Gesù Cristo è preso in considerazione, dai poeti simbolisti e decadenti italiani, soltanto per rimarcare determinati avvenimenti della sua vita. Per esempio più di una volta si parla della parabola del Vangelo che lo vede intervenire a favore della prostituta Maria Maddalena, con la quale, grazie a libere interpretazioni, instaura un dialogo, oppure le si rivolge per dichiarare l'amore che prova nei suoi confronti. In altri casi i poeti si concentrano sul calvario di Gesù e sulla conseguente crocifissione, facendolo così diventare simbolo del dolore e, nel caso della poesia di Graf, della sconfitta finale del "bene". In altri casi ulteriori Gesù viene descritto quale personaggio misterioso; in cammino o nell'atto del dormire (come nella poesia di Palazzeschi), possiede alcuni elementi (l'abito bianco e splendente, la biondezza di barba e capelli ecc.) che lo rendono attraente al massimo e palesano bene l'idea di un Dio che mostra la sua superiorità, anche dal lato estetico. A volte, infine, Gesù appare al poeta come visione onirica, nel contesto in cui diviene Messia, quasi a dimostrare un profondo desiderio di vivere i momenti salienti dell'esistenza di "Dio in terra", di essere presente nel momento più importante della storia dell'umanità (secondo ciò che dice la religione cristiana, naturalmente).
GESÙ E L'ADULTERA
di Diego Angeli
Mite splendeva l'alba tra i rami degli ulivi
e ondeggiavan nel piano celeste i fior del lino,
tra gli steli del loto mormoravano i rivi,
i canti della vita sorgevan dal mattino,
mite splendeva l'alba tra i rami degli ulivi.
Ora dall'alto colle Gesù scendea pensoso,
e guardando le case tutte sperse nel piano,
- non anco ivi era giunto il mattin radioso -
benedicea gli umani con la candida mano.
Ora dall'alto colle Gesù scendea pensoso.
Si stendea nella pace la campagna fiorita,
e una donna gli venne incontro sul cammino;
avea le nere chiome sciolte lungo la vita,
avea dentro gli sguardi un bagliore divino.
Si stendea nella pace la campagna fiorita.
In torno a lei le capre pascevano belando,
ed ella volta al biondo figlio di Galilea
disse - O Maestro, quegli che soffrì molto amando
può sperare il perdono? - e parlando piangea.
In torno a lei le capre pascevano belando.
E il Maestro distese verso di lei la mano
dicendo lentamente: - Colui che ha molto amato
molto ha sofferto e il pianto lava ogni fallo umano.
Il pianto è come un nembo sopra il terreno arato. -
E il Maestro distese verso di lei la mano.
Sorrise allor la Donna ascoltando il perdono
e raccolti fra l'erba molti fiori odorosi
al Maestro li offerse e questi accolse il dono
però che amava i buoni, gli umili, i pietosi.
Sorrise allor la Donna ascoltando il perdono.
E i fiori ebbero vita novella sullo stelo,
e vennero le agnelle a lambir la sua mano.
Il sole delle nebbie squarciando il bianco velo
irradiò l'Eletto di un raggio sovrumano.
E i fiori ebbero vita novella sullo stelo.
(Da "La Città si Vita", Premiata Tip. dell'Umbria, Spoleto 1896)
IN GALILEA
di Giovanni Alfredo Cesareo
Quando il tramonto s'effondea vermiglio
Alla spiaggia del mar di Galilea,
Il Nazareno eretto come un giglio
Fra l'ascoltante turba che sedea,
Dolcemente parlava, e sul candore
Della prolissa tunica la chioma
Feminea si spartia: da' campi in fiore
Giungeva una silvestre onda d'aroma.
Umile e augusta era la pace in torno,
E il flutto con suo lene sciabordio
Assecondava il bel sermone adorno,
Quasi raro suon d'arpe un canto pio.
— Felici i mansueti, perché vanto
Avranno di dominio su la terra.
Felici quei che vivono nel pianto,
Perchè sarà soccorso alla lor guerra.
Felici quei che han sete e quei che han fame
Di giustizia, perché prossima è l'ora
Che verran saziate le lor brame,
Spaccando a' monti la novella aurora. —
Tale ammoniva, e ne le sue pupille
Parea specchiarsi il ciel pieno di rose:
Cadean le sue parole, come stille
D'unguento, su ferite anime irose,
Su anime in lor pena umiliate,
Su accese anime pronte al sacrifizio;
E, come canne da un soffio agitate,
Mille fronti di sè davano indizio.
Or quand' egli movea, la turba giva
Appresso lui silenziosamente
Su la stridula ghiaia della riva,
E argentei sogni volgea nella mente;
Mentre un velo cinereo per l'erto
Declivio già mescea tutte le forme,
E lenta al profondissimo deserto
Salia la gloria della luna enorme.
(Da "Le consolatrici", Sandron, Milano-Palermo-Napoli 1905)
LA VISIONE
di Gabriele D'Annunzio
Quasi era a mezzo il dì. Presso e lontano
il fiume sorridea come a' belli anni.
Si placavan nel cor tutti gli affanni
per quel candore immenso cristiano.
Ed io vidi la riva del Giordano,
e splendere Gesù ne' rossi panni
qual fiamma che s'inchina, e a lui Giovanni
sparger l'onda su 'l capo sovrumano.
Ora, andando io così lungh'esso il fiume
pio (non so qual bontà muta nel sole
spirava il mondo), l'albero e l'arbusto
m'eran fratelli. E in tal beato lume
e in tal silenzio udimmo le parole:
– convien compire tutto quel che è giusto. –
(Da "Poema paradisiaco", Treves, Milano 1893)
GESÙ
di Federico De Maria
— Magdalena, non pianger: soffriamo
insieme. Questo pianto
— puro lavacro — à mòndo
il tuo peccato. Magdalena, io t'amo!
Ma non mi chieder nulla: la mia vita,
la mia carne, la mia
anima, sia
libera e integra consacrata al Mondo.
Benedetto il tuo martirio!
Benedetto il martirio mio!
L'Idea brucia ed innalza le passioni tenaci
al Cielo, in volute d'incenso.
Io sento nel cuore, da i baci
non dati che in noi muoiono, germogliare un ardor di più intenso
Amore. Noi siam lievi. Io voglio
farmi più lieve. — Lieve sino a divenir Dio!
(Da "La leggenda della vita", Edizioni di «Poesia», Milano 1909)
E CRISTO DISSE
di Ettore Fabietti
E Cristo disse: Germini la Pace
l'umile germe ch'io semino in terra:
nel mio sacco non ho miglior semente.
Gittò la mèsse, e poi volle, il verace
seminatore, perché pria nascesse,
irrorar del suo sangue anco le zolle.
Ma i guardiani del campo, a cui commesse
eran le sorti de la pia fatica,
sconvolsero la terra,
e spersi al vento i germi della Pace,
che è ben di tutti, seminaron guerra;
onde i fraterni lutti
fruttar dovizie al lor desìo rapace.
Or dei guardiani, o buon Gesù, che al vento
spersero i germi de la tua semenza,
noi siamo stanchi, e omai provar vorremmo,
Gesù mite, a far senza;
che per i lor nefasti
Tu seminasti, e noi non raccogliemmo.
(Da "Canti di Trifoglieto", Treves, Milano 1913)
VERSO LA CROCE
di Luigi Fallacara
O nostra umana, persa desianza
ardisci, ardisci, se l'Amor tanto osa;
l'Amore ha preso la nostra sembianza,
ed ogni carne è fatta onda amorosa!
O gioia che ogni gioia avida avanza,
il Dio perduto a noi tutto si sposa;
o nel Cristo avventata, alta certanza,
d'essere in Dio, con Dio, solo una cosa!
Ma più m'alzo a te, Cristo, e più dolore
trovo. Più dentro sono le tue braccia,
più veggo aprirsi la Croce gigante.
O Croce, o Croce vicina e distante!
La croce tutto l'universo abbraccia
vivo sol della tua morte, Signore!
(Da "Illuminazioni", Casa de' poeti, Varese 1925)
CRISTO
di Arturo Graf
Fuor dalle membra il caldo sangue a rivi
Ti scorrea, lacerava le divine
Tempie il tormento di pungenti spine:
Ti parea di morire e non morivi.
Con gli occhi in te confitti, genuflessa
Tua madre stava appiè dell’alta croce;
La sciagurata non avea più voce,
Né respiro, né pianto, e intorno ad essa
Tumultuava senza fin l’oscena
Turba, brïaca di delitto: obliqua
Per i colli, dal pian, chiudea l’iniqua
Città di Giuda l’esecrabil scena.
Fumava il sol caliginoso ed atro
Nel bronzeo cielo; esterrefatta e muta
Stava la terra; ed alla tua veduta
S’apria come un funereo teatro
L’età futura, e travedevi arcane
Fughe di tempi, e magistero occulto
D’indomabili posse, ed il tumulto
E la ruina delle cose umane.
E trïonfar menzogna, e infami gioghi
Vedevi al mondo impor da’ tuoi vicarii,
E nel tuo nome benedir sicarii,
E nel tuo nome dar le vampe ai roghi.
Correr l’iniquità la terra e il mare,
Ed invocare a suo presidio il cielo;
La tua croce schernita, e il tuo Vangelo
Fatto insegna e blason di lupanare.
T’ingiurïava dai cadenti clivi
Il volgo di vendetta ancor non sazio;
Ma tu l’ingiuria vil, ma tu lo strazio
Di tue misere carni non sentivi;
Ché un’angoscia più grave, un duol più rio,
Qual giammai non s’accolse in mortal petto,
Ti strinse il cor, t’avvinse l’intelletto,
Ed esclamasti: O padre, o padre mio,
Per tal d’abietti e di codardi schiavi
Nefando gregge ho il sangue mio versato?
Questo scempio cui giova? e reclinato
Sul petto il capo l’anima esalavi.
(Da "Medusa", Loescher, Torino-Roma 1880)
LA LIETA NOVELLA
di Virgilio La Scola
Benedicendo, Egli passò fra ignote
Plebi, e smarriva dentro l'orizzonte
Le sue pupille cerule ed immote:...
Un bianco lume gli battea la fronte,
Di penitenza gli lucean le gote.
Urgea su' colli un palpito lontano,
Ogni fiore balzava di desio:...
Egli ammoniva dolci cose, piano,
Piano imponea, come un divino oblio,
Su le femminee chiome la sua mano.
Ne la malinconia de l'ore meste,
Illuminava di sorriso il pianto,...
Fulgea più nivea la sua bianca veste,
Fluia più blando il suo soave incanto:
Ne la malinconia de l'ore meste...
Il pio sermone, lungo la sua via,
Leniva i mansueti, v'indulgea,...
Suscitava un'occulta melodia,
Ne l'umile suo fiato si traea
Immense turbe lungo la sua via...
E ripeteva a' genuflessi, a' proni:
"Poca semente darà un gran raccolto:...
In opre buone e con pensieri buoni
Usate il poco e giunga a' privi il molto:
Sollecitate de la terra i doni:...
E sia giustizia in ogni labbro, o figli,
Chi la difende ei ne sarà difeso:...
È palpito che doma i rei consigli,
È balsamo che modera ogni offeso:...
Suoni letizia da ogni labbro, o figli:
E sien pacati i vostri passi, come
Lo scorrere silente del Giordano..."
Egli dicea, e a le femminee chiome
Le parabole sue scendeano piano,
Piano gli olivi n'effondeano il Nome...
Recava a l'alba un sogno dolce e stanco
Ne le pupille, ed esalava, a sera,
Ebro di pianto, dal suo volto bianco,
Tutta la santità della preghiera:...
ecava a l'alba un sogno dolce e stanco.
(Da "La placida fonte", Zanichelli, Bologna 1907)
IL SERMONE
di Achille Leto
Saliva il Rabbi per le vie deserte
della montagna che fiorìa di grano:
sostò tra l'erba e, con le braccia aperte,
Egli versò tutto il suo cuore, piano.
Cadevan su le turbe umili e buone
le soavi parole; e, nel profondo
silenzio che seguì, parve il Sermone
illuminare - come un'alba - il mondo.
(Da "Le metope", Spinnato, Palermo 1907)
IL SANGUE CREBBE...
di Marino Marin
Il sangue crebbe ne la selva acerba
de le umane passioni il salutare
frutto d'amor che, lento a maturare,
a gli avvenir tutto il suo dolce serba:
frutto spiritual cui la mala erba
de l'odio anche non valse ad aduggiare:
tal che chi appressa il labbro ad assaggiare
nel verbo di Gesù Cristo s'inverba.
Poi che fu con la luce de la grande
anima sua che germogliar fe' il seme
che inaffiò poi con lagrime e con morte;
fu il corpo suo che in mistiche vivande
diede a le turbe; furon fede e speme
che al triste passo il fer sicuro e forte.
(Da "Sonetti secolari", Galli di Chiesa e Guindani, Milano 1896)
DA "I PRATI DI GESÙ"
di Aldo Palazzeschi
È una perpetua continua processione
di centomila persone
ogni giorno, che a quel prato
s'aggiran torno torno
per ore e ore.
Centomila persone
che s'intrecciano, s'incontrano,
si guardano, s'inchinano,
senza far romore.
Il più assoluto silenzio
deve regnarvi attorno, giro giro,
si deve potere udire un respiro.
Nel mezzo del prato
c'è un uomo addormentato,
c'è sempre stato.
La gente è sempre stata
nella più grande ammirazione,
giro giro, tondo tondo,
da che mondo è mondo.
Tutti ammirano perplessi
quell'eterno placido sonno,
tutti colla massima devozione,
ogni giorno centomila persone.
L'uomo è là, nel mezzo al prato,
steso in terra addormentato,
sempre giovine uguale, sempre biondo,
sempre colla sua veste
bianca di candore.
Dorme colla più gran tranquillità
il più bel sonno del mondo,
forse per l'eternità.
La gente giro giro
sta fissa ad ammirare
l'alzarsi e l'abbassarsi di quel petto,
sta in orecchi per udire
il placido respiro.
(Da "Poemi", Stab. Tip. Aldino, Firenze 1909)
SCONFORTO
di Giovanni Pascoli
Gesù: — Per le città, per le castella
andava lungo il limpido Giordano,
predicando la sua buona novella.
E cui sul capo Egli imponea la mano,
e cui diceva la sua parola vera,
cieco, ossesso, lebbroso, ecco era sano.
Ed il dolore al suo passar non era
più. Ma gran pianto era al suo lento arrivo!
Moveva a l'alba e si fermava a sera.
A sera stanco il figlio del Dio vivo,
come lavoratore, era, ma pago;
e s'assideva al tronco d'un olivo,
guardando al cielo. E subito il suo vago
occhio abbassava, ch'e' s'udiva intorno
come l'immenso mormorio d'un lago.
Ecco, e vedeva, al fine del suo giorno,
turbe infinite sotto il ciel vermiglio,
ch'attendean sua venuta o suo ritorno.
E giacevan nei solchi, sopra il ciglio
dei fossi, per le vie, pecore sparse
senza pastore. E tu gemevi, o figlio
di Dio: TROPPA È LA MESSE E L'OPRE SCARSE!
(Da "Poesie varie", Zanichelli, Bologna 1912)
CRISTO
di Federigo Tozzi
Con una veste rossa per dileggio
ti portano nel mezzo di una piazza.
E piove. Un uomo del bestial corteggio
batte su la tua carne pavonazza.
Ma, come se volesse farti peggio,
la turba ridacchiando ti sollazza
se alcuno dice: O Cristo, ti schiaffeggio!
E il tuo sangue lo bagna come guazza.
Anche tieni una canna con le mani,
non pensando ai fuggiti tuoi seguaci
e alla pioggia che t'entra nei capelli.
Oh, come ti si schiudono i lontani
cieli della bontà, mentre tu taci;
e quanto ti confortano più belli!
(Da "La zampogna verde", Puccini, Ancona 1911)
LA FIAMMA DE LE PALME
di Domenico Tumiati
L'opaco argento de li olivi pare
un antico turibolo d'altar:
io vo pel verde colle a salutare
Gesù, che biondo su le turbe appar.
Li anni miei, come quelli di Giovanni,
spuntano, verdi steli, ne la via:
come i tralci de l'uva, i miei verdi anni
aspettano l'avvento del Messia.
Fra i grigi olivi de la pia collina
io salgo. M'odi, William Hunt, fratello?
tu così andavi per la Palestina,
così santificando il tuo pennello.
(Da "Musica antica per chitarra", Landi, Firenze 1897)
GESÙ, SOLE CHE ILLUMINI
di Remigio Zena
Gesù, sole che illumini
Dell'universo i cardini,
Gesù, trono degli umili,
Gesù, palma dei martiri,
Corona delle vergini,
Stola dei catecumeni,
Imperator sui numeri
Degli stellati eserciti,
Per le lunghe vigilie
Del mio terrestre carcere,
Per le stille vermiglie
Che non cessai di spargere
Sotto la Croce, esanime
Prostesa nella cenere,
Non mai sazia di chiedere
Le penitenti lagrime,
Pei cilizi e gli aculei
Che il fianco mi trafissero,
E pei dardi fulgurei
Che nel tuo amor mi uccisero,
Gesù mio Re, mio Unico,
Le preci mie ti muovano.
Fra i santi che ti adorano,
Beata anch'io, ti supplico.
(Da "Le pellegrine", Treves, Milano 1894)
Scampoli di letteratura dell'Ottocento e del Novecento, poeti dimenticati, vecchie antologie e altro ancora.
mercoledì 12 aprile 2017
lunedì 3 aprile 2017
Poeti dimenticati: Guelfo Civinini
Nacque a Livorno nel
1873 e morì a Roma nel 1954. Il suo nome è maggiormente ricordato per gli
ottimi servizi giornalistici da lui firmati sul Corriere della Sera: quotidiano
nel quale Civinini lavorò per circa venti anni, inizialmente come inviato e
quindi come collaboratore esterno; a tal proposito, famosi, rimangono ancora
oggi i suoi reportage di guerra. Fu anche librettista (suo è il testo della celebre
opera lirica di Puccini: La fanciulla del
West) e poeta. I migliori versi di Civinini sono raccolti in due
volumi che pubblicò tra il 1900 ed il 1911: qui si può constatare la sua
predilezione per alcuni autori francesi e italiani tardo-romantici (evidenti le
somiglianze con diversi testi di Maeterlinck e di Giorgieri Contri). In seguito,
pur mantenendo quei connotati, mostrò simpatia per la poesia crepuscolare, di
cui può definirsi un epigono.
Opere poetiche
"L'Urna",
Dante Alighieri, Roma 1900.
"La ninna-nanna
del piccolo Alessio", Dante Alighieri, Roma 1904.
"I sentieri e le
nuvole", Treves, Milano 1911.
"Cantilene",
Mondadori, Roma 1920 (1954²).
Presenze in antologie
"Poeti d'oggi
(1900-1920)", a cura di Giovanni Papini e Pietro Pancrazi, Vallecchi,
Firenze 1920 (pp. 118-121).
"Le più belle
pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba,
Lanciano 1928 (vol. II, pp. 142-150).
"Antologia della
lirica italiana. Ottocento e Novecento", nuova edizione, a cura di Carlo
Culcasi, Garzanti, Milano 1947 (pp. 234-235).
"L'antologia dei
poeti italiani dell'ultimo secolo", a cura di Giuseppe Ravegnani e
Giovanni Titta Rosa, Martello, Milano 1963 (pp. 227-230).
"I crepuscolari:
saggio e composizioni", a cura di Nino Tripodi, Edizioni del Borghese,
Milano 1966 (pp. 259-271).
"Poeti
simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni
Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. I: pp. 52-62; vol. II: pp.
56-59).
"Poeti italiani
del XX secolo", a cura di Alberto Frattini e Pasquale Tuscano, La Scuola,
Brescia 1974 (pp. 259-265).
"Dal simbolismo
al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981 (tomo secondo, pp.
363-371).
"Gozzano e i
crepuscolari", a cura di Cecilia Ghelli, Garzanti, Milano 1983 (pp.
159-185).
"Otto secoli di
poesia italiana", a cura di Giacinto Spagnoletti, Newton Compton, Roma
1993 (pp. 607-608).
Testi
UNA VILLA
Io conosco una villa
abbandonata
fuor delle mura, a
capo d'un viale
di cipressetti
polverosi, eguale
sempre nella sua
grazia desolata.
Dai ferri della
vecchia cancellata,
fra i rami del bel
parco baronale,
si scorge un
palazzetto. Un ogivale
finestra da gran
tempo è spalancata.
Da gran tempo è così.
chi sa? La mano
che la dischiuse or
forse sarà immota.
Stillan gli alberi
lacrime gelate
sopra le violette che
son nate
a' lor piedi,
dolcezza buona e ignota:
ed ha quel pianto un
alto senso umano.
(da
"L'Urna")
TRISTEZZA D'UNA SERA
D'OTTOBRE
Son rientrato or ora.
Per la via
di casa s'accendevano
i fanali
tremuli fuochi di
malinconia.
Ha piovuto per tutta
la giornata.
Son già le prime
acque autunnali.
Poi l'aria a vespro
s'è rasserenata.
Ma in questa
trasparenza d'ametiste
il cielo è come
un'anima ch'è stanca
di piangere, ed
ancora è tanto triste.
Nessun passava, per
la via remota:
incombeva una gran
nuvola bianca
sovra le case,
tragica ed immota,
un pianger di campane
era nell'aria,
dai platani cadean le
prime foglie;
tremava qualche
stella solitaria;
ed un accoramento
indefinito
era in quell'ora
satura di doglie
che mi tenea come un
fanciul smarrito:
un fiorir vago di
memorie spente,
di rimpianto per ogni
ben perduto
cui passai forse
accanto indifferente:
volti di donne
intravedute appena,
anime apparse in
gesto di saluto
per qualche
solitudine serena,
fantasmi erranti che
più non ravviso
chiusi nei veli della
lontananza,
ombre di pianto, luci
di sorriso
rievocanti all'anima
in tremore
un fulgor biondo,
un'aria di romanza,
un mattin d'oro, una
veranda in fiore.
Dogliosa nostalgia,
la più dogliosa:
quella di ciò che
trascurammo, e ov'era
forse la nostra dolce
sorte ascosa.
Forse... Triste
parola, triste quale
fra le rame dei
platani stasera
questo languor di
cielo autunnale:
triste e pur buona,
che pur s'addolora
ne illude ancor di
qualche tenerezza
di cui viviamo, in
cui crediamo ancora,
di cui può ancora
l'anima sognare,
l'anima ch'ebbe a
tedio ogni certezza
e il sogno solo può
ancor consolare.
Ma questa sera, oh,
nulla la consola:
così triste è la casa
all'imbrunire
quando si è soli, e
pur l'anima è sola.
Le cose amate, le
cose più care
son come morte e più
nulla san dire
in questa scialba
angoscia che traspare
di tra i ricami delle
tende bianche
nell'agonia
dell'ultimo chiarore
fra voci di campane
umili e stanche.
Tristezze d'un
crepuscolo! Nell'ombra
una pendola batte: un
vecchio cuore
triste, che una
mortal stanchezza ingombra.
«Addio» mormora
l'anima dolente.
Perché, non sa. Vede
svolare a frotte
fra rade stelle
fantasime lente
nubi di sogni,
vanienti forme
perdute incontro
all'imminente notte
verso il mistero
immobile ed enorme,
e un bisogno d'addii,
forse di pianto,
la stringe.
Qualcheduno è per partire?
Non sa. Forse è
partito già, da tanto,
da tanto tempo.
«Addio» mormora ancora
e piange stanca, e
sentesi morire.
Di che, non sa.
Malinconia l'accora.
(da "I sentieri
e le nuvole")
martedì 28 marzo 2017
Frammento di lettera
Ti chiedi perché in
tarda
età persista in me
questo bisogno
di parole e di fole.
Forse codarda
davanti al mondo
trema ancora la mia anima
come nei giorni
dell'adolescenza,
forse ad senso agogno
diverso dell'umano.
Così ho vissuto senza
progetti su me stesso
e senza fretta,
pago del mio
presente, prigioniero
degl'indugi che
furono il mio male.
Gli amici mi
assalivano con gli ovvi
argomenti del vero:
«Apri gli occhi! Non
vedi quanta gente
ti supera che vale
meno di te?». Ma
sordo a ogni rimbrotto
non volevo competere
né lottare - e conobbi
la dolcezza che si
nasconde sotto
le palpebre calate di
chi aspetta.
Questa poesia di
Fernando Bandini (Vicenza 1931 - ivi 2013), uno dei migliori poeti italiani del
XX secolo, si trova nel volume Meridiano
di Greenwich, edito dalla Garzanti nel 1998. Precisamente, è la sesta
poesia della sezione Passaggio a livello
(pag. 37).
Come spiega il
titolo, si tratta di un "frammento", ovvero di una parte di una
lettera indirizzata probabilmente ad un amico che, forse in un'altra lettera,
aveva chiesto al poeta il perché del suo insistere a comporre dei versi (parole e fole) anche in età avanzata; quasi che scrivere poesie sia cosa più
pertinente alla giovinezza. La risposta di Bandini mostra delle incertezze,
come indica quel "forse" iniziale; ipotizza, per cominciare, la
possibilità che ciò sia dovuto alla sua anima "codarda", ovvero
vigliacca, paurosa così come lo era al tempo della sua adolescenza.
Probabilmente, la codardia del poeta sta nel fatto di evitare la realtà e di
rifugiarsi nella fantasia: quel mondo di parole e di fiabe rappresentato dalla
poesia. Il secondo "forse", indica una spiegazione che in parte si
lega alla prima ipotesi: una ricerca personale di un senso autre, lontano, irreale. Ecco quindi la conseguenza di questa
appartata passione del poeta: un'esistenza senza particolari progetti o intenzioni:
fatta di lentezze, indugi e semplici appagamenti. Ai moniti degli amici che, in
passato, lo spronavano affinché uscisse dal suo guscio e si facesse valere, il
poeta non ha voluto mai rispondere, né mutare il suo comportamento, così
assuefatto e soddisfatto delle sue rinunce, delle mancanze, delle attese e
perfino delle apatie che hanno contraddistinto il suo passaggio sulla terra.
venerdì 24 marzo 2017
Primavera e memoria
All'aprirsi dell'aria
spaccata dal vento,
trafitta da lunghe
spade d'argento,
la terra ricomincia
il suo tempo,
senza memoria dei
millenni e dei giorni,
ignara d'inizi e
ritorni:
erba drizzata, sparsa
fronda,
acqua che fugge in
lucida onda,
primo fiore, colore.
Ma noi, su noi stessi
piegati
dal carico dei giorni
e dei millenni,
noi non possiamo
ricominciare;
noi abbiamo solo
occhi per guardare
l'eterna fiumana
estuare
dalle innumerevoli
porte
dell'universo; noi
confitti e chiusi
nel nostro guscio di
memoria umana,
separata finita
lontana.
È, questa, la
penultima lirica di quelle comprese nel volume riassuntivo Poesie di Diego Valeri (Piove di Sacco, 1887 - Roma 1976), pubblicato dalla Mondadori
nel 1962. Composta in tarda età dal poeta veneto, mette in risalto la netta
differenza tra la vita del nostro pianeta e quella di noi, esseri umani. Lo
spunto di questa meditazione è dato dal ritorno della stagione primaverile, che
si palesa, per quel che concerne la Terra, con un nuovo inizio di vita e di
energia: le acque che si spostano in seguito allo sgelo; la comparsa dei primi
fiori sbocciati dopo i primi tepori; l'erba dei prati che riprende vita e
colore grazie al calore dei raggi solari... Tutti elementi della rinascita
infinita che avviene ogni anno sulla superficie del pianeta, il quale non è,
come noi, consapevole di ciò che è avvenuto, che avviene e che avverrà, poiché
non ha memoria e tutto si sussegue senza ricordo alcuno. Gli uomini invece,
carichi di anni, appesantiti dal tempo che è passato, sono ben consci della
propria precarietà e del fatto che per loro è impossibile rinascere, ma
soltanto osservare gli eventi della natura che si rinnova. Quel "noi"
usato più volte dal Valeri, indica una fratellanza col genere umano che soffre
della propria finitezza ed anche dei ricordi, i quali, col passare degli anni
si accumulano e pesano nell'anima sempre di più, tanto da farla piegare su sé
stessa. Negli ultimi versi affiora con maggiore evidenza la sconsolata rassegnazione del poeta, che
parla di noi: un'umanità chiusa e inchiodata in un involucro fatto di memoria,
che ci allontana, ci separa dalla terra che sempre rinasce, facendoci sentire
quanto mai inutili e caduchi, consapevoli del nostro breve tempo che passa
velocemente, e che ci fa perdere, lungo la strada della vita, anche i ricordi più
belli.
domenica 19 marzo 2017
Ho paura, la sera
Ho paura la sera
solo all’imbrunire
quando s’aggrava
sulla mia anima il
peso
della tristezza, ho
paura
di traversare la
strada,
che non s’allenti in
quell’attimo
la mia ultima presa
alla vita; e una
volontà
di sonno, più forte
di tutto, mi stenda
sul letto d’asfalto.
Questa breve poesia
di Giorgio Vigolo fa parte della raccolta intitolata La luce ricorda, edita da Mondadori nel 1967. In questo libro, il
poeta romano radunò gran parte dei versi che fino ad allora aveva pubblicato,
con l'aggiunta di una sezione inedita: Nuove
poesie. Ho paura, la sera fa
parte della sezione: Amico di Caronte,
datata 1947, e fu pubblicata per la prima volta nel volume Linea della vita (Mondadori, Milano 1949).
La poesia è,
principalmente, una confessione del poeta, che esprime, ammette, dichiara una
sua profonda paura. Vigolo, romano, vissuto sempre o quasi nella capitale
italiana, conoscitore dei segreti più reconditi della sua città, probabilmente
nel corso delle frequenti passeggiate per le strade del centro che aveva
l'abitudine di fare (come si evince anche da molte sue prose), si accorge di
avere un malessere esistenziale. È un senso forte di tristezza quello che prova
il poeta, soprattutto verso l'imbrunire, quando la luce del sole va scomparendo
e si addensano le prime ombre della sera. In questi momenti l'uomo, già
tormentato da precedenti dolori e da numerose delusioni, teme di perdere la sua
"ultima presa / alla vita":
quell'istinto di sopravvivenza che abbiamo tutti, e che ci spinge ad andare
avanti anche tra mille difficoltà, perché la forza della vita è superiore
rispetto a quella, contraria, della morte. La presenza, sulle strade, proprio
in quelle ore crepuscolari, di un cospicuo numero di autoveicoli, fa sì che
Vigolo pensi, per un attimo, all'idea di gettarsi sull'asfalto all'improvviso
e, in pochi secondi, farla per sempre finita. Il poeta in questo contesto parla
di "una volontà / di sonno":
quel sonno eterno che è, fondamentalmente, la morte. In altri testi, Vigolo,
espone questa sua preferenza per il "sonno", quale salvagente dai
dolori e rifugio dalla tristezza e dalla stanchezza. Sempre riguardo al sonno
come anticipo della morte e fuga dalla vita, mi vengono in mente due bellissimi
passi di altrettanti racconti. Il primo, di Jack London, è tratto da Martin Eden:
«Improvvisamente si
accorse di quanto fosse disperata la sua situazione. Con occhi limpidi vide che
era entrato nella Valle delle Ombre. Tutta la vita che ancora gli restava
svaniva, si dileguava, lo avviava verso la morte. S'accorse di quanto a lungo
dormisse ormai, del bisogno che aveva di dormire. Una volta odiava il sonno,
perché lo derubava di preziosi momenti, in cui avrebbe potuto vivere. Dormire
quattro ore su ventiquattro voleva dire essere derubato di quattro ore di vita.
Com'era rammaricato per quel sonno! Adesso invece era la vita che non gli
andava più. La vita non era più buona, e gli lasciava in bocca un gusto amaro.
Ecco il suo pericolo. La vita che non tendeva verso la vita era sul punto di
estinguersi».
Il secondo (e qui
concludo) è di Carlo Cassola e fa parte de Il
taglio del bosco:
«Precipitare nel buio
del sonno era quanto di meglio gli restava. Quando Guglielmo sentiva il sonno
venire, era contento, perché per qualche ora sarebbe stato liberato da ogni
pensiero, e perché un altro giorno era passato. A uno a uno i giorni passavano,
e i mesi e gli anni restavano dietro le spalle. Aveva trentott'anni; non era
lontano il traguardo dei quaranta, passato il quale sarebbe stato un uomo
maturo, quasi una persona anziana».
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