Eran le sei del
pomeriggio, un giorno
chiaro festivo.
Dietro al faro, in quelle
parti ove s'ode
beatamente il suono
d'una squilla, la
voce d'un fanciullo
che gioca in pace
intorno alle carcasse
di vecchie navi,
presso all'ampio mare
solo seduto; io
giunsi, se non erro,
a un culmine del
mio dolore umano.
Tra i sassi che
prendevo per lanciare
nell'onda (ed una
galleggiante trave
era il
bersaglio), un coccio ho rinvenuto,
un bel coccio
marrone, un tempo gaia
utile forma nella
cucinetta,
con le finestre
aperte al sole e al verde
della collina. E
fino a questo un uomo
può
assomigliarsi, angosciosamente.
Passò una barca
con la vela gialla,
che di giallo
tingeva il mare sotto;
e il silenzio era
estremo. Io della morte
non desiderio
provai, ma vergogna
di non averla
ancora unica eletta,
d'amare più di
lei io qualche cosa
che sulla
superficie della terra
si muove, e
illude col soave viso.
In riva al mare è una poesia di Umberto Saba (pseudonimo di Umberto
Poli, Trieste 1883 – Gorizia 1957). La si può trovare, tra i libri che
raccolgono una parte o l'intera opera in versi dello scrittore triestino, in Poesie scelte (Mondadori, Milano 1992) e
in Tutte le poesie (Mondadori,
Milano 1993); io l'ho trascritta dal primo volume citato, dove si trova a pagina 85.
Ancora inedita, apparve nel primo Canzoniere
che Saba pubblicò nel 1921, come ultima poesia della sezione L'amorosa spina.
Pur non essendo
molto conosciuta e malgrado non mi risulti mai selezionata in alcuna antologia
famosa della poesia italiana del Novecento, ritengo questa composizione in
versi una delle più belle mai scritte da Saba. Certamente il tema trattato non
è allegro: il poeta ricorda un momento - parafrasando un capitolo del Canzoniere - di "serena disperazione"
che lo ha travolto. Tutto ciò, come spiega Saba, è avvenuto durante un giorno
di festa; verso le sei del pomeriggio, il poeta si trovava sulla spiaggia
(probabilmente della sua città natale), e per passare il tempo si dilettava a
lanciare dei sassolini nel mare, quando, improvvisamente si avvide della
presenza, tra la sabbia, di un bel coccio
marrone: forse un frammento di una teiera andata da chissà quanto tempo in
frantumi; e guardando quel frammento ormai del tutto inutile, lo paragonò a se
stesso, che evidentemente stava attraversando un periodo difficile; la sua
situazione deficitaria e la depressione che ne scaturiva, lo portarono a fare
un'amarissima considerazione, chiedendosi come aveva fatto, fino a quel momento
della sua esistenza, a farsi allettare dalle innumerevoli illusioni che la vita
offre, più o meno a tutti gli uomini, e a non amare solamente la morte: unica eletta perché sicura, non
ingannevole e in grado di porre fine a qualsiasi tipo di sofferenza. Si nota,
in questi versi, l'attenzione particolare che l'autore attribuisce ai colori
degli oggetti che vede e del paesaggio; precisamente, tali colori posti in
risalto sono due: il marrone del coccio ed il giallo della vela che si riflette
anche nel mare. Questi, che in genere non sono associati a sentimenti dolorosi
o tristi, in questo caso divengono i simboli della disperazione del poeta.
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