Limen è il titolo di una raccolta poetica scritta “a quattro mani”, visto che gli autori sono i due fratelli Francesco ed Emilio Scaglione. La sua eccezionalità non sta nel fatto che fosse più di uno l’autore della raccolta, ma che le poesie non siano firmate, lasciando intendere che ogni componimento ivi presente, sia nato da un lavoro di coppia, e che quindi tutti i versi siano da attribuire ad entrambi i poeti. Limen fu pubblicato a Catania, da Noiccolò Giannotta Editore nel 1910. Le 143 pagine di questo volume, che vide l’esordio letterario di entrambi i due giovanissimi autori (Francesco probabilmente aveva ventuno anni, e presumibilmente era il maggiore dei due fratelli), contengono una Prefazione dedicata a Francesco Scaglione: zio dei due poeti e Ispettore Scolastico di Palermo, a cui i giovani si rivolgono con sentita riconoscenza, per l’incoraggiamento che il parente gli diede affinché potessero giungere alla pubblicazione del loro primo libro; seguono una sessantina di poesie più o meno lunghe nelle quali, come detto in precedenza, non viene specificato chi dei due ne sia l’autore. L’ispirazione di questi versi nasce dalle tante letture dei giovani fratelli siciliani, ma si concentra maggiormente nelle suggestioni e nelle influenze che evidentemente ebbero, dai poeti italiani e francesi di fine Ottocento e d’inizio Novecento; in particolare si notano parecchie somiglianze con alcuni versi di Domenico Gnoli, Arturo Graf, Enrico Panzacchi, Tommaso Cannizzaro, Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annunzio (a proposito di quest’ultimo, si legga la poesia intitolata Orto chiuso). Se per Emilio, a parte un altro libriccino scarsamente significativo, questo volume rappresenta l’unica sua opera in versi, per Francesco fu soltanto un punto di partenza per creare la sua raccolta più importante: Le Litanie (Bideri, Napoli 1911), che però fu anche l’ultima, visto che entrambi, a partire dal 1911, non pubblicarono più opere poetiche. Chiudo riportando tre liriche tratte da Limen.
L'ASFODELO
Lascia ch'esali
in tenui ansie d'amore
l'asfodelo la sua
vitrea bellezza,
ché se lo cogli
ti si frange e muore
solo pe 'l soffio
de la tua carezza.
Anche l'anima
mia, fanciulla, hai colto,
ed ogni giorno un
petalo ne hai tolto.
Solo ora che di
cogliere hai finito,
mi getti come asfodelo appassito.
(da Limen, p. 30)
L'ULTIMA RIVA
Vengon l'uomo e
la donna, ebri di vita,
a la riviera, il
limite d'amore:
v'è picciol trave
a un sol corpo: l'orrore
vampa ne la
pupilla isbigottita.
Chi prima?
"Or va gentil cor del mio core,
ramo de l'alber
mio" - l'uom è che invita -
io son la china,
tu sei la salita
tu il fonte, io
il rivo; il prato tu, io lil fiore!"
Guarda la donna e
ride nel sereno
occhio, e col piè
dei precipizi a guerra
sospinge il
legno, forte contro forte.
Stendesi intorno
lugubre nel pieno
agonizzar dei
secoli la terra,
ed abbracciati quei van ne la morte!
(da Limen, p. 49)
CH'È STATO?
Perché mai tremo?
Ch'è stato?
Son queste notti
sì chete!...
pur qualche cosa
ha girato
da l'una a
l'altra parete.
Leggevo in questo
volume
placide istorie
d'amore,
allor che intesi
sul lume,
non so se un
soffio o un rumore.
Dunque? Negli
angoli bui
là, chi si desta
che sogna?
Un po' di quello
che fui
forse rivivere
agogna?
Ma no, son pazzo!
Chi muore
sta troppo bene
laggiù
per ritentare
l'errore...!
Via non
pensiamoci più!
Torno a l'istoria
lasciata,
son queste notti
sì chete!
Pur... qualche
cosa è passata
da l'una a
l'altra parete.
(da Limen, pp. 89-90)
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