sabato 26 novembre 2016

10 poesie di 10 poeti e soldati italiani della Prima Guerra Mondiale

Esattamente cento anni fa, l'Italia era coinvolta nella Prima Guerra Mondiale insieme ai più importanti stati europei. Il conflitto era scoppiato nel 1914, ma la nostra nazione vi partecipò a partire dall'anno successivo. La cosiddetta "Grande Guerra" fu sicuramente uno degli eventi più sanguinosi e devastanti di tutti i tempi; a morire furono soprattutto i soldati, che, troppo spesso e scriteriatamente, furono mandati all'assalto dalle trincee divenendo facile bersaglio per le mitragliatrici nemiche. Personalmente, fui molto impressionato dai fatti che si svolsero durante questa maledetta guerra; questo sentimento scaturì sia dalla lettura di alcuni romanzi famosi di Erich Maria Remarque e di Emilio Lussu, sia dalla visione di film come Orizzonti di gloria e Uomini contro, che mettevano in luce l'incredibile cinismo dei generali di tutti gli eserciti, i quali usavano gli esseri umani come pedine di un gioco, condannandoli a morte sicura. Anche nel campo della poesia esistono veri e propri capolavori che hanno, come tema principale, questa guerra ormai molto lontana. Ci sono alcune opere di Ungaretti, di Corrado Alvaro, di Piero Jahier e di altri scrittori meno noti, che contengono numerosi versi dedicati ai fatti bellici. Ho qui voluto riunire dieci poesie che hanno come tema portante la Grande Guerra; le ho scelte tra quelle che ponessero più in risalto la sofferenza umana e le tragedie, conseguenti alle perdite di vite umane, causate da questo spietato combattimento; alcune le ho selezionate perché evidenziano in modo a volte grottesco, la disumanità del conflitto. Naturalmente, tutte e dieci i componimenti sono stati scritti da persone che hanno vissuto la guerra dal fronte e che, più di una volta, hanno visto la morte in faccia. Inutile aggiungere che ai tempi d'oggi, per fortuna, una simile guerra non è praticabile; ma sappiamo di vivere una realtà nuova, dove la guerra è divenuta subdola, vigliacca, e colpisce quasi sempre i civili nei momenti in cui sono più indifesi.




IL CONTADINO SOLDATO
di Corrado Alvaro (1895-1956)

Andate a gridare a un soldato
baciandolo: Tu sei un eroe!
Ei non conosce un’opera perfetta
che non sia ’l solco del bove.
Ei non conosce un valore
che non sia quello di vegliar la notte
presso un suo tino d’uva che borboglia.

Andate a gridare a un soldato:
Hai fatto il tuo dovere!
Non sa di meglio che stare a vedere
se i mignoli d’ulivo sono molti
e se c’è l’olio per tutte le sere.
La sua ragione d’essere soldato
non è nell’ambizione.
N’ha quanto basta a volere un covone
che salga fino a’ cieli.

La sua ragione è nel meraviglioso.
Tutte le donne godono il riposo
dell’uscio logorato.
Egli, in vece, sa mettersi in agguato,
sa far convito in un campo falciato
dove i nemici son come le messi.
I fanciulli sorridono sommessi
e si stringon per prendere coraggio.
E le donne ne sentono tremore
per quell’immenso cuore
che, di certo, è il più forte del villaggio.

Il soldato è soldato
perché treman le donne solamente,
perché i fanciulli vogliono esser grandi
e mangiano per crescere più in fretta,
per poter raccontare
d’aver veduto la Morte
e d’averla invitata a desinare
come se fosse una promessa sposa,
d’averle fatto la corte,
d’averne avuta una rosa
che fa il petto tremando sanguinare.

(Da "Poesie grigioverdi", Lux, Roma 1917)




PASQUA AL FRONTE
di Angelo Barile (1888-1967)

                                                                  Al capitano Enrico Fabi
Queste foglie d'ulivo benedette,
amico, accetta, è il mio pasquale dono.
Senti, sì dolci al nostro cuore non sono
le violette.

È il caro ulivo della mia riviera!
Nato a specchio dell'onda più turchina
ha il verde-argento della mia collina
sul mar leggera.

Ben so che la tua anima pugnace
al duro gioco della guerra è avvezza,
ma non ti spiaccia questa carezza
mite, di pace,

che ti riporta, amico, le lontane
pasque fulgenti della puerizia
e nei sabati santi, la letizia
delle campane.

Ne arriva un'eco per intime strade,
che vince il rombo del cannone, e tu
vedi il paese, senti che laggiù
prega tua madre,

senti la tua fanciulla che ti chiama...
Se oggi almeno - sarebbe così bello -
giungesse per la mensa dell'agnello
quegli che l'ama!

I suoi occhi hanno lacrime e baleni.
Ti aspetta. Certo a tavola ti ha messo
il posto allato a sé, guardando spesso
se tu non vieni.

Verrà verrà, non piangere, vedrai...
Ti recherà l'illesa giovinezza
cinta di luce e allor sì piangerai
ma di dolcezza.

Pasqua di pace, nostra Pasqua santa,
ch'io tornerò agli ulivi del mio lido,
tu a quello che nel cuore già ti canta
trepido nido.

Kambresco (Isonzo), Pasqua 1916

(Da "Poesie", Scheiwiller, Milano 1986)




VITA
di Massimo Bontempelli (1878-1960)

Uccidere, Vita

Largo alla Vita che passa
  vitamitragliatrice
  e falcia le file
  degli uomini vivi che cadon giù
  floscio moscio sacco bucato
  perché la vita
  era sull'angolo in agguato.

E sbalzano a grappoli rossi
  dove schianta la vitascheggia
  i pezzi di carne le braccia il cervello
  pasta lunatica di strazio d'uomini
  stroncati dalla vita che si precipitava fischiando.

Ma con la baionetta
  la vita sei tu - là -
  la lama è giovane guizza di voglia
  tu la stringi e lei si slancia
  ti trascina dietro - stop
  che è entrata tutta
  e il sangue sporco butta
  e ti spruzza te.

  Oh il ferro non esce più
  ma un calcio nella pancia al tuo uomo
  e tira - tira lui giù
                   viva
  viva la Vita
  la guerravita che passa sugli uomini.

Asciugati il sangue sugli occhi - sputa -
  e guarda se il sole è già alto
  Vita.

(Da "Il Purosangue", Scheiwiller, Milano 1987)




L'UCCISO
di Auro D'Alba (pseud. di Umberto Bottone, 1888-1965)

Mi son guardato le mani
che hanno ucciso.
La bocca gelata dei morti
mi ha sorriso
come una piaga di fresco detersa.

Mani piccole e crudeli
di baracca subalpina
calde di saccapelo la mattina
vogliose di balocchi mortali.
Non sapevano fare il male
e le hanno armate
contro un uomo innocente,
colui che era forse venuto
per non ripartire.
Colui che veniva a sedersi sul selciato
in attesa
che s'aprisse la porta del mattino
e se ne andava
senza osare un richiamo,
per poi tornare ogni notte
a rannicchiarsi nel giardino
come un cane malato.

Cuore di tutti - giubba di soldato
e un po' di sole nascosto
nelle tasche profonde.
Un bastimento perduto nel ricordo
un saluto nell'anima cenciosa
una finestra di cielo blù,
e giù, in fondo al cuore,
qualche parola polverosa
che pareva dimenticata.

Forse l'ha ucciso quella notte
questa piccola mano armata.

(Da "Poesie", Ceschina, Milano 1961)




PRIGIONIA
di Manlio Dazzi (1891-1968)
                                                              Per Andrea Pieri
                                                              soldato.
Esuli, vinti, prigionieri, offesi,
non più cose né anime, e lo stento
ad uno ad uno li distrugge, come
si schiaccia il capo ai passeri novelli.
Quando sul tetto della casa è un passo
un frugar sotto le tegole smosse,
e sui capini teneri dei presi
ad uno ad uno entro la mano, il grande
fosco pollice del raccoglitore.
   Eri in quell'ombra, tu, povero morto,
povero morto dalle ascelle vuote
come le ascelle d'un passero implume,
quando alla sposa lontana chiedevi
non pane, pane, il disperato pane,
ma il dolciato chinino, che stordisce
e fa sognare morendo.

(Da "I Caduti", La Prora, Milano 1935)




MARE
di Piero Jahier (1884-1966)

Hanno preso il suo figliolo ànno preso
quello che l’era appena rilevato
e per andà non può essere andato
che nel posto più brutto indifeso.

E per restà non può esser restato
che dove tronca la vita le granate
e quando ànno finito di troncare
scendono le valanghe a sotterrare.

E se non scrive è che vuol ritornare
e queste notti è camminato camminato
per chiedere una muta alla sua mare.
La muta era ben pronta al davanzale
e alla finestra mare l’à aspettato.
L’à aspettato infino alla mattina
quando squilla la tromba repentina
e alla sua casa non può più rivare.

Hanno preso il suo figliolo alla mare

*

Hanno preso il suo tosàt ànno preso
quel ch’era così tanto delicato
e si ritrova lontano trasportato
nel bastimento sopra l’acqua acceso.

Di giorno il bastimento gli cammina
ma nella notte è sempre arrestato
e tutte l’acque bussan per entrare
dove il suo tosàtel sta addormentato.

Hanno preso il suo tosàt alla mare

*

Hanno preso il suo omo ànno preso
Quello che la doveva accompagnare
che avea giurato davanti all’altare
di non lasciarla sola a questo peso.

Lui coi suoi bòcia è contento di andare
non si è quasi voltato a salutare

Ma ànno preso il suo òmo alla mare.

*

E la mattina si è levata a solo
e à messo tutte le sue filigrane;
à bevarato le sue armente chiare;
à steso tutti i suoi panni a asciugare;

à agganciato il più grande suo paiolo;
à apparecchiato il più bel fuoco acceso
e dopo si è seduta al focolare.

Anche se tornano non si può più alzare.
Hanno preso ànno preso anche la mare.

(Da "Poesie in versi e in prosa", Einaudi, Torino 1981)




PERCHÉ NON T'UCCISI
di Fausto Maria Martini (1886-1930)

Non per viltà — tu non l'avrai creduto,
tu, che la sera stessa, sotto un folle
riso di stelle, fosti, tra le zolle,
zolla di grumi, fatto inerte e muto —

non per viltà mancai la giusta impresa
di trapassarti il cuore: fu perché
sullo sfondo inumano, vidi te
così biondo, te, dalla faccia accesa

d'un rossor di fanciullo, avido, anelo,
con l'empito del correre nel petto,
umana assurdità sul parapetto
della trincea, con due goccie di cielo

per occhi (non più scorderò quegli occhi
che predaron la mia trafitta fronte!)...
Aureolato dalla neve a fiocchi
te vidi, e credei scorgere le impronte

del viso profilate sullo smalto
lontano e pur così miracolosamente
vicino, che di su lo spalto
terrigno si trasfigurava in rosa...

Non per viltà, né fu perch'io pensassi
in un borgo nemico una sorella
tua dolce e grave, vigilante i passi
del fratello, se torni, una sorella

insonne qual'io m'ebbi e che giungeva
ogni alba, con un suo bianco nepente,
fino sulla mia soglia, e suadeva
a un incontro materno il moriente...

Non t'uccisi perché nella stess'ora
noi ci eravamo sporti sopra il fondo
gorgo del nulla, o sconosciuto e biondo
nemico, insieme, e, quello che scolora

nel ricordo, tuo viso, somigliava
già questo mio, più macilento e vecchio,
(o l'aria di nessuno era uno specchio,
non anche frantumato dalla lava

delle granate?) insieme sulla morte
noi, vivi, ci sporgemmo, e tu fanciullo
m'apparisti qual io m'ero: un trastullo
inconscio nelle mani della sorte

eguale, trascinato dal fluire
d'un'istessa onda fino nell'estrema
avventura... Non fu dunque per tema,
s'io non t'uccisi: fu per non morire!

Per non morire in te: m'eri gemello,
o apparso sulla gemina trincea,
e fustigato, in vetta alla nevèa
serenità, così come un fuscello

dal vento, dal mio male più tenace...
Or quale forza era fra noi? L'eguale
necessità, che via lungo un viale
d'asfodeli adduceva i senza pace;

due: l'un simile all'altro, onde non volle
questa mia mano prenderti alla gola
e soffocarvi l'ultima parola,
la stessa che fiorì sulla mia folle

bocca: Amore... Non volle, o non poteva
(non era nel suo ritmo!) la mia mano,
ammansita da un verso, o figlio d'Eva,
essere, allora, il tuo destino umano!

Non io conobbi, o mio nemico biondo,
per qual camminamento fossi sceso
alla trincea dalla tua tana: appreso
m'ebbi la strada dalla tana al mondo!

Oh! somigliava alla via lattea: ed era
tutta tramata d'un'immateriale
luce, fatta per battersi con l'ale,
scavata in cuore ad una primavera

di mandorli: era un nastro, sulla terra,
di seta: era un ritaglio d'una gonna
azzurrina, lanciato da la donna
amante a quella tua casa di guerra...

Anche pensai d'avere conosciuto
una tua provinciale nostalgia
negli occhi, e una, vivace tuttavia,
anima innamorata nel tuo muto

cuore... O tu, ch'io conobbi sol nei chiari
grandi occhi e i forti tuoi zigomi rossi,
io mi credei, nemico, che tu fossi
un mendicante di conviti rari,

mendicante d'azzurro, impenitente
peccatore, un ramingo sognatore,
un piccolo cervello, un grande cuore:
fausto maria martini d'altra gente!...

E non t'uccisi, o tu che mi ghermisti
la fronte, non t'uccisi sol perché
nemico ignoto dai grandi occhi tristi,
ebbi paura di morire in te!

(Dalla rivista «Nuova Antologia», novembre 1917)




VIATICO
di Clemente Rebora (1885-1957)

O ferito laggiù nel valloncello,
tanto invocasti
se tre compagni interi
cadder per te che quasi più non eri.
Tra melma e sangue
tronco senza gambe
e il tuo lamento ancora,
pietà di noi rimasti
a rantolarci e non ha fine l’ora,
affretta l’agonia,
tu puoi finire,
e nel conforto ti sia
nella demenza che non sa impazzire,
mentre sosta il momento
il sonno sul cervello,
lasciaci in silenzio
grazie, fratello.

 (Da "Le poesie", Garzanti, Milano 1988)




VEGLIA
di Giuseppe Ungaretti (1888-1970)

Una intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore

Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita

Cima 4 il 23 Dicembre 1915

(Da "Il porto sepolto", Marsilio, Venezia 1990)




NEL SEPOLCRO DELL'OMBRA
di Vann'Antò (pseud. di Giovanni Antonio Di Giacomo, 1891-1960)

  Calma pace silenzio
ragnatela infinita
nel sepolcro dell’ombra

  Immoto
grave enorme
giaccio dormo
nel vuoto

  Triste un po’
sorrido
come un dì
schiudo le mie palpebre

  Nella tomba
via
guizza il sole
come una lucertola

(Da "Il fante alto da terra", Principato, Messina-Milano 1932)



Il poeta Auro D'Alba al fronte durante la Prima Guerra Mondiale

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