mercoledì 30 luglio 2014

Poeti dimenticati: Guido Ruberti

Nacque a Roma nel 1885 e ivi morì nel 1955. Sono poche le notizie che riguardano la sua vita: è noto che si laureo in legge, che in gioventù scrisse e pubblicò versi frequentando il cenacolo di poeti romani molto vicini a Sergio Corazzini; infine si dedicò all'attività di critico teatrale. Le due raccolte poetiche pubblicate da Ruberti evidenziano una simpatia nei confronti della poesia parnassiana e un gusto che si rifà ai classici latini. Non sono assenti elementi che lo accomunano alla lirica crepuscolare, in particolare a quella dell'amico Corazzini. 



Opere poetiche

"Le fiaccole", Roux & Viarengo, Roma-Torino 1905.
"Le Evocazioni", Casa Editrice Centrale, Roma 1909.





Presenze in antologie

"I crepuscolari", a cura di Nino Tripodi, Il Borghese, Milano 1966 (pp. 397-405).
"I crepuscolari", a cura di Francesco Grisi, Newton Compton, Roma 1990 (pp. 337-344).
"Neoidealismo e rinascenza latina tra Ottocento e Novecento", a cura di Angela Ida Villa, LED, Milano 1999 (pp. 584-609).



Testi

ALLA SOGLIA

Oggi passai, Marcella,
innanzi all'antica tua casa
e le memorie come un flutto
di un subito han l'anima invasa.
Ahi quanto il tempo ha distrutto
dal primo tuo amore,
dalla mia ribellione!...
Fissato ho il vecchio balcone
senza rancore.
Dove se' or tu, bambina?
Mi sembra ch'io debba vederti
spuntar di sotto la tendina
tra i vasi dei rossi gerani,
agitar le piccole mani
o il leggiadro grembiale
ne' brevi segni occulti...

Di fronte, lassù pel viale,
dai filari dei virgulti
a quando a quando una morta
gialla foglia si stacca.
A grandi mucchi le foglie
giaccion su la terra smorta:
autunno! autunno! le tue spoglie
dorate, il tuo virile casco
già cedon al punger della brezza!

La giornata è grigia; ha una tristezza
dolce e pensosa, una lontana
chiarità indefinita:
sei tu dunque partita?
sei tu dunque perduta?
E nulla del passato ti resta,
come a me, nel vecchio cuore?
E la scorsa vita una molesta
pagina di un libro obliato
ti sembra? Pure tutto è stato:
l'amor defunto, l'oblianza;
come la sottile fragranza
di un peccato che non ha ritorno,
l'Autunno dolce, il vecchio giorno,
la soglia appena intravveduta,
la piccola veranda muta
e chiusa sotto il ciel piovorno.


(Da "Le Evocazioni")

sabato 19 luglio 2014

Gli animali in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo (III)

RAGNO
di Sandro Baganzani (1889-1950)

Quel ragno nel fondo del secchio
da giorni da giorni da giorni
non vuole morire.

Da giorni da giorni da giorni
mi fissa dal fondo del secchio,
non vuole morire.

Tu dici: «Perché vuoi lasciarlo morire
quel ragno nel fondo del secchio?»

Allora quel ragno villoso
per te, senza un brivido,
adagio lo aiuto a salire
dal fondo del secchio.

Ma tu, pietosa del ragno,
non vedi chi resta nel fondo del secchio.

(Da "Poesie scelte", Edizioni di «Vita veronese», Verona 1951)





CARO PICCOLO ANATROCCOLO
di Claudio Damiani (1957)

Caro piccolo anatroccolo
adesso è notte, tu ti sei addormentato,
ti sei messo non so se sull'acqua o a terra sulla riva
forse tra le canne nascosto, tra le foglie secche.
Hai chiuso gli occhi, piccolo tesoro,
hai visto la sera venire,
prima farsi rosea la luce poi diventare buio,
un refolo di vento s'è alzato, l'hai sentito?
ed ecco le cose erano diventate nere,
hai sentito tiepide le pietre della riva,
hai avuto paura di qualcosa, non so di cosa,
ma poi hai giocato con una foglia,
col becco volevi affondarla nell'acqua.
Le mani del mio amore erano lontane dalle tue piume,
non ha potuto vederti, non ha potuto baciarti,
ma un dolce sonno è sceso nei tuoi occhi
e ti sei addormentato,
non so se sull'acqua, o a terra sulla riva.

(Da "La miniera", Fazi, Roma 1997)





IL CAVALLO BIANCO
di Filippo De Pisis (1896-1956)

Nella sericcia mite del giorno di festa
curvo nel sacco afflosciato per terra
un cavallo bianco
mangia il suo fieno
dopo le lunghe corse
in pace, lento.
Il collo curvo descrive un arco patetico.
Nella penombra, più indietro
sdraiato nel landeau, il vetturale
sonnecchia, scuro sulla tela bianca.
Su tetti taciturni,
la luna tonda, naviga
in una sua blanda felicità.
Mi fermo a guardare di lontano
ed una tenerezza antica
mi lega a questa cara bestia stanca.

(Da "Poesie", Vallecchi, Firenze 1942)





IL CAPRIMULGO
di Alfonso Gatto (1909-1976)

Tornerà sempre l'ironia serena
del sortilegio sulle tue corolle,
fiore disfatto.
E tu che voli e piangi
stridendo coi tuoi grandi occhi oscuri,
o caprimulgo dalle piume molli,
il buio sempre ingoierà la notte
delle farfalle nere, le lucenti
blatte in cui l'uomo misero rattrae
le mani e gli occhi a rispettarle,
umane della pietà per sé.
Per la scala degli inferi discende
il consenso perenne, l'ordinata
congrega delle vittime plaudenti.

O misura dell'uomo in sé dipinto
costretto oltre la morte, mummia salva
a schermo delle mani,
a non aver più limiti, distratta
è la forza latente, il bruco insonne
della materia che ci traccia e insegue.

Un fenomeno oscuro il divenire
l'enfasi sorda che alle sue parole
non crede più, ma giura. Ancora scende
questa scala degli inferi e l'informe
che chiede un senso smania di figure.

(Da "Osteria flegrea", Mondadori, Milano 1962)





DELFINI
di Angiolo Orvieto (1869-1967)

La nave sull'onde sobbalza.
La torma dei cani marini,
dei lievi delfini
la incalza.
La seguon con l'arcobaleno.
Tempesta di cielo sereno!
Con l'arcobaleno raggiante
sull'onde solenni rinfrante
in polvere di diamante.

(Da "Verso l'Oriente", Bemporad, Firenze 1923)





L'USIGNOLO NEL CLAUSTRO
di Renzo Pezzani (1898-1951)

L'usignolo nel claustro
pieno il cuore ha di racconti
e li specchia in cupe fonti
chiuse in coppe d'alabastro.

Col suo canto ricco d'ala
batte ai vetri delle celle
ed inebria le stelle
come una dischiusa fiala.

E tu ascolti, anima mia,
ingemmata del tuo credo,
ciò che in te versa l'aedo
d'un'ignota liturgia.

(Da "L'usignolo nel claustro", Alpes, Milano 1930)





SCENDEVANO UN TEMPO
di Lucio Piccolo (1901-1969)

Scendevano un tempo dai sentieri
delle montagne con lenta andatura
le grandi mule, le mule bianche
fra siepi di cisto, fra siepi di prugno
coi colmi panieri di felci incurvate
e l'aria di giugno portava alle labbra
mosti spumanti di frutta ignorate
- da cima a pianura su l'aia
che avanza dal colle snodava
nastro d'invisibile danza -
Ma poi si dispersero i contorni
delle fresche figure nel muovere tardo
dell'eguale rosario dei giorni,
e ancora: fu buio, che muta
la scena e sui marosi attendiamo
sorgere le statue dorate
le torri incantate...
Ma oggi un respiro che varia
le tempre della luce m'ha detto
che da la china dei monti le bianche
mule sempre scendono, sempre l'aria
di giugno che schiuma i canneti
scuote su la sabbia dei greti
tremula piuma di fonti.

(Da "La seta e altre poesie inedite e sparse", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1984)





PER UN CANE
di Antonia Pozzi (1912-1938)

Sei stato con noi per undici anni. 
Una sera siamo tornati: 
eri disteso davanti al cancello, 
il muso nella polvere della strada, 
le zampe già fredde, il dorso 
tepido ancora. 
Ora sei tutto 
nella buca che ti abbiamo scavata. 
Ma gli undici anni 
della tua umile vita, 
il gemere 
per ognuno che partiva, 
il soffrire di gioia 
per ognuno che ritornava 
– e verso sera 
se qualcuno 
per una sua tristezza 
piangeva 
tu gli leccavi le mani: 
lo guardavi 
e gli leccavi le mani – 
oh, gli undici anni 
del tuo muto amore 
tutto qui 
sotto questa terra 
sotto questa pioggia 
crudele? 
Esitavi 
sulla ghiaia timida: 
sollevavi 
una zampa – tremando. 
Ora nessuno ti difende 
dal freddo. 
Non ti si può più chiamare. 
Non ti si può più dare 
niente. 
Solo le foglie fradice morte 
cadono su questo pezzo 
di prato. 
E pensare che altro rimanga 
di te 
è vietato: 
di questo il nostro assurdo 
pianto si accresce.

(Da "Parole", Garzanti, Milano 1998) 





PER UNA TARTARUGA
di Francesco Tentori (1924-1995)

Tartarughina, tu
dallo sguardo sagace di chi ha visto
scorrere epoche e vite
che ricordi del tempo che mia madre
gettava ombra, non ancora un'ombra
e con sguardo sagace districava
nel fitto dell'esistere la trama
giusta per sé e per gli altri
seguendo dall'origine alla fine
il percorso del filo la scia
che ciascuno si lascia dietro
                              e aveva
il dono giusto per ciascuno e a me
dette il suo muso aguzzo ché imparassi
da te forse (ma non l'ho fatto poi)
la pazienza e il coraggio
di rifiutarmi quando è in giuoco il più?

(Da "Migrazioni", Passigli, Firenze 1997)





IL MERLO CHE TUTTO IL GIORNO...
di Diego Valeri (1887-1976)

Il merlo che tutto il giorno ha saltato
tra l'erba alta e a pie' dell'irta siepe,
ora che scende la sera
è volato sul ramo alto del pero.
Di lassù guarda il mondo che si oscura,
e fischietta sommesso
come parlasse a se stesso.
Certo è salito sull'albero
per prendersi l'ultimo sole.
Ma sole non c'è già più, né giorno.
Il merlo si rituffa nell'erba:
piccola ombra nera nell'ombra verde.

(Da "Calle del Vento", Mondadori, Milano 1975)

lunedì 14 luglio 2014

L'erotismo nella poesia italiana decadente e simbolista

L'erotismo è un elemento assiduo nei versi dei poeti simbolisti e vuole esprimere la vita nella sua massima fisicità. Sempre e soltanto attraverso il corpo femminile si estrinseca questa pulsione che suscita sentimenti di estrema passionalità, i quali a loro volta, in alcuni casi, assumono aspetti mistico-esoterici. D'altra parte, la sensualità suscitata dalla visione di una donna affascinante è qualcosa che, per molti poeti, possiede componenti misteriose; da ciò è facile per alcuni di essi tramutare le figure osservate in vere e proprie divinità che a volte assumono aspetti pagani, a volte invece si rifanno ai simboli classici della cristianità (primo fra tutti quello della Madonna).



Poesie sull'argomento 

Ugo Betti: "Serenata dell'orco" in "Il Re pensieroso" (1922).
Giovanni Camerana: "Io sarei là, in ginocchio, a contemplarla" in "Poesie" (1968).
Ricciotto Canudo: "Il Fiore piacente" e "L'Iniziazione" in "Poesia" n. 9/12, 1906.
Enrico Cavacchioli: "Canto di una sera di languore" da "Le ranocchie turchine" (1909).
Giovanni Alfredo Cesareo: "Ebe" in "Poesie" (1912).
Arturo Colautti: "L'Amante" in "Canti virili" (1896).
Girolamo Comi: "Denuda le libidini tue molli" in "Lampadario" (1912).
Edmondo Corradi: "L'udii parlare in sogno, e la parola" in "Nova postuma" (1904).
Cosimo Giorgieri Contri: "Ridesta" in "Primavere del desiderio e dell'oblio" (1903).
Corrado Govoni: "Caffè-concerto" in "Poesie elettriche" (1911).
Luigi Gualdo: "Storia di mare" in "Le Nostalgie" (1883).
Virgilio La Scola: "Seduzione" in "La placida fonte" (1907).
Gian Pietro Lucini: "Li Amanti" in "Il Libro delle Figurazioni Ideali" (1894).
Gian Pietro Lucini: "La collana" in "Poesia", marzo 1908.
Gian Pietro Lucini: "Di «Un Pomo»" in "Le antitesi e le perversità" (1971).
Gesualdo Manzella Frontini: "Monaca" in "Le rosse vergini" (1905).
Tito Marrone: "Serenata nuziale" in "Cesellature" (1899).
Marino Moretti: "Diva" in "Poesie 1905-1914" (1919).
Arturo Onofri: "Chi è questa improvvisa dea che appare?" in "Terrestrità del sole" (1927).
Nino Oxilia: "Ecco, del seno tra le eburnee sponde" e "S'è addormentata nuda sul divano" in "Canti brevi" (1909).
Enrico Panzacchi: "Est dea..." in "Poesie" (1908).
Giuseppe Piazza: "Euriale" in "Le eumenidi" (1903).
Romolo Quaglino: "Le etere strette in vesti di broccato" in "I Modi. Anime e simboli" (1896).
Romolo Quaglino: "Antica e nova" in "Cibele Madre" (1903).
Romolo Quaglino: "Il segreto" in "Poesia" n. 12, 1906.
Emanuele Sella: "Trittico della voluttà d'amore" in "Monteluce" (1909).
Teofilo Valenti: "La donna del serpente" in "Le Visioni" (1906).
Giuseppe Villaroel: "Ninfa" in "La tavolozza e l'oboe" (1918).



Testi

DENUDA LE LIBIDINI TUE MOLLI
di Girolamo Comi

Denuda le libidini tue molli
innanzi ai miei desiri sofferenti,
pungi l'inerzia mia d'acri tormenti
ed infiltrami i brividi più folli.

Perirò dei piaceri di cui bolli
musicando il fulgor dei tuoi portenti
col lusso dei miei sensi onnipotenti
e con l'oblio dell'ideal che volli.

I nostri corpi saran la fanfara
degli spasimi acerbi e dei desiri
e della voluttà spumante e rara:

e sul mare nel quale ti rimiri
risplenderà la gioventù mia cara
ripetendo in eterno i miei sospiri.

(Da "Il Lampadario")





CHI È QUESTA IMPROVVISA DEA CHE APPARE?
di Arturo Onofri

Chi è questa improvvisa dea che appare?
Occhi diafani stellano di luna
sotto il manto ondeggiante delle chiome.
Da quella bocca, che sui denti abbonda
nelle labbra imbronciate, come un fiore,
la voce non la intende altri che il mare.
Perché venne fra noi come una donna?
Quel suo piccolo capo trasparisce
di mattinate, d’angioli e di giochi,
e nel girarsi addita in sua dolcezza
che le pietre traboccano di foglie,
le flore mettono ali, e mandre brute
s’appassionano d’ansie e di pensieri.
E noi, pregando che assuma una figura
di beltà, la parola in noi rinchiusa,
ne intravediamo, come un sogno, il volto
nel modello che in lei donna respira.

(Da "Terrestrità del sole")