mercoledì 20 luglio 2022

Sola

 

Sola in cima alla terrazza

Fissi il mare ed aspetti... Che cosa?

Poco fa il ponente era rosa

 

Rosa caldo affocato, e ora è lilla

E una stella vi brilla

Così luminosa!

 

La sera avvolge il giardino e la villa

E inzuppa l'erba di guazza.

Sola in cima alla terrazza

 

Tu rimani ed aspetti... Che cosa?

 

 



COMMENTO

Sola è il titolo di una poesia di Angiolo Silvio Novaro (Diano Marina 1866 – Oneglia 1938), che si trova alla pagina 51 del volume intitolato Il cuore nascosto, pubblicato dall’editore Treves, a Milano, nel 1920. In questi dieci versi, il poeta ligure si rivolge ad una donna – probabilmente la sua compagna -, chiedendole il motivo della sua misteriosa attesa di qualcosa o qualcuno. Essa si trova in cima alla terrazza di una villa in riva al mare; forse è estate, e, quasi sicuramente, l’ora è quella del tramonto: quando l’orizzonte muta colore, passando da un rosa caldo ad un delicato lilla, e, in lontananza, già è possibile vedere la luce intensa di una stella. Il tempo passa, e la sera, con la sua oscurità, ha ormai avvolto il luogo dove si trovano il poeta e la donna. Quest’ultima però, non si muove dalla terrazza, e continua a guardare lontano. Il poeta ripete la domanda, che però sembra essere ignorata dalla donna, chiusa in un mutismo ostinato.

domenica 17 luglio 2022

La poesia di Sandro Penna


 


Sandro Penna (Perugia 1906 – Roma 1976) rappresenta un punto fermo e insostituibile nella poesia italiana del Novecento; la sua presenza costante nelle migliori antologie del settore, lo stanno a dimostrare. Tra gli elementi che maggiormente caratterizzano i suoi versi, ci sono l'essenzialità, la disarmante sensualità e un impressionismo spicciolo, che coglie il segno in modo del tutto personale. Già subito dopo la morte, Sandro Penna fu considerato una sorta di personaggio leggendario, e le sue poesie divennero oggetto di culto, soprattutto in determinati ambienti elitari. In molti hanno provato a stabilire quali fossero i poeti a cui Penna si inspirò nel creare i suoi migliori versi, e si è parlato, un po' vagamente, di Pascoli, dei crepuscolari e di Palazzeschi; ma quasi tutti i critici concordano nel nome di Saba quale poeta più vicino allo scrittore umbro, in particolare, come scrisse Pier Vincenzo Mengaldo in Poeti italiani del Novecento, "il Saba più melico e gratuito delle «canzonette"¹. Ma, a parte le influenze letterarie, è importante affermare che Penna trasse la sua ispirazione più schietta dal vissuto, e quindi dalla sua diversità, percepita senza drammi interiori, anzi, valutata quale elemento di forza e di libertà. La sua è, insomma, una poesia "sincera". Altro elemento che sorprende, è l'estrema semplicità dei suoi versi; tanto più perché essi nacquero e si svilupparono nel periodo storico-letterario (gli anni '30 del XX secolo), in cui predominava l'ermetismo. Per tale motivo Penna può essere considerato, come Attilio Bertolucci o come Giorgio Caproni, poeta anti-ermetico. Certo è che la sua figura e la sua opera in versi ottennero plausi fin dalle prime pubblicazioni in riviste e volumi, e la sua fama andò sempre più aumentando, facendolo diventare un poeta estremamente importante nel panorama della lirica italiana novecentesca e non solo. Dopo un elenco delle opere poetiche di Sandro Penna, trascrivo quattro poesie che ritengo tra le sue migliori.

 

NOTE

1) Da Poeti italiani del Novecento, Mondadori 1991, Milano, p. 735.

 

 

 

Opere poetiche

 

"Poesie", Parenti, Firenze 1939.

"Appunti", Edizioni della Meridiana, Milano 1950.

"Una strana gioia di vivere", Scheiwiller, Milano 1956.

"Poesie", Garzanti, Milano 1957.

"Croce e delizia", Longanesi, Milano 1958.

"Tutte le poesie", Garzanti, Milano 1970.

"Poesie", Garzanti, Milano 1973.

"L'ombra e la luce", Scheiwiller, Milano 1975.

"Stranezze 1957-1976", Garzanti, Milano 1976.

"Il viaggiatore insonne", Garzanti, Milano 1977.

"Il rombo immenso", Scheiwiller, Milano 1978.

"Confuso sogno", Garzanti, Milano 1980.

"Tutte le poesie", Edizione Club, Milano 1982.

 

 

 

Testi

 

LA VITA... È RICORDARSI DI UN RISVEGLIO

 

La vita... è ricordarsi di un risveglio

triste in un treno all’alba: aver veduto

fuori la luce incerta: aver sentito

nel corpo rotto la malinconia

vergine e aspra dell’aria pungente.

 

Ma ricordarsi la liberazione

improvvisa è più dolce: a me vicino

un marinaio giovane: l’azzurro

e il bianco della sua divisa e fuori

un mare tutto fresco di colore.

 

(da "Tutte le poesie", Edizione Club, Milano 1982, p. 3)

 

 

 

 

AUTUNNO

 

Il vento ti ha lasciata un'eco chiara,

nei sensi, delle cose ch'ài vedute

- confuse - il giorno. All'apparir del sonno

difenderti non sai: un crisantemo,

un lago tremulo e una esigua fila

d'alberi gialloverdi sotto il sole.

 

(da "Tutte le poesie", Edizione Club, Milano 1982, p. 5)

 

 

 

 

NEL BUIO DELLA STANZA IN ME RISPLENDE

 

Nel buio della stanza in me risplende

il sole di settembre, o forse lieve

lieve anonima intesa entro quel sole.

 

Così l’anima inventa le parole

un poco detestabili. ma il sole...

 

(da "Tutte le poesie", Edizione Club, Milano 1982, p. 103)

 

 

 

 

LA MIA VITA È MONOTONA...

 

La mia vita è monotona, se arde

un calmo sole alle persiane verdi.

Si fa docile sguardo, calmo amore

anonimo, poesia di quattro versi.

 

(da "Tutte le poesie", Edizione Club, Milano 1982, p. 124)

 

mercoledì 13 luglio 2022

Baracche

 

Sulla riva sinistra dell'Aniene,

vicino al Ponte Vecchio, il vento lava

i cenci della miseria. Ma spesso

sento da quelle baracche di legno

canti di cuori innamorati, e bimbi

quasi laceri ridere sereni

dai sgangherati legni della loro

fiaba. E uomini vedo un poco foschi

di fatica sperare ancora, sempre,

dalla trincea della loro aspra vita.

Quel ritmo così raro per il cuore

- Felicità - sovente lo ritrovo

nel grido-arcobaleno di un a solo

della trombetta di un bimbo felice

sulla riva sinistra dell'Aniene.

 

 


 

 

COMMENTO

 

Questi versi fanno parte della poesia intitolata Baracche, e sono di Carlo Martini (Milano 1908-1978); io li ho trascritti da un volume di Sergio Turconi intitolato La poesia neorealista italiana (Mursia, Milano 1977). In verità non so se la medesima poesia sia completa, non possedendo la raccolta da cui proviene. Lo stesso Turconi, in una relativa nota, informa il lettore che Baracche fa parte della raccolta poetica I giorni della periferia, pubblicata da Martini nel 1954 presso le Edizioni Auditorium di Roma. Questi versi mostrano, secondo Turconi, segni evidenti dell'ipocrisia e del cinismo piccolo-borghese. Forse è così, pure, a me non dispiace il modo in cui il poeta lombardo descrive le misere abitazioni di una parte cospicua della popolazione italiana, ridotta all'estrema povertà dalla guerra da poco finita (siamo nei primi anni '50 del XX secolo). In particolare, è bella l'immagine del bimbo che trova la felicità semplicemente suonando una trombetta; probabilmente Martini si rifà ad una famosa poesia di Corrado Govoni, intitolata La trombettina, che, similmente, pone in risalto l'allegria e l'entusiasmo infantile impersonato da una bambina che ha avuto in dono una piccola tromba-giocattolo. 

domenica 10 luglio 2022

La Chimera

 

Non so se tra roccie il tuo pallido

Viso m'apparve, o sorriso

Di lontananze ignote

Fosti, la china eburnea

Fronte fulgente o giovine

Suora de la Gioconda:

O delle primavere

Spente, per i tuoi mitici pallori

O Regina o Regina adolescente:

Ma per il tuo ignoto poema

Di voluttà e di dolore

Musica fanciulla esangue,

Segnato di linea di sangue

Nel cerchio delle labbra sinuose,

Regina de la melodia:

Ma per il vergine capo

Reclino, io poeta notturno

Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,

Io per il tuo dolce mistero

Io per il tuo divenir taciturno.

Non so se la fiamma pallida

Fu dei capelli il vivente

Segno del suo pallore,

Non so se fu un dolce vapore,

Dolce sul mio dolore,

Sorriso di un volto notturno:

Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti

E l'immobilità dei firmamenti

E i gonfi rivi che vanno piangenti

E l'ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti

E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti

E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

 

 

Dino Campana (disegno di Franco Gentilini)

 

COMMENTO

 

La Chimera è il titolo di una tra le poesie più belle e celebri della letteratura italiana. L’autore è Dino Campana (Marradi 1885 - Scandicci 1932), che la inserì nella sua unica raccolta di versi: Canti Orfici, pubblicata dalla Tipografia Ravagli di Marradi nel 1914. Io l’ho trascritta da una ristampa del volume: Opere (prima edizione: TEA, Milano 1989).

 La Chimera è il primo componimento in versi della sezione Notturni dei Canti Orfici; qui, si possono leggere altre poesie particolarmente belle, come Giardino autunnale e Il Canto della tenebra. Tornando a La Chimera, fin dall’inizio s’intuisce che Campana, quasi in estasi, sta cercando di descrivere una visione – o meglio ancora, un’illuminazione – che ha caratteristiche mistiche, arcane e particolarmente coinvolgenti. Da notare, inoltre, che il poeta sembra rivolgersi direttamente a questa sorta di visione, come se essa sia in grado di ascoltarlo.  Ciò che appare al poeta, o lo colpisce più di ogni altra cosa, è il volto di una giovanissima donna, se non di un’adolescente, i cui lineamenti ricordano due capolavori pittorici di Leonardo da Vinci: La Vergine delle Rocce e La Gioconda. Ma la descrizione di questa figura femminile, non viene mai definita in modo esauriente, rimanendo sempre assai vaga; ciò che si percepisce chiaramente, è il fascino straordinario che possiede, così come il senso di profondo mistero che la avvolge, e la fa assomigliare a qualcosa di divino. Si potrebbe parlare di un’apparizione, ovvero qualcosa di straordinario e indefinibile che il poeta osserva incredulo ed estasiato, non potendo far altro che adorare il volto pallido di un essere metafisico, che racchiude tutte le maggiori attrattive delle arti più famose: poesia, pittura, musica e scultura. Il fatto che Campana, nella descrizione di questa figura, dichiari più di una volta la sua incertezza (quel “Non so” che compare al primo, al ventunesimo e al ventiquattresimo verso), rafforza l’indeterminatezza di essa; anche il nome con cui Campana decide di chiamarla: Chimera, oltre a mitizzarla, la precisa quale essere irraggiungibile, ovvero alla stregua di un sogno meraviglioso, impossibile da realizzare; niente a che vedere, è ovvio, con il mostro che è così chiamato nella mitologia greca (Χίμαιρα).

mercoledì 6 luglio 2022

La fonte

 

Una fontana nascosta dentro il profondo d'un bosco

 so, dove cresce l'edera folta intorno;

 

quando s'accosta alcuno, ne svolano mille farfalle

 notturne con dipinte l'ali di rosso e bruno.

 

Sopra s'addensan le querce dal cupo dentato fogliame,

 donde sempre suona vario d'alati un canto.

 

Sulla fonte reclino il volto e m'ardono gli occhi,

 che cercano insaziati quanto ho smarrito altrove.

 

Ecco ch'io scorgo nell'acqua cento volti già noti:

 sono le mie speranze, pallide nella fonte.

 

Vogliono perdersi, via svanire per sempre con l'acque.

 Or s'indugiano ancora tenuemente tremano;

 

esse aspettano ch'io precipiti dentro le fredde

 correnti: al mio cadere pronte dilegueranno.

 




 

COMMENTO

La fonte è il titolo di una poesia di Luigi Siciliani (Cirò 1881 – Roma 1925) che ho trascritto dalla raccolta Arida nutrix, pubblicata dalla Società Editoriale Quintieri in Milano nel 1920. La medesima raccolta, era già uscita in altre due edizioni, leggermente differenti da questa; la prima, fu pubblicata nel 1909 presso l’editore Modes di Roma; la seconda, pubblicata dallo stesso editore della terza, uscì nel 1912.

Questi versi parlano di una fonte che si trova in un luogo recondito, all’interno di un fitto bosco. Intorno alla fonte, vivono e crescono piante ed animali; l’edera la circonda e, al di sopra di essa, vi è una concentrazione di querce, che si fanno notare per le loro foglie scure e dentellate. Sopra i rami delle querce vi sono degli uccelli, che probabilmente non si vedono, pur facendo percepire la propria presenza col loro canto assai diversificato. Chi si avvicina alla fonte, vede anche moltissime farfalle notturne, con ali rosse e nere, che si trovano nei pressi dell’acqua, e che volano via e si allontanano non appena avvertono la presenza di un estraneo. La fonte ha qualcosa di magico, che spinge chi vi si avvicina a specchiarsi nelle sue acque. Il poeta lo fa e vede, sulla superficie acquosa, tanti volti conosciuti; sono le sue speranze, che hanno preso le fattezze umane, e spiccano per la loro bianchezza. Queste speranze, divenute esseri viventi e pensanti, vorrebbero dileguarsi per sempre con l’acqua che scorre; ma per ora non si muovono, attendendo che il poeta cada dentro la fonte, e misteriosamente sia portato via dalle fredde correnti; solo in quel momento, le speranze spariranno per sempre.    

domenica 3 luglio 2022

In riva al mare

 

Eran le sei del pomeriggio, un giorno

chiaro festivo. Dietro al faro, in quelle

parti ove s'ode beatamente il suono

d'una squilla, la voce d'un fanciullo

che gioca in pace intorno alle carcasse

di vecchie navi, presso all'ampio mare

solo seduto; io giunsi, se non erro,

a un culmine del mio dolore umano.

 

Tra i sassi che prendevo per lanciare

nell'onda (ed una galleggiante trave

era il bersaglio), un coccio ho rinvenuto,

un bel coccio marrone, un tempo gaia

utile forma nella cucinetta,

con le finestre aperte al sole e al verde

della collina. E fino a questo un uomo

può assomigliarsi, angosciosamente.

 

Passò una barca con la vela gialla,

che di giallo tingeva il mare sotto;

e il silenzio era estremo. Io della morte

non desiderio provai, ma vergogna

di non averla ancora unica eletta,

d'amare più di lei io qualche cosa

che sulla superficie della terra

si muove, e illude col soave viso.

 

 


 

COMMENTO

In riva al mare è una poesia di Umberto Saba (pseudonimo di Umberto Poli, Trieste 1883 – Gorizia 1957). La si può trovare, tra i libri che raccolgono una parte o l'intera opera in versi dello scrittore triestino, in Poesie scelte (Mondadori, Milano 1992) e in Tutte le poesie (Mondadori, Milano 1993); io l'ho trascritta dal primo volume citato, dove si trova a pagina 85. Ancora inedita, apparve nel primo Canzoniere che Saba pubblicò nel 1921, come ultima poesia della sezione L'amorosa spina.

Pur non essendo molto conosciuta e malgrado non mi risulti mai selezionata in alcuna antologia famosa della poesia italiana del Novecento, ritengo questa composizione in versi una delle più belle mai scritte da Saba. Certamente il tema trattato non è allegro: il poeta ricorda un momento - parafrasando un capitolo del Canzoniere - di "serena disperazione" che lo ha travolto. Tutto ciò, come spiega Saba, è avvenuto durante un giorno di festa; verso le sei del pomeriggio, il poeta si trovava sulla spiaggia (probabilmente della sua città natale), e per passare il tempo si dilettava a lanciare dei sassolini nel mare, quando, improvvisamente si avvide della presenza, tra la sabbia, di un bel coccio marrone: forse un frammento di una teiera andata da chissà quanto tempo in frantumi; e guardando quel frammento ormai del tutto inutile, lo paragonò a se stesso, che evidentemente stava attraversando un periodo difficile; la sua situazione deficitaria e la depressione che ne scaturiva, lo portarono a fare un'amarissima considerazione, chiedendosi come aveva fatto, fino a quel momento della sua esistenza, a farsi allettare dalle innumerevoli illusioni che la vita offre, più o meno a tutti gli uomini, e a non amare solamente la morte: unica eletta perché sicura, non ingannevole e in grado di porre fine a qualsiasi tipo di sofferenza. Si nota, in questi versi, l'attenzione particolare che l'autore attribuisce ai colori degli oggetti che vede e del paesaggio; precisamente, tali colori posti in risalto sono due: il marrone del coccio ed il giallo della vela che si riflette anche nel mare. Questi, che in genere non sono associati a sentimenti dolorosi o tristi, in questo caso divengono i simboli della disperazione del poeta.

 

domenica 26 giugno 2022

L'orientalismo nella poesia italiana decadente e simbolista

 

La predilezione e, in certi casi, la passione per l'arte, i luoghi, determinati personaggi e precisi oggetti che provengono dall'oriente, appartiene al miglior decadentismo e simbolismo europeo. La poesia italiana non fa eccezione, viste le numerose tracce di orientalismo che si possono trovare nei versi di tanti poeti riconducibili all'area decadente-simbolista. Fonte d'ispirazione dell'orientalismo poetico, sono senz'altro i romanzi e i racconti di grandi scrittori francesi dell'Ottocento, come Victor Hugo, Gustave Flaubert e Karl-Joris Huysmans (forse si potrebbe aggiungere anche il nostro Emilio Salgari); soprattutto Flaubert, autore, tra l'altro, dei racconti esotici Salammbô ed Hérodias, fu determinante nel diffondere tra i lettori una sorta di fascino tutto orientale e tutto al femminile, che quindi divenne fonte d'ispirazione per parecchi poeti italiani e non. Ciò che attraeva dell'allora misterioso oriente, era anche la musica e in particolare certe danze sensuali, in cui di nuovo erano protagonisti personaggi femminili più o meno leggendari (si pensi a Salomè, spesso presente anche nelle arti figurative di quel preciso periodo). Non di meno, affascinavano i suggestivi e, direi unici paesaggi che si trovano in alcune zone dell'Asia e dell'Africa orientale, comprendenti, nella descrizione accurata che ne facevano i poeti, piante ed animali del tutto sconosciuti a chi era vissuto sempre in Europa. Meno citati, ma pur presenti, sono i luoghi ed i personaggi inerenti alla Cina ed al Giappone (a tal proposito, si leggano i quattro bellissimi sonetti di Corrado Govoni, racchiusi sotto il titolo Ventagli giapponesi).

 

 

 

 

Poesie sull’argomento

 

Mario Adobati: "Scheherazade" e "Salomè" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).

Giovanni Camerana: "Salammbô" in "Poesie" (1968).

Enrico Cavacchioli: "Danza delle scimitarre" in "Le ranocchie turchine" (1909).

Guido Da Verona: "La canzone del fiume Jo-Yéh" e "La tazza di thé" in "Il libro del mio sogno errante" (1919).

Raoul Dal Molin Ferenzona: "Notte antica" in "A Ô B (Enchiridion notturno)" (1923).

Federico De Maria: "Nostalgia d'Oriente" in "Le Canzoni Rosse" (1904).

Federico De Maria: "Il ricordo più bello" in "La Ritornata" (1933).

Domenico Gnoli: "Sul Gange" in "Jacovella" (1905).

Corrado Govoni: "Ventagli giapponesi" in "Le Fiale" (1903).

Luigi Gualdo: "Atarah" in "Le Nostalgie" (1883).

Virgilio La Scola: "Cantore arabo" in "La placida fonte" (1907).

Gian Pietro Lucini: "Il tappeto su cui, Bella, danzate" in "Il Libro delle Figurazioni Ideali" (1894).

Nicola Marchese: "Orientale" in "Le Liriche" (1911).

Tito Marrone: "La Stufa" in "Le Gemme e gli Spettri" (1901).

Angiolo Orvieto: "Il Fuji" e "Nikko" in "Verso l'Oriente" (1923).

Aldo Palazzeschi: "Habel Nassab" in "Poemi" (1909).

Giuseppe Rino: "La figlia d'Erodiade" in "Poesia", agosto/settembre/ottobre 1909.

Guido Ruberti: "Le serre" in "Le fiaccole" (1905).

Carlo Vallini: "La leggenda del principe Siddharta" in "Un giorno" (1907)

Carlo Vallini: “Horo”, “Lo Scriba”, “L'offerta del Re” e “Nel Màstaba” in «Ardita», gennaio 1921.

 

 

 

 

Testi

 

VENTAGLI GIAPPONESI

CRIPTOMERIE

di Corrado Govoni

 

Per dei viali d’alte criptomerie

s’alternano le pulite casette,

giuocattoli minuscoli, berrette

di persone attillate e poco serie.

 

Sembrano femine in continue ferie

di gonnelle di stoffe un po’ civette,

increspate di splendide faccette

più azzurrognole di pontiderie.

 

Lontano, ad un incerto Timbuctù

migra un greggie d’anitre selvatiche

traverso un bianco cielo di gimè.

 

Nel lago tra le canne di bambù

una vergine tuffa le sue natiche...

e il paesaggio è di Kirosighè.

 

(da "Le fiale")

 

 

 

 

NEL MÀSTABA

di Carlo Vallini

 

Nel màstaba profondo, ove le offerte

giacciono intatte sulla pietra dura,

ove, nel chiuso delle quattro mura,

l'alito della nafta acre s'avverte,

 

guardano i grifi e gl'ibis con aperte

ali, fra i geni della sepoltura,

quella che ignota a Fthah, rigida e pura

dorme, fasciato il lungo corpo inerte.

 

Dorme pura e in eterno, ella, né teme

i mostri che s'inseguono per l'alto,

biechi, anelanti a lugubri connubi:

 

poiché, funebre iddio, sopra le estreme

sue sorti, con obliqui occhi di smalto,

vigila immoto lo sciacallo Anubi.

 

(da «Ardita», gennaio 1921)

 

 

Jean Paul Sinibaldi, "Salammbô"
(da questa pagina web)