venerdì 25 aprile 2025

Le rovine e le macerie causate dai bombardamenti in due poesie

 Dopo la comparsa della bomba atomica, quasi cento anni fa in tanti dissero che negli anni futuri le guerre non ci sarebbero più state, oppure sarebbero state così devastanti da mettere a rischio la vita di qualsiasi essere del pianeta terra. Non stavano così le cose: le guerre hanno continuato a susseguirsi, ed oggi sono più presenti che mai. In più, si può ben affermare che le guerre di oggi somigliano alle guerre di ieri: caratterizzate da fitti bombardamenti che radono al suolo le città, facendo tantissime vittime fra la popolazione, non risparmiando affatto i bambini, le donne, gli anziani e i malati. La ricorrenza del 25 aprile oggi assume un'importanza più accentuata, visti i disastri a cui ci tocca di assistere a causa delle guerre che ci accerchiano sempre di più, e che forse in un futuro non lontano ci coinvolgeranno direttamente; in occasione di una festa fondamentale per la nostra libertà quale è il 25 aprile, quest'anno ho voluto trascrivere due poesie che parlano delle rovine e delle macerie causate dai bombardamenti avvenuti durante la 2° Guerra Mondiale; sono, rispettivamente di Carlo Betocchi e di Donata Doni; furono scritte entrambe nel 1945: anno tragico, almeno se si parla dei suoi inizi: nei primi mesi del '45, in gran parte del nostro paese si verificarono degli eventi terribilmente crudi: coloro che ormai erano ad un passo dalla sconfitta non vollero cedere le armi senza continuare a perpetuare, sovrastati da un odio senza controllo, una serie di azioni bieche, di una spietatezza che non aveva precedenti; nello stesso tempo, quelli che erano diventati i nostri alleati, forse per accelerare i tempi della resa dei nemici, effettuarono bombardamenti a tappeto sulle città italiane, causando vittime su vittime, soprattutto fra la popolazione civile. Da questa sciagurata situazione nascono questi versi. 

Betocchi, guardando le rovine delle case dopo i bombardamenti, prova a immaginare un'altra realtà, talmente fantasiosa da poter superare la crudezza della visione: non ci sono più le case e neppure le persone che le abitavano, ma al loro posto si vede il cielo primaverile, e le rondini che volano intorno; ciò basta al poeta per essere ottimista, per immaginarsi un futuro migliore, dove chi ricostruirà ciò che è crollato, e chi tornerà a dimorare nelle nuove abitazioni (imitando i comportamenti di chi proprio lì visse e sognò un mondo migliore), permetterà di riformare quell'ombra spezzata, quella forza vitale che in qualche modo legherà i morti con i vivi, come se i primi tornassero ad esistere. 

Diverso è lo stato d'animo della Doni, che desolatamente osserva le macerie delle case distrutte, ricordando le stanze dove scorreva la vita di chi ci abitava, ricca di sentimenti e sensazioni dissimili; le bombe hanno raso al suolo quei luoghi cari, ponendo fine anche al tempo, come un orologio rotto fermo sull'ultima ora prima del fatidico bombardamento, prima che l'odio disintegrasse ogni segno di vita. Buon 25 aprile a tutti. 




ROVINE 1945

di Carlo Betocchi (1899-1986)


Non è vero che hanno distrutto

le case, non è vero:

solo è vero in quel muro diruto

l’avanzarsi del cielo


a piene mani, a pieno petto,

dove ignoti sognarono,

o vivendo sognare credettero,

quelli che son spariti…


Ora spetta all’ombra spezzata

il gioco d’altri tempi,

sopra i muri, nell’alba assolata,

imitarne gli incerti…


e nel vuoto alla rondine che passa.


(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1984, p. 152)






L'ULTIMA ORA

di Donata Doni (Santina Maccarone, 1913-1972)


Erano le nostre case,

aperte al respiro dei giorni,

all'onda della vita.

Scandivano, voci alterne,

il ritmo fugace.

L'amore, la lotta, la culla, la bara,

segnavano il lento fluire dei giorni

coi nomi del tempo.

Erano le nostre case.

Le sconvolge, tra le macerie il vento,

le nasconde la pietà della notte,

le devasta la sete dei ricordi.

S'è fermato il cammino del tempo.

Nella voce disumana dell'odio

resta l'ultima ora.


                                                  Forlì, 1 aprile 1945


(da "Neve e mare", Edizioni di Storia e Letteratura, Roma MCMLXXIII, p. 51)

domenica 20 aprile 2025

Una poesia di Dino Garrone

 Dino Garrone (Novara 1904 - Parigi 1931), parlando di letteratura italiana, è stato uno dei più promettenti scrittori che appartenevano ad una generazione assai ricca di talenti: i nati nel primo decennio del XX secolo. Fu sicuramente sfortunato, visto che morì a soli ventisette anni per una setticemia insorta a seguito di una operazione ad un dente. La sua breve storia, è quella che accomuna tanti italiani: giovanissimo, forse un po' ingenuamente, fu fervente fascista, influenzato fortemente da quelli che valutava come degli ideali rivoluzionari; poi però, dopo non molti anni si rese conto della vera natura del regime, distaccandosene definitivamente e lasciando anche la sua amata Pesaro - dove visse per la gran parte della sua vita - per trasferirsi a Parigi, dove risiedette solamente un anno e mezzo. Scrisse articoli di vario argomento su giornali e riviste come Corriere Adriatico, Il Rosai, L'Universale e Il Resto del Carlino. I suoi scritti - prose e lettere soprattutto - furono pubblicati postumi. A quanto ne so è praticamente sconosciuta la sua attività poetica, se si esclude una lirica pubblicata dalla Fiera Letteraria nell'aprile del 1948, intitolata Mia Pasqua. La trascrivo di seguito insieme ad una parte del commento di Gabriele Armandi che si trova in calce alla poesia stessa.


Dino Garrone



MIA PASQUA

di Dino Garrone (1904-1931)


Pasqua! Ma l'anima a dislegare

nessuno arriva, dalla sua colla.

Se gonfia al sommo, si spacca la bolla

poi della voce: non sa pregare.


Aprile! Il gusto del tempo nuovo

chi l'assapora su questa soglia?

Purpureo è il fiore, sgorga la foglia

tènera. In cuore c'è marzo e rovo.


Campane! Smania chiusa, stravolta,

che mordi le corde, vicine, lontane.

I suoni gridano come le frane

nella vallata. Ma chi li ascolta?


Gesù! Ma se fossi rinato davvero

come ci dissero da bambini,

perché tu il filo dei nostri destini

non lo fai bianco piuttosto che nero?


Chiese! Stravibrano d'organo al crollo

nelle tre porte le cattedrali.

Che vale struggersi? Anche se l'ali

squarciano gli omeri, ricurvo è il collo.


Preghiere! Il sangue dalle ginocchia

trasuda. Sanguinano le orazioni.

Indifferente fra i tristi e i buoni

la Morte fila la sua conocchia.


Morte! Ma dunque pel varco stretto

ritroveremo l'età sognate?

Ritroveremo mai quell'estate

che ci dilacera sotto il corsetto?


Morte! Preistoria, infanzia, ritorno,

fresco viaggio della prima età.

Cheto fluisce dagli occhi il giorno:

ci sarà Pasqua nell'al di là?


***


  Mi è occorso, qualche mese fa (e, certo, per una singolare ventura), di ritrovare tra alcune vecchie carte, ammucchiate in un angolo del mio ufficio redazionale, un ingiallito ritaglio con la poesia «Mia Pasqua» di Dino Garrone.

  Per tutto il tempo che l'ho tenuta con me, in attesa dell'occasione propizia per ripubblicarla, me la son venuta leggendo e studiando fino ad amarla con la dolcezza e la tristezza insieme con cui oggi la offro ai lettori di questo giornale, nella speranza che una luce di poesia si accenda ad illuminare il ricordo di uno tra i nostri più tormentati e gagliardi scrittori.

[...]


                                                                                                Gabriele Armandi




(da «Fiera Letteraria», Anno III, n. 13, 4 aprile 1948, pagina 3)





domenica 13 aprile 2025

Riviste: la "Fiera Letteraria"

 La Fiera letteraria è il titolo di una rivista settimanale di lettere, scienze ed arti, che nacque a Milano nel 1925 per iniziativa di Umberto Fracchia. Dal 1929, la sede della rivista fu trasferita a Roma e cambiò anche il titolo in Italia letteraria; dopo sette anni però, cessò le pubblicazioni. Nel 1946, la rivista rinacque col titolo originario, pubblicando per lo più saggi, prose e poesie; nel 1968 cessò di nuovo le pubblicazioni, per riprenderle nel 1971, fino al 1977: anno in cui la Fiera letteraria concluse la sua esistenza. Ritengo che il periodo più significativo della rivista romana - almeno dal versante della poesia italiana - sia identificabile in quello che inizia con l'immediato secondo dopoguerra e termina con l'anno della cosiddetta "contestazione giovanile". In questo ventennio, i comitati che si alternarono alla direzione della Fiera letteraria, ebbero il merito di captare parecchi talenti poetici emergenti, e di dargli ampio spazio sulle pagine della rivista. Concludo trascrivendo tre poesie pubblicate proprio nel periodo sopra indicato.


Prima pagina della rivista: "La Fiera Letteraria", anno 1, numero 1, 13 dicembre 1925
(da questa pagina web)



GLI UBRIACHI

di Luca Canali (1925-2014)


Questa sera cantiamo a squarciagola.

Mi ricordo una limpida giornata

che silenziosi andammo lungo il mare:

come altro sangue in tutti noi

gridava il sole nelle nostre vene.

Ma a quest'ora che serba del giorno

una fede violenta e sanguigna

vanno a frotte animali assetati

scoppiano i semi gonfi nella terra.

Ci sentiamo viandanti disperati

con ognuno una strada.

Come un'amara linfa ci separa

è la sorte trovata questa sera

con la feccia nel fondo d'un 

                            bicchiere.


(da «Fiera Letteraria», Anno 1, N. 36, 12 dicembre 1946)





APPARIZIONE

di Fabio Carpi (1925-2018)


Da un inviolato mondo

ella m'apparve, e tenera le braccia

e gli occhi spalancava: io la vedevo

piangere nel tramonto.


Specchio alla sua tristezza

mi furono le tenebre, l'inganno

che una più lunga giornata trattiene.

Ansiosamente udivo

rifrangersi nell'acqua

di un vicino ruscello la tua voce,

e le tue labbra premere il mio cuore

come un dolce fiato di sole.


Poi di nuovo riapparvero sui monti

nuvole gigantesche, si specchiava

la mia pupilla avida di luce

tra le fronde degli alberi, riverso

il capo dondolava come un fiore

che si chiude alla notte.

                   Accolsi il nulla,

chiusi me stesso al giorno, alla speranza.


(da «Fiera Letteraria», Anno II, n. 28, luglio 1947)





NOTTE E UN NOME

di Francesco Tentori (1924-1995)


                                                                                per Annamaria

Né la luna né l'orlo del fanale

né la musica ormai ridotta a un'ombra

bastano a consolare queste case

oppresse dalla notte, dove i lumi

accendono un nostalgico scenario

che alterna pena e rottami di gioia.

Tu ed io potremmo ancora impietosirci

per questo dramma di calce e di vetro,

se poi la noia non tagliasse i nodi

abbassando il sipario sulla piazza.

Vedi, un sorriso ci rende crudeli:

siamo vicini e non possiamo piangere,

anche se il mondo intorno a noi è un lamento.

Forse sapremo ritrovare il filo

della fuga da questo labirinto

di parole e di volti, oppure il cielo

precipitando un angelo atterrito

ci illuderà con un falso miracolo.


(da «Fiera Letteraria», Anno V, n. 11, 12 marzo 1950)


domenica 6 aprile 2025

I ritorni nella poesia italiana decadente e simbolista

 

Si percepisce, in tanti “ritorni” presenti nei versi dei poeti italiani decadenti e simbolisti, qualcosa simile ad una sconfitta: è un mesto viaggio verso il luogo da cui si era partiti entusiasti e speranzosi, che sta a significare qualcosa di estremamente negativo accaduto durante l’assenza. Tali ritorni, a volte sono consolatori, poiché si ritrovano le persone e le cose lasciate (affetti, amori, amicizie e quant’altro); altre volte risultano dolorosi e sconfortanti, poiché si constata la perdita totale di ciò che ancora si aveva al momento della partenza (in quest'ultima categoria rientrano le poesie nell’elenco sottostante di Brigante Colonna, Chiaves e Corazzini). In casi più rari, si parla di un “ritorno alla vita”, e protagonisti, ovviamente, sono gli scomparsi, i quali vivono una sorta di resurrezione (emblematica, a tal proposito, è la poesia di Dalmatico), che in sostanza è un premio per la loro ottima condotta nella vita precedente, o per le circostanze assai sfortunate che li videro soccombere ingiustamente e prematuramente. In altri casi ancora, i ritorni sono solamente paventati (si leggano le poesie di D’Annunzio, Donati Pétteni e Onofri), e fungono da auspicio, per tirare su il morale di chi avverte una forte nostalgia ed un tangibile rimpianto per ciò che ha lasciato partendo. C’è poi da aggiungere che, in diversi casi, i ritorni avvengono durante la sera: fase declinante della giornata e, simbolicamente, della vita.

 

 

 

Poesie sull’argomento

 

Mario Adobati: "Il ritorno nella sera" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).

Vittoria Aganoor: "Ritorno" in "Leggenda eterna" (1900).

Sandro Baganzani: "Ritorni" in "Senzanome" (1924).

Gustavo Brigante-Colonna: "Dal tedio che mi opprime" in "Gli ulivi e le ginestre" (1912).

Enrico Cavacchioli: "Il ritorno" in "L'Incubo Velato" (1906).

Carlo Chiaves: "Pellegrinaggio invernale" in "Sogno e ironia" (1910).

Sergio Corazzini: "Il ritorno" in «Marforio», novembre 1904.

Italo Dalmatico: "Risorgeranno da le tombe i morti?" in "Juvenilia" (1903).

Gabriele D'Annunzio: "Consolazione" in "Poema paradisiaco" (1893).

Giuliano Donati Pétteni: "Ritorno" in "Intimità" (1926).

Aldo Fumagalli: "Il ritorno" in "Arcate" (1913).

Cosimo Giorgieri Contri: "In un paesetto obliato" in "Il convegno dei cipressi" (1894).

Virgilio La Scola: "Ritorno dai campi" in "La placida fonte" (1907).

Tito Marrone: "La clessidra" in «La nuova rivista», gennaio 1907.

Ettore Moschino: "Risveglio" in "I Lauri" (1908).

Arturo Onofri: "Vuoi, dunque, ch'io ritorni? Oh sì, ritornerò" in "Canti delle osai" (1909).

Angiolo Orvieto: "Ritorno" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).

Giovanni Pascoli: "Notte d'inverno" in "Canti di Castelvecchio" (1903).

Diego Valeri: "Il figliol prodigo" in "Ariele" (1924).

 

 

 

Testi


DAL TEDIO CHE MI OPPRIME

di Gustavo Brigante-Colonna (1878-1956)


Dal tedio che mi opprime

Torno pe' molli clivi

Al rezzo degli ulivi

Ove fiorian le rime:

Più d'un capello bianco

Dice che il cuore è stanco.


Salgo al paese antico

Col cuor gonfio di pianto,

Guardo di tanto in tanto

Se scorga un volto amico:

Dicono gli occhi intorno

Che inutile è il ritorno.


Con l'anima pervasa

Del sogno già sognato,

Come un allucinato

Torno a la vecchia casa.

Batto a la porta. Tu

non mi rispondi più.


(da "Gli ulivi e le ginestre", M. Carra & C., Roma 1912, p. 37)




 

CONSOLAZIONE

di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)

 

Non pianger più. Torna il diletto figlio

a la tua casa. È stanco di mentire.

Vieni, usciamo. Tempo è di rifiorire.

Troppo sei bianca: il volto è quasi un giglio.

 

Vieni; usciamo. Il giardino abbandonato

serba ancóra per noi qualche sentiero.

Ti dirò come sia dolce il mistero

che vela certe cose del passato.

 

Ancóra qualche rosa è ne' rosai,

ancóra qualche timida erba odora.

Ne l'abbandono il caro luogo ancóra

sorriderà, se tu sorriderai.

 

Ti dirò come sia dolce il sorriso

di certe cose che l'oblìo afflisse.

Che proveresti tu se ti fiorisse

la terra sotto i piedi, all'improvviso?

 

Tanto accadrà, ben che non sia d'aprile.

Usciamo. Non coprirti il capo. È un lento

sol di settembre, e ancor non vedo argento

su 'l tuo capo, e la riga è ancor sottile.

 

Perché ti neghi con lo sguardo stanco?

La madre fa quel che il buon figlio vuole.

Bisogna che tu prenda un po' di sole,

un po' di sole su quel viso bianco.

 

Bisogna che tu sia forte; bisogna

che tu non pensi a le cattive cose...

Se noi andiamo verso quelle orse,

io parlo piano, l'anima tua sogna.

 

Sogna, sogna, mia cara anima! Tutto,

tutto sarà come al tempo lontano.

Io metterò ne la tua pura mano

tutto il mio cuore. Nulla è ancor distrutto.

 

Sogna, sogna! Io vivrò de la tua vita.

In una vita semplice e profonda

io rivivrò. La lieve ostia che monda

io la riceverò da le tue dita.

 

Sogna, ché il tempo di sognare è giunto.

lo parlo. Di': l'anima tua m'intende?

Vedi? Ne l'aria fluttua e s'accende

quasi il fantasma d'un april defunto.

 

Settembre (di': l'anima tua m'ascolta?)

ha ne l'odore suo, nel suo pallore,

non so, quasi l'odore ed il pallore

di qualche primavera dissepolta.

 

Sogniamo, poi ch'è tempo di sognare.

Sorridiamo. E la nostra primavera,

questa. A casa, più tardi, verso sera,

vo' riaprire il cembalo e sonare.

 

Quanto ha dormito, il cembalo! Mancava,

allora, qualche corda; qualche corda

ancóra manca. E l'ebano ricorda

le lunghe dita ceree de l'ava.

 

Mentre che fra le tende scolorate

vagherà qualche odore delicato,

(m'odi tu?) qualche cosa come un fiato

debole di viole un po' passate,

 

sonerò qualche vecchia aria di danza,

assai vecchia, assai nobile, anche un poco

triste; e il suon sarà velato, fioco,

quasi venisse da quell'altra stanza.

 

Poi per te sola io vo' comporre un canto

che ti raccolga come in una cuna,

sopra un antico metro, ma con una

grazia che sia vaga e negletta alquanto.

 

Tutto sarà come al tempo lontano.

L'anima sarà semplice com'era;

e a te verrà, quando vorrai, leggera

come vien l'acqua al cavo de la mano.

 

(da "Poema paradisiaco", Mondadori, Milano 1995, pp. 72-74)

 

 

 

 

IL FIGLIOL PRODIGO

di Diego Valeri (1887-1976)

 

Cade il giorno, ed io cammino

col mio povero destino

su la strada del ritorno.

 

Cuore amaro del figlio errante

che ritorna alla sua terra,

che ritorna alla sua vita,

da tanta inutile guerra,

da tanta speranza finita!

Cuore greve di tanto dolore

non mai detto, di lacrime tante

non mai piante!

 

Ecco, e mi vengono a incontrare

nel barlume crepuscolare

i grandi platani che portano ancora

- come allora -

tra gli alti rami colore di tortora

esili trame d'oro e di porpora.

(Dolce l'autunno della terra natia;

ma tanta dolcezza, o amaro mio cuore,

non t'è, non t'è più poesia!)

 

Cammino e cammino

nel caligo cenerino.

Ombre nere di gelsi spogliati

e tremor grigio di salici,

lungo pallidi fossi allucinati

dallo spento opaco biancore

del cielo che muore.

(A ogni passo rivedo e ritrovo

un po' dell'antico me stesso.

Ogni cosa rivedo e ritrovo

come allora così adesso;

ma non più nell'anima mia

l'antica poesia!)

 

Monto la rampa del ponte,

la strada vasta che sale,

luminosa su l'oscuro orizzonte,

a sboccare

nell'immenso vuoto del cielo.

E d'in alto mi volgo a guardare,

a cercare dove dove sia

la mia antica poesia.

 

Oh l'ardente infinita agonia

del tramonto - rame oro sangue -

sopra gli alti argini nudi,

incantati, sterminati,

per tant'anni camminati

dal mio cuore in nostalgia!

 

Nell'acqua del fiume

che splende che langue

d'un intimo ultimo lume

- rame oro sangue -,

rivedo i poveri occhi obliati

della morta giovinezza mia...

Ma no, neppur questo,

neppur questo m'è più poesia!

 

Discendo, proseguo il cammino,

senza più sguardo ormai né pensiero,

stracco affannato pellegrino che va

sol per andare, e la sua meta non sa.

 

Adesso la notte m'è intorno,

profondo respiro di mistero.

Io più non vedo, io più non ricordo

dove, a che cosa, ritorno.

 

Ma d'improvviso, dall'oscurità,

una dolce campana

mi viene incontro, mi chiama

con un lungo triste latrato

di vecchio cane che non m'ha dimenticato,

con un triste lungo saluto

d'antico amore che m'ha riconosciuto.

Ed ecco, m'appare, nell'incerto bagliore

di quattro fanali rossastri,

il muro bianco del cimitero.

Dietro il muro, nel tenebrore,

riconosco la chiesa e i cipressi

circonfusi d'un palpito d'astri...

La mia meta! la mia terra!

la terra che risponde al mio passo esitante

coi battiti lenti e sommessi

del cuore di mia madre morta;

l'aria che serba e mi porta

la carezza delle mani sante

di mia madre sepolta...

 

O città che raggi laggiù

nella nebbia il tuo amore lucente,

che vuoi da me? Certamente

le tue vie le tue case la tua gente

non mi conoscono più.

Non per te son io ritornato,

città di passato!

 

Ma qui riconosco la mia vita,

qui ritrovo la mia poesia;

qui qui dovevo tornare

da tanta inutile guerra,

da tanta speranza fallita:

a questo recinto di terra

dove sento sboccare

la lunga mia nostalgia,

dov'è tutto quanto posso salvare,

ancora, dell'anima mia.

 

(da "Ariele", Mondadori, Milano-Roma 1924, pp. 129-134)

 

 

Johann Georg Meyer, "Returning Home"
(da questa pagina web)