Si percepisce, in tanti “ritorni” presenti nei versi dei poeti italiani decadenti e simbolisti, qualcosa simile ad una
sconfitta: è un mesto viaggio verso il luogo da cui si era partiti entusiasti e
speranzosi, che sta a significare qualcosa di estremamente negativo accaduto
durante l’assenza. Tali ritorni, a volte sono consolatori, poiché si ritrovano
le persone e le cose lasciate (affetti, amori, amicizie e quant’altro); altre
volte risultano dolorosi e sconfortanti, poiché si constata la perdita totale
di ciò che ancora si aveva al momento della partenza (in quest'ultima categoria
rientrano le poesie nell’elenco sottostante di Brigante Colonna, Chiaves e
Corazzini). In casi più rari, si parla di un “ritorno alla vita”, e
protagonisti, ovviamente, sono gli scomparsi, i quali vivono una sorta di
resurrezione (emblematica, a tal proposito, è la poesia di Dalmatico), che in
sostanza è un premio per la loro ottima condotta nella vita precedente, o per
le circostanze assai sfortunate che li videro soccombere ingiustamente e
prematuramente. In altri casi ancora, i ritorni sono solamente paventati (si
leggano le poesie di D’Annunzio, Donati Pétteni e Onofri), e fungono da
auspicio, per tirare su il morale di chi avverte una forte nostalgia ed un
tangibile rimpianto per ciò che ha lasciato partendo. C’è poi da aggiungere
che, in diversi casi, i ritorni avvengono durante la sera: fase declinante
della giornata e, simbolicamente, della vita.
Poesie sull’argomento
Mario Adobati:
"Il ritorno nella sera" in "I cipressi e le sorgenti"
(1919).
Vittoria Aganoor:
"Ritorno" in "Leggenda eterna" (1900).
Sandro Baganzani:
"Ritorni" in "Senzanome" (1924).
Gustavo
Brigante-Colonna: "Dal tedio che mi opprime" in "Gli ulivi e le
ginestre" (1912).
Enrico Cavacchioli:
"Il ritorno" in "L'Incubo Velato" (1906).
Carlo Chiaves:
"Pellegrinaggio invernale" in "Sogno e ironia" (1910).
Sergio Corazzini:
"Il ritorno" in «Marforio», novembre 1904.
Italo Dalmatico:
"Risorgeranno da le tombe i morti?" in "Juvenilia" (1903).
Gabriele D'Annunzio:
"Consolazione" in "Poema paradisiaco" (1893).
Giuliano Donati
Pétteni: "Ritorno" in "Intimità" (1926).
Aldo Fumagalli:
"Il ritorno" in "Arcate" (1913).
Cosimo Giorgieri
Contri: "In un paesetto obliato" in "Il convegno dei
cipressi" (1894).
Virgilio La Scola:
"Ritorno dai campi" in "La placida fonte" (1907).
Tito Marrone:
"La clessidra" in «La nuova rivista», gennaio 1907.
Ettore Moschino:
"Risveglio" in "I Lauri" (1908).
Arturo Onofri:
"Vuoi, dunque, ch'io ritorni? Oh sì, ritornerò" in "Canti delle
osai" (1909).
Angiolo Orvieto:
"Ritorno" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).
Giovanni Pascoli:
"Notte d'inverno" in "Canti di Castelvecchio" (1903).
Diego Valeri: "Il figliol prodigo" in "Ariele" (1924).
Testi
CONSOLAZIONE
di Gabriele
D'Annunzio (1863-1938)
Non pianger più.
Torna il diletto figlio
a la tua casa. È
stanco di mentire.
Vieni, usciamo. Tempo
è di rifiorire.
Troppo sei bianca: il
volto è quasi un giglio.
Vieni; usciamo. Il
giardino abbandonato
serba ancóra per noi
qualche sentiero.
Ti dirò come sia
dolce il mistero
che vela certe cose
del passato.
Ancóra qualche rosa è
ne' rosai,
ancóra qualche timida
erba odora.
Ne l'abbandono il
caro luogo ancóra
sorriderà, se tu
sorriderai.
Ti dirò come sia
dolce il sorriso
di certe cose che
l'oblìo afflisse.
Che proveresti tu se
ti fiorisse
la terra sotto i
piedi, all'improvviso?
Tanto accadrà, ben
che non sia d'aprile.
Usciamo. Non coprirti
il capo. È un lento
sol di settembre, e
ancor non vedo argento
su 'l tuo capo, e la
riga è ancor sottile.
Perché ti neghi con
lo sguardo stanco?
La madre fa quel che
il buon figlio vuole.
Bisogna che tu prenda
un po' di sole,
un po' di sole su
quel viso bianco.
Bisogna che tu sia
forte; bisogna
che tu non pensi a le
cattive cose...
Se noi andiamo verso
quelle orse,
io parlo piano,
l'anima tua sogna.
Sogna, sogna, mia
cara anima! Tutto,
tutto sarà come al
tempo lontano.
Io metterò ne la tua
pura mano
tutto il mio cuore.
Nulla è ancor distrutto.
Sogna, sogna! Io
vivrò de la tua vita.
In una vita semplice
e profonda
io rivivrò. La lieve
ostia che monda
io la riceverò da le
tue dita.
Sogna, ché il tempo
di sognare è giunto.
lo parlo. Di':
l'anima tua m'intende?
Vedi? Ne l'aria
fluttua e s'accende
quasi il fantasma
d'un april defunto.
Settembre (di':
l'anima tua m'ascolta?)
ha ne l'odore suo,
nel suo pallore,
non so, quasi l'odore
ed il pallore
di qualche primavera
dissepolta.
Sogniamo, poi ch'è
tempo di sognare.
Sorridiamo. E la
nostra primavera,
questa. A casa, più
tardi, verso sera,
vo' riaprire il
cembalo e sonare.
Quanto ha dormito, il
cembalo! Mancava,
allora, qualche
corda; qualche corda
ancóra manca. E
l'ebano ricorda
le lunghe dita ceree
de l'ava.
Mentre che fra le
tende scolorate
vagherà qualche odore
delicato,
(m'odi tu?) qualche
cosa come un fiato
debole di viole un
po' passate,
sonerò qualche
vecchia aria di danza,
assai vecchia, assai
nobile, anche un poco
triste; e il suon
sarà velato, fioco,
quasi venisse da
quell'altra stanza.
Poi per te sola io
vo' comporre un canto
che ti raccolga come
in una cuna,
sopra un antico
metro, ma con una
grazia che sia vaga e
negletta alquanto.
Tutto sarà come al
tempo lontano.
L'anima sarà semplice
com'era;
e a te verrà, quando
vorrai, leggera
come vien l'acqua al cavo de la mano.
(da "Poema paradisiaco", Mondadori, Milano 1995, pp. 72-74)
IL FIGLIOL PRODIGO
di Diego Valeri
(1887-1976)
Cade il giorno, ed io
cammino
col mio povero
destino
su la strada del
ritorno.
Cuore amaro del
figlio errante
che ritorna alla sua
terra,
che ritorna alla sua
vita,
da tanta inutile
guerra,
da tanta speranza
finita!
Cuore greve di tanto
dolore
non mai detto, di
lacrime tante
non mai piante!
Ecco, e mi vengono a
incontrare
nel barlume
crepuscolare
i grandi platani che
portano ancora
- come allora -
tra gli alti rami
colore di tortora
esili trame d'oro e
di porpora.
(Dolce l'autunno
della terra natia;
ma tanta dolcezza, o
amaro mio cuore,
non t'è, non t'è più
poesia!)
Cammino e cammino
nel caligo cenerino.
Ombre nere di gelsi
spogliati
e tremor grigio di
salici,
lungo pallidi fossi
allucinati
dallo spento opaco
biancore
del cielo che muore.
(A ogni passo rivedo
e ritrovo
un po' dell'antico me
stesso.
Ogni cosa rivedo e
ritrovo
come allora così
adesso;
ma non più nell'anima
mia
l'antica poesia!)
Monto la rampa del
ponte,
la strada vasta che
sale,
luminosa su l'oscuro
orizzonte,
a sboccare
nell'immenso vuoto
del cielo.
E d'in alto mi volgo
a guardare,
a cercare dove dove
sia
la mia antica poesia.
Oh l'ardente infinita
agonia
del tramonto - rame
oro sangue -
sopra gli alti argini
nudi,
incantati,
sterminati,
per tant'anni
camminati
dal mio cuore in
nostalgia!
Nell'acqua del fiume
che splende che
langue
d'un intimo ultimo
lume
- rame oro sangue -,
rivedo i poveri occhi
obliati
della morta
giovinezza mia...
Ma no, neppur questo,
neppur questo m'è più
poesia!
Discendo, proseguo il
cammino,
senza più sguardo
ormai né pensiero,
stracco affannato
pellegrino che va
sol per andare, e la
sua meta non sa.
Adesso la notte m'è
intorno,
profondo respiro di
mistero.
Io più non vedo, io
più non ricordo
dove, a che cosa,
ritorno.
Ma d'improvviso,
dall'oscurità,
una dolce campana
mi viene incontro, mi
chiama
con un lungo triste
latrato
di vecchio cane che
non m'ha dimenticato,
con un triste lungo
saluto
d'antico amore che
m'ha riconosciuto.
Ed ecco, m'appare,
nell'incerto bagliore
di quattro fanali
rossastri,
il muro bianco del
cimitero.
Dietro il muro, nel
tenebrore,
riconosco la chiesa e
i cipressi
circonfusi d'un
palpito d'astri...
La mia meta! la mia
terra!
la terra che risponde
al mio passo esitante
coi battiti lenti e
sommessi
del cuore di mia
madre morta;
l'aria che serba e mi
porta
la carezza delle mani
sante
di mia madre
sepolta...
O città che raggi
laggiù
nella nebbia il tuo
amore lucente,
che vuoi da me?
Certamente
le tue vie le tue
case la tua gente
non mi conoscono più.
Non per te son io
ritornato,
città di passato!
Ma qui riconosco la
mia vita,
qui ritrovo la mia
poesia;
qui qui dovevo
tornare
da tanta inutile
guerra,
da tanta speranza
fallita:
a questo recinto di
terra
dove sento sboccare
la lunga mia
nostalgia,
dov'è tutto quanto
posso salvare,
ancora, dell'anima
mia.
(da
"Ariele", Mondadori, Milano-Roma 1924, pp. 129-134)
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Johann Georg Meyer, "Returning Home" (da questa pagina web) |