immaginazione.





Il lupo della steppa (titolo originale: Der Steppenwolf, 1927) è uno dei migliori romanzi di Hermann Hesse (1877-1962). Io lo lessi qualche decennio fa, soprattutto perché m’intrigava la situazione di profonda crisi spirituale del protagonista Harry. Costui, come spiega bene il frammento che ho riportato, possiede una personalità assai complicata e tormentata; spesso pensa al suicidio come unica via d’uscita per tutti i problemi che lo affliggono, ma mai vi ricorre. Questa crisi, con caratteristiche certamente diverse e decisamente meno cervellotiche, ritengo di averla avuta anch’io, in età adolescenziale. Fu in quel periodo che, come Harry, cominciai a pensare al suicidio, pur non avendo né l’intenzione, né il coraggio di praticarlo. Sicuramente fui influenzato, nella mia ossessione suicida, da una notizia che avevo appreso di recente, riguardante un mio coetaneo che si era tolto la vita impiccandosi in casa, molto probabilmente a causa dell’insopportabile dolore provato in seguito alla morte del nonno, a cui, evidentemente, era affezionatissimo. Eppure io non avevo subito un lutto del genere, però avvertivo un disagio esistenziale, che si spiega soltanto con l’età adolescenziale: così difficile a volte, e dolorosa.

Il frammento che ho trascritto fa parte del volume: Hermann Hesse, Il lupo della steppa, Mondadori, Milano 1976 (la prima edizione italiana pubblicata dalla casa editrice milanese, risale però al 1946). Più precisamente, si trova all’interno della Dissertazione: una sorta di prologo piuttosto lungo, che precede il romanzo vero e proprio.