domenica 6 aprile 2025

I ritorni nella poesia italiana decadente e simbolista

 

Si percepisce, in tanti “ritorni” presenti nei versi dei poeti italiani decadenti e simbolisti, qualcosa simile ad una sconfitta: è un mesto viaggio verso il luogo da cui si era partiti entusiasti e speranzosi, che sta a significare qualcosa di estremamente negativo accaduto durante l’assenza. Tali ritorni, a volte sono consolatori, poiché si ritrovano le persone e le cose lasciate (affetti, amori, amicizie e quant’altro); altre volte risultano dolorosi e sconfortanti, poiché si constata la perdita totale di ciò che ancora si aveva al momento della partenza (in quest'ultima categoria rientrano le poesie nell’elenco sottostante di Brigante Colonna, Chiaves e Corazzini). In casi più rari, si parla di un “ritorno alla vita”, e protagonisti, ovviamente, sono gli scomparsi, i quali vivono una sorta di resurrezione (emblematica, a tal proposito, è la poesia di Dalmatico), che in sostanza è un premio per la loro ottima condotta nella vita precedente, o per le circostanze assai sfortunate che li videro soccombere ingiustamente e prematuramente. In altri casi ancora, i ritorni sono solamente paventati (si leggano le poesie di D’Annunzio, Donati Pétteni e Onofri), e fungono da auspicio, per tirare su il morale di chi avverte una forte nostalgia ed un tangibile rimpianto per ciò che ha lasciato partendo. C’è poi da aggiungere che, in diversi casi, i ritorni avvengono durante la sera: fase declinante della giornata e, simbolicamente, della vita.

 

 

 

Poesie sull’argomento

 

Mario Adobati: "Il ritorno nella sera" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).

Vittoria Aganoor: "Ritorno" in "Leggenda eterna" (1900).

Sandro Baganzani: "Ritorni" in "Senzanome" (1924).

Gustavo Brigante-Colonna: "Dal tedio che mi opprime" in "Gli ulivi e le ginestre" (1912).

Enrico Cavacchioli: "Il ritorno" in "L'Incubo Velato" (1906).

Carlo Chiaves: "Pellegrinaggio invernale" in "Sogno e ironia" (1910).

Sergio Corazzini: "Il ritorno" in «Marforio», novembre 1904.

Italo Dalmatico: "Risorgeranno da le tombe i morti?" in "Juvenilia" (1903).

Gabriele D'Annunzio: "Consolazione" in "Poema paradisiaco" (1893).

Giuliano Donati Pétteni: "Ritorno" in "Intimità" (1926).

Aldo Fumagalli: "Il ritorno" in "Arcate" (1913).

Cosimo Giorgieri Contri: "In un paesetto obliato" in "Il convegno dei cipressi" (1894).

Virgilio La Scola: "Ritorno dai campi" in "La placida fonte" (1907).

Tito Marrone: "La clessidra" in «La nuova rivista», gennaio 1907.

Ettore Moschino: "Risveglio" in "I Lauri" (1908).

Arturo Onofri: "Vuoi, dunque, ch'io ritorni? Oh sì, ritornerò" in "Canti delle osai" (1909).

Angiolo Orvieto: "Ritorno" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).

Giovanni Pascoli: "Notte d'inverno" in "Canti di Castelvecchio" (1903).

Diego Valeri: "Il figliol prodigo" in "Ariele" (1924).

 

 

 

Testi

 

CONSOLAZIONE

di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)

 

Non pianger più. Torna il diletto figlio

a la tua casa. È stanco di mentire.

Vieni, usciamo. Tempo è di rifiorire.

Troppo sei bianca: il volto è quasi un giglio.

 

Vieni; usciamo. Il giardino abbandonato

serba ancóra per noi qualche sentiero.

Ti dirò come sia dolce il mistero

che vela certe cose del passato.

 

Ancóra qualche rosa è ne' rosai,

ancóra qualche timida erba odora.

Ne l'abbandono il caro luogo ancóra

sorriderà, se tu sorriderai.

 

Ti dirò come sia dolce il sorriso

di certe cose che l'oblìo afflisse.

Che proveresti tu se ti fiorisse

la terra sotto i piedi, all'improvviso?

 

Tanto accadrà, ben che non sia d'aprile.

Usciamo. Non coprirti il capo. È un lento

sol di settembre, e ancor non vedo argento

su 'l tuo capo, e la riga è ancor sottile.

 

Perché ti neghi con lo sguardo stanco?

La madre fa quel che il buon figlio vuole.

Bisogna che tu prenda un po' di sole,

un po' di sole su quel viso bianco.

 

Bisogna che tu sia forte; bisogna

che tu non pensi a le cattive cose...

Se noi andiamo verso quelle orse,

io parlo piano, l'anima tua sogna.

 

Sogna, sogna, mia cara anima! Tutto,

tutto sarà come al tempo lontano.

Io metterò ne la tua pura mano

tutto il mio cuore. Nulla è ancor distrutto.

 

Sogna, sogna! Io vivrò de la tua vita.

In una vita semplice e profonda

io rivivrò. La lieve ostia che monda

io la riceverò da le tue dita.

 

Sogna, ché il tempo di sognare è giunto.

lo parlo. Di': l'anima tua m'intende?

Vedi? Ne l'aria fluttua e s'accende

quasi il fantasma d'un april defunto.

 

Settembre (di': l'anima tua m'ascolta?)

ha ne l'odore suo, nel suo pallore,

non so, quasi l'odore ed il pallore

di qualche primavera dissepolta.

 

Sogniamo, poi ch'è tempo di sognare.

Sorridiamo. E la nostra primavera,

questa. A casa, più tardi, verso sera,

vo' riaprire il cembalo e sonare.

 

Quanto ha dormito, il cembalo! Mancava,

allora, qualche corda; qualche corda

ancóra manca. E l'ebano ricorda

le lunghe dita ceree de l'ava.

 

Mentre che fra le tende scolorate

vagherà qualche odore delicato,

(m'odi tu?) qualche cosa come un fiato

debole di viole un po' passate,

 

sonerò qualche vecchia aria di danza,

assai vecchia, assai nobile, anche un poco

triste; e il suon sarà velato, fioco,

quasi venisse da quell'altra stanza.

 

Poi per te sola io vo' comporre un canto

che ti raccolga come in una cuna,

sopra un antico metro, ma con una

grazia che sia vaga e negletta alquanto.

 

Tutto sarà come al tempo lontano.

L'anima sarà semplice com'era;

e a te verrà, quando vorrai, leggera

come vien l'acqua al cavo de la mano.

 

(da "Poema paradisiaco", Mondadori, Milano 1995, pp. 72-74)

 

 

 

 

IL FIGLIOL PRODIGO

di Diego Valeri (1887-1976)

 

Cade il giorno, ed io cammino

col mio povero destino

su la strada del ritorno.

 

Cuore amaro del figlio errante

che ritorna alla sua terra,

che ritorna alla sua vita,

da tanta inutile guerra,

da tanta speranza finita!

Cuore greve di tanto dolore

non mai detto, di lacrime tante

non mai piante!

 

Ecco, e mi vengono a incontrare

nel barlume crepuscolare

i grandi platani che portano ancora

- come allora -

tra gli alti rami colore di tortora

esili trame d'oro e di porpora.

(Dolce l'autunno della terra natia;

ma tanta dolcezza, o amaro mio cuore,

non t'è, non t'è più poesia!)

 

Cammino e cammino

nel caligo cenerino.

Ombre nere di gelsi spogliati

e tremor grigio di salici,

lungo pallidi fossi allucinati

dallo spento opaco biancore

del cielo che muore.

(A ogni passo rivedo e ritrovo

un po' dell'antico me stesso.

Ogni cosa rivedo e ritrovo

come allora così adesso;

ma non più nell'anima mia

l'antica poesia!)

 

Monto la rampa del ponte,

la strada vasta che sale,

luminosa su l'oscuro orizzonte,

a sboccare

nell'immenso vuoto del cielo.

E d'in alto mi volgo a guardare,

a cercare dove dove sia

la mia antica poesia.

 

Oh l'ardente infinita agonia

del tramonto - rame oro sangue -

sopra gli alti argini nudi,

incantati, sterminati,

per tant'anni camminati

dal mio cuore in nostalgia!

 

Nell'acqua del fiume

che splende che langue

d'un intimo ultimo lume

- rame oro sangue -,

rivedo i poveri occhi obliati

della morta giovinezza mia...

Ma no, neppur questo,

neppur questo m'è più poesia!

 

Discendo, proseguo il cammino,

senza più sguardo ormai né pensiero,

stracco affannato pellegrino che va

sol per andare, e la sua meta non sa.

 

Adesso la notte m'è intorno,

profondo respiro di mistero.

Io più non vedo, io più non ricordo

dove, a che cosa, ritorno.

 

Ma d'improvviso, dall'oscurità,

una dolce campana

mi viene incontro, mi chiama

con un lungo triste latrato

di vecchio cane che non m'ha dimenticato,

con un triste lungo saluto

d'antico amore che m'ha riconosciuto.

Ed ecco, m'appare, nell'incerto bagliore

di quattro fanali rossastri,

il muro bianco del cimitero.

Dietro il muro, nel tenebrore,

riconosco la chiesa e i cipressi

circonfusi d'un palpito d'astri...

La mia meta! la mia terra!

la terra che risponde al mio passo esitante

coi battiti lenti e sommessi

del cuore di mia madre morta;

l'aria che serba e mi porta

la carezza delle mani sante

di mia madre sepolta...

 

O città che raggi laggiù

nella nebbia il tuo amore lucente,

che vuoi da me? Certamente

le tue vie le tue case la tua gente

non mi conoscono più.

Non per te son io ritornato,

città di passato!

 

Ma qui riconosco la mia vita,

qui ritrovo la mia poesia;

qui qui dovevo tornare

da tanta inutile guerra,

da tanta speranza fallita:

a questo recinto di terra

dove sento sboccare

la lunga mia nostalgia,

dov'è tutto quanto posso salvare,

ancora, dell'anima mia.

 

(da "Ariele", Mondadori, Milano-Roma 1924, pp. 129-134)

 

 

Johann Georg Meyer, "Returning Home"
(da questa pagina web)