domenica 28 luglio 2024

Le città in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 In queste dieci poesie non si parla di città specifiche, ma di centri abitati in generale; ogni poeta, ha creato dei versi che vogliono evidenziare delle sensazioni personali, provate vivendo in una o più città. Nella maggior parte delle poesie, risultano abbastanza evidenti degli elementi negativi, che si identificano in una pressoché totale incomunicabilità tra gli esseri umani, così come in una sorta di ansia, che coinvolge tutti, e che costringe chiunque ad adeguarsi ai ritmi caotici delle strade cittadine, dove tutto, dallo spuntare dell’alba al calare della sera, va troppo velocemente. Ma vi è anche qualche poeta che riesce a trovare delle caratteristiche positive, all’interno del caos cittadino; Saba e Sbarbaro ne sono un esempio: il primo, aggirandosi nella parte più vecchia della sua città natale, tra la popolazione più umile rintraccia alcune peculiarità che la rendono particolarmente umana, e a cui si sente vicino; il secondo, invece, con alcuni paragoni ben calzanti, esterna un’assuefazione verso determinate attrattive cittadine, che divengono basilari per la sopravvivenza del poeta. Vi sono, infine, due poesie – quelle di Betti e della Menicanti – in cui si parla di città fantastiche, nate dall’immaginazione senza fine dei poeti, forse per trovare una consolazione, ovvero un’evasione dalla deprimente realtà che è propria di tante città senz’anima.    

 


 LE CITTÀ IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO

 


CITTÀ

di Luigi Bartolini (1892-1963)

 

Ogni incontro

nelle città è un guardarsi

girare gli occhi

e dimenticarsi.

 

(da «Il Selvaggio», novembre 1937)

 

 

 

 

LA CITTÀ DEI RE

di Ugo Betti (1892-1953)

 

Oro le mura

le torri cristallo;

è la terra scaglia dura,

accecante specchio giallo.

Senza mai notte o ristoro

la vampa del sole piomba.

Sfolgora la città d'oro.

Non v'è stilla d'acqua o fronda.

 

Non alito, né ronzìo,

né calpestìo.

Vanno i Re nei manti scarlatti,

taciturni, col passo dei gatti.

Ogni gemma, ogni metallo,

implacabile specchio giallo,

specchia gli occhi, fissi, matti,

specchia sonno, senza pianto...

Non v'è alito, non canto.

 

Duro è l'oro, la gemma è dura,

non si può fare sepoltura.

Guardano il sole con gli occhi sbarrati

i Re morti sull'oro coricati.

 

(da "Poesie", Cappelli, Rocca San Casciano 1957, p. 94)

 

 

 

 

CITTÀ

di Luciano Budigna (1924-1988)

 

Queste vie di città sono nel cuore

come conclusi sentimenti.

                            Tornano

sempre di nuovo le stagioni: l'aria

muta da azzurro a grigio, lo squallore

di questi vecchi alberi diviene

verde canto nel cielo.

                       Una marina

ogni giorno di vita ha in sé: si allarga

l'orizzonte di luce se lo sguardo

è stanco di seguire l'onde brevi

sul bianco delle dighe.

                        Torna il vento.

 

(da "Infine vivere", Rusconi, Milano 1975, p. 29)

 

 

 

 

LA CITTÀ ADDORMENTATA

di Enrico Cavacchioli (1885-1954)

 

Con la rete intricata delle strade violette,

sulle quali un asino pigro sferraglia nella penombra,

con le finestre chiuse e qualche beghina, in piedi,

su la porta, che scruta il cielo orientale,

la città che dorme, ha stamane un profumo

di convalescenza.

 

Ma dalla campagna lontana, giungono strani carriaggi,

che sanno di verdura e di concime. Schiocca una frusta

dietro lo zoccolante passo di un ronzino da fiera,

ed una canzone, a mezza voce, accompagna l'apparizione.

Piccolo borgo paesano, pare questa città nell'alba

con le bandiere

dei cenci che l'adornano da una finestra all'altra;

coi due caffè che spalancano le loro luci beffarde

prima delle chiese, e le campane malinconiche,

sguinzagliate a chiamar fedeli, di porta in porta....

 

Se non fosse la sua scenografia da Bastiglia,

se non fosse l'artiglieria delle sue ciminiere,

questa città sembrerebbe una ridicola

messa in scena borghese

cresciuta e morta su di una fossa:

in cui per fortuna, un pesco distende a gran pena

un braccio tutto fiorito della sua gloria rossa....

 

(da "Cavalcando il Sole", Edizioni Futuriste di "Poesia", Milano 1914, pp. 116-117)

 

 

 

 

CITTÀ

di Gino Geròla (1923-2006)

 

Ancora sorgi con la mano bianca

alba triste d'inverno che risvegli

nebbiosa le campane dei quartieri.

Al tuo livido fiato entra nel giorno

la fiumana dei passi.

E già dalle officine ulula rossa

l'ora che fa deserti

e riaffolla i reparti. L'operaio

che esce dalla notte

assordata di rombi, per le strade

coglie il mattino come un'ombra dolce

covando il suo riposo nel mantello

umido che già odora di tepore.

Tra i campanili il vento non ha pace.

 

Non conosce buio o meriggio

il tuo canto, città, che agiti insonne

la corsa dei treni, la febbre

per cui nessuno può adagiare indenne

la fronte in grembo ai sogni.

Un moto inclemente ci trascina

stimolato dall'occhio dei semafori

e lontane si perdono le voci

a cui l'animo affida la sua festa.

 

Perché la primavera entri festosa

negli angiporti dove ai mendicanti

scendono le tue sere desolate,

nostra amara vicenda,

il tuo moto s'inquieta e i nostri sguardi

rapiscono la luce a cui s'accendono

le lucciole e i baleni. Il nostro piede

sfida gli abissi, ascolta

il suono e la minaccia

che tuonerà propizia quando il sole

vedrà i ragazzi ridere nei vicoli.

Un coro sulle torri sarà il vento.

 

[da "La valle e periferia (1943-1995)", Osiride, Rovereto 2001, pp. 47-48]

 

 

 

 

CITTÀ E CITTÀ

di Daria Menicanti (1914-1995)

 

Tra scampoli neri di sogni

nell'ora più sontuosa della notte

mi si fa incontro una mai prima vista

città di case sospese di alati

bambini e gente trasparente.

Treni di luce, bus color aurora

fanno cangianti le strade e i raccordi

e lunghi fiori notturni salendo

planando inventano giardini

in perpetuo volanti.

  Dopo le nostre - allora mi conforto -

altre ci sono città come queste:

ali silenzio lampi. Saranno

esse a ospitarci, noi

e le nostre care cose

 

(da "Il concerto del grillo", Mimesis, Milano-Udine 2013, p. 607)

 

 

 

 

CITTÀ VECCHIA

di Umberto Saba (Umberto Poli, 1883-1957)

 

Spesso, per ritornare alla mia casa

prendo un'oscura via di città vecchia.

Giallo in qualche pozzanghera si specchia

qualche fanale, e affollata è la strada.

 

Qui tra la gente che viene che va

dall'osteria alla casa o al lupanare,

dove son merci ed uomini il detrito

di un gran porto di mare,

io ritrovo, passando, l'infinito

nell'umiltà.

 

Qui prostituta e marinaio, il vecchio

che bestemmia, la femmina che bega,

il dragone che siede alla bottega

del friggitore,

la tumultuante giovane impazzita

d'amore,

sono tutte creature della vita

e del dolore;

s'agita in esse, come in me, il Signore.

 

Qui degli umili sento in compagnia

il mio pensiero farsi

più puro dove più turpe è la via.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1994, p. 91)

 

 

 

 

CITTÀ, CITTÀ, PER ME TU SEI...

di Camillo Sbarbaro (1888-1967)

 

  Città, città, per me tu sei l'ossigeno pel moribondo, la tremenda dose di cantaride per l'esaurito! Tu sola mi dài l'acuto senso d'inesprimibile. Divento il balbuziente cui sul viso si disegna una riga di dolore.

  Non resta che il grido.

  Napoli, Marsiglia, Vienna... Parole che m'empiono di vertigine.

 

(da "Trucioli", Scheiwiller, Milano 1990, p. 180)

 

 

 

 

CITTÀ DI NOTTE

di Vittorio Sereni (1913-1983)

 

Inquieto nella tradotta

che ti sfiora così lentamente

mi tendo alle tue luci sinistre

nel sospiro degli alberi.

 

Mentre tu dormi e forse

qualcuno muore nelle alte stanze

e tu giri via con un volto

dietro ogni finestra - tu stessa

un volto, un volto solo

che per sempre si chiude.

 

(da "Frontiera. Diario d'Algeria", Guanda, Parma 2013, pp. 235-239)

 

 

 

 

CITTÀ-CIMITERO

di David Maria Turoldo (Giuseppe Turoldo, 1916-1992)

 

E altri che se ne sono andati

tenendosi per mano;

o soli, inghiottiti

dalla tiepida luce delle case.

Ed altri con macchine lunghe

scivolanti via

su vie bagnate dalla pioggia d'autunno,

uguali al guizzo di serpe

in cerca di una tana.

Ed altri ancora vivi solo

nei tum-tum così radi dei tabarin,

sopravanzati sbadigli di luce

per la strada ormai deserta.

Ed altri, quasi ombre favolose

in cerca di inaspettate prede.

E poi il vigile nella veste nera;

e poi gli occhi soli della prostituta.

E poi tu, poverello, cariatide

incosciente, immensa

sotto il monumentale pronao del tempio.

E il solitario pino dei giardini

intriso di nebbia

solo testimone vivo

nella città-cimitero.

 

(da "O sensi miei... Poesie 1948-1988", Rizzoli, Milano 2002, p. 121)

 

"A street at night with a pharmacy". Oil painting by an English painter, ca. 1900
(da questa pagina web)




domenica 21 luglio 2024

Riviste: "Lacerba"

 

Lacerba è il titolo di una rivista letteraria, artistica e politica, che fu pubblicata a Firenze tra il 1913 ed il 1915. Fu fondata da Giovanni Papini e Ardengo Soffici, che scelsero tale nome pensando a L’Acerba, ovvero al famoso poema di Cecco D’Ascoli, da cui adottarono anche l’epigrafe: «qui non si canta al modo delle rane». Lacerba nacque come rivista quindicinale, per poi divenire settimanale dal gennaio del 1915 fino all’ultimo numero, che praticamente coincise con l’entrata dell’Italia nella Grande Guerra. Molti di coloro che collaborarono a Lacerba, erano intellettuali provenienti da un’altra celebre rivista: La Voce; ad essi se ne aggiunsero altri, spesso giovani, che avevano una spiccata tendenza al rinnovamento ed alla sperimentazione. Tra i poeti più talentuosi che pubblicarono versi su Lacerba, si ricordano i nomi di Dino Campana, Aldo Palazzeschi, Corrado Govoni, Camillo Sbarbaro e Giuseppe Ungaretti. Ecco, infine, tre poesie che uscirono, per la prima volta, sulla rivista fiorentina.

 


 


TORBIDITÀ

di Camillo Sbarbaro (1888-1967)

 

Nel mio povero sangue qualche volta

fermentano gli oscuri desideri.

Vado per la città solo la notte:

e l'odore dei fondaci al ricordo

vince l'odor dell'erba sotto il sole.

 

Rasento le miriadi degli esseri

sigillati in sé stessi come tombe.

E batto a porte sconosciute, salgo

scale consunte da generazioni.

La femmina che aspetta sulla porta

l'ubriaco che rece contro il muro

guardo con occhi di fraternità.

E certe volte subito trasalgono

nell'andito malcerto, in capo a cui

occhi di sangue paiono i fanali,

le mie nari che fiutano il delitto.

 

Mi cresce dentro l'ansia di morire

senza avere il godibile goduto

senza avere il soffribile sofferto.

La volontà mi prende di gettare

come un ingombro inutile il mio nome.

Con per compagna la Perdizione

a cuor leggero andarmene pel mondo.

 

(da «Lacerba», anno 1, n. 12, giugno 1913)

 

 

 

 

QUATTRO BEGLI OCCHI

di Giovanni Papini (1881-1956)

 

Occhi color di rhum nel bicchiere che brilla

occhi color mattino specchiato nell’acqua tranquilla

occhi-passione della mia maggiore

occhi-piacere della mia minore

occhi nuovi umidi e felici

venuti a risplender per me

nel posto d’occhi che si chiusero in quest’anni

e ch'eran morati e castagni

verdi e celesti come i vostri

Occhi belli delle mie figliuole

così luminosi nelle giornate di sole

pronto soccorso contro le tristezze

più delle bianche risa e de' baci ciliege

e di tutte le vostre carezze

Occhi grandi delle mie bambine

così piccine

che guardate tutto in tondo

alla scoperta del mondo

cinematografico gratuito

per le vostre curiosità

enorme bazar di novità

con libero ingresso all'infinito

Sui vostri occhi sereni

finestre tonde sul paradiso

terrestre

io chino spesso il viso

per rivedere quel che avete visto

per tornare come voi siete

per richiamare sopra i vostri specchi

i miei ricordi più cari e più vecchi

Ma se troppo mi accosto

ogni spettacolo sparisce

La vostra pupilla vibrante di gioia

si turba e s'incupisce

scolorandosi poi nel bigio-noia

e ne' vostri occhi non più vivi

si rifletton soltanto i miei da grande

occhi stanchi e cattivi.

 

(da «Lacerba», anno 2, n. 2, gennaio 1914)

 

 

 

 

CHIAROSCURO

di Giuseppe Ungaretti (1888-1970)

 

Il bianco delle tombe se lo è sorbito la notte

Spazio nero infinito calato

da questo balcone

al cimitero

 

Mi è venuto a ritrovare il mio compagno arabo

che si è suicidato

che quando m'incontrava negli occhi

parlandomi con quelle sue frasi pure e frastagliate

era un cupo navigare nel mansueto blu

È stato sotterrato a Ivry

con gli splendidi suoi sogni

e ne porto l'ombra

 

Rifà giorno

Le tombe scompariscono

appiattate nel verde tetro delle ultime oscurità

nel verde torbido del primo chiaro

 

Le annate dopo le annate

trovatelle a passeggio

in uniforme

accompagnate da suore di carità

 

Ma ora mi reggo tra le braccia

le nuvole che il mio sole mantiene

e all'alba non voglio sapere di più

 

(da «Lacerba», anno 3, n. 16, aprile 1915)

 

 

venerdì 19 luglio 2024

La perdita della memoria in una poesia di Antonio Porta

 Svegliarsi, un giorno, senza sapere più nulla di noi, della nostra vita passata e presente. Questo succede ad un uomo di cui parla Antonio Porta (pseudonimo di Leo Paolazzi, Vicenza 1935 - Roma 1989), in una delle poesie raggruppate nella sezione Rapporti umani, e leggibile in un volume che riassume l'opera in versi dello scrittore veneto. L'immemore si accorge di avere la barba lunga, quindi esce di casa e si reca dal barbiere; quest'ultimo gli chiede dei suoi figli e il pover'uomo non si ricorda neppure di averli. Sempre più perso in se stesso, lo smemorato torna a casa e vi trova la consorte, che gli si fa incontro con modi ostili; lui non la riconosce, non sa chi sia. Il resto è la devastante caduta in un vuoto di memoria che provoca acuta sofferenza e che sfocia nella pazzia.




RAPPORTI UMANI, XI


«Della mia vita, in un certo giorno,

non seppi più nulla, soltanto quello

che rivelò il barbiere domandando dei

miei figli e m’accorsi di non averne mai

saputo, guardandomi bene negli occhi sopra 

la schiuma e i riflessi del rasoio.

Uscii e impolverai le scarpe tra le

pietre, e proseguii, le stringhe

slacciate, sulla via di casa, il

gocciolìo del sudore: entrando qualcosa

accadde, non ricordo; dietro il portone,

immobile tra i cristalli, l’ostilità di

mia moglie e mi chiesi chi era.

Per togliere la polvere, chinato, si recidevano

le stringhe, la fronte mi sanguinava, tra i

cristalli spezzati, le stringhe tra i capelli,

e premevo, frugando fra le schegge, scrivendo

nella polvere, la lingua mi si tagliava,

lambendo, il sangue colava dagli occhi, sulle tempie,

i figli non sanno nulla...»


(da "Poesie 1956-1988", Mondadori, Milano 1998, p. 34)


domenica 14 luglio 2024

Condizione

 La brevissima poesia di Giorgio Caproni (1912-1990) intitolata Condizione parla di un uomo estremamente solo e chiuso in se stesso; quest'uomo non parla più con nessun essere vivente, ma instaura un dialogo con le persone care che gli sono venute a mancare: forse è, ormai, l'unico rifugio che gli rimane per non cadere nella pazzia. Il 2° verso di Condizione, accentua uno stato di completo (e anche volontario) isolamento dell'uomo, mentre i successivi due versi, parlano di ragioni e di torti personali che, in una situazione in cui è praticamente impossibile confrontarsi e confessarsi con chiunque, non hanno più valore, né senso. Nel 5° verso Caproni torna a sottolineare la condizione di assoluta solitudine dell'uomo, e la stanza "vuota" sembra voler significare che neppure il protagonista della poesia riesca a riempirla, tanto si sente fuori dalla vita. Nell'ultimo verso, si rende finalmente noto che l'uomo sta parlando. Ovviamente non può parlare con esseri viventi che non ci sono, né ci saranno nel resto della sua vita; quindi il suo dialogo è con i morti: le persone care venute a mancare da tempo, che lo hanno amato e che lui amava, probabilmente quando faceva parte di una famiglia. 

Lo stato di completa solitudine, spesso è una situazione molto dura da affrontare; ogni essere umano che la vive per svariati motivi non sempre riconducibili ad una propria volontà, reagisce a modo suo. Chi ci convive senza particolari problemi; chi la soffre ma stoicamente continua a vivere e se ne fa una ragione; chi non riesce a sopportarla e, magari dopo aver tentato di eluderla, si ritrova prigioniero di essa. In quest'ultimo caso, per evitare uno stato di pazzia, la mente umana cerca un rifugio, una via d'uscita che quasi sempre coincide con una fuga dalla dura realtà; così si finge - quasi fino a pensare che sia vero - di non essere soli, ma di avere ancora attorno le persone che più ci stavano a cuore e che, purtroppo, sono andate via per sempre. Così si può finire col parlare con una fotografia, e magari si è sicuri che in quella fotografia si celi l'anima di una persona particolarmente cara, che ascolta le nostre parole in silenzio. E la vita, in qualche modo, continua.




CONDIZIONE


Un uomo solo,

chiuso nella sua stanza.

Con tutte le sue ragioni

tutti i suoi torti.

Solo in una stanza vuota,

A parlare. Ai morti.


(da "Poesie 1932-1986", Garzanti, Milano 1993, p. 303)

Confidalo all'insetto

 La poesia intitolata Confidalo all'insetto, fu scritta da Donata Doni (sinonimo di Santina Maccarone, 1912-1973) in un momento di acuta sofferenza morale, quasi certamente a causa di un tradimento ricevuto da una persona da lei ritenuta intima amica. In questi pochi versi la Doni, con un risentimento palpabile verso l'intero genere umano, si rivolge a ogni anima pura, semplice, incapace di captare qualsiasi subdolo comportamento di chi gli sta vicino, invitandola a non confidarsi mai con qualunque suo simile. Meglio avere fiducia di un disgustoso insetto che striscia lungo le pareti di casa, piuttosto che contare sull'amicizia e sulla discrezione di un essere umano. Sono parole molto dure, che manifestano profonda amarezza, ma nello stesso tempo esprimono una sincerità che la poetessa lucana ha sempre messo al primo posto, nel suo fare poetico. A proposito di Donata Doni, vorrei dire una volta ancora che è stata un'ottima poetessa, inspiegabilmente trascurata o ignorata dai critici (e purtroppo anche dal pubblico). Uno dei pochi, grandi poeti che compresero il talento della Doni, fu Diego Valeri (la ebbe anche come allieva all'università); fu egli stesso che scrisse una interessantissima prefazione al volume da cui ho trascritto questa poesia. 



CONFIDALO ALL'INSETTO


Se hai un segreto,

confidalo all'insetto,

che striscia la parete

della tua stanza.

Dammi ascolto:

costringi

la paura, il ribrezzo.

Per il tuo segreto

quello è un amico:

ti disgusta, ma tace.


                                    Roma, Monte del Gallo, 4 aprile 1964


(da: Donata Doni, "Il fiore della gaggìa", Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1973, p. 25)

La capra

 Questa fu una delle prime poesie di Umberto Saba (1883-1957) che lessi, sempre per mia iniziativa, su una pagina di un vecchio libro di scuola. È anche una tra le più belle del poeta triestino. Così come San Francesco d'Assisi parlava con gli uccelli, Saba parla ad una capra; sa bene che l'animale non lo capisce, e non può rispondergli, eppure si rivolge a lui come se un dialogo fosse possibile. Quante volte gli esseri umani, si rendono conto che parlare ai propri simili è inutile o deleterio; e quante volte rinunciano a farlo, preferendo, magari, un dialogo impossibile con un animale domestico: cane, gatto, canarino ecc. Sì, è vero che gli animali non possono risponderci, e neppure possono capire cosa gli stiamo dicendo, ma è altrettanto vero che da loro, esseri semplici e spontanei, non possiamo aspettarci nulla di malevolo. Per questo, quando parlare a qualunque essere umano ci riesce difficile o impossibile, decidiamo di stare in compagnia degli animali, e di parlare esclusivamente con loro: i nostri soli, veri amici.




LA CAPRA


Ho parlato a una capra. 

Era sola sul prato, era legata. 

Sazia d'erba, bagnata 

dalla pioggia, belava. 

  

Quell'uguale belato era fraterno 

al mio dolore. Ed io risposi, prima 

per celia, poi perché il dolore è eterno, 

ha una voce e non varia. 

Questa voce sentiva 

gemere in una capra solitaria. 

  

In una capra dal viso semita 

sentiva querelarsi ogni altro male, 

ogni altra vita. 


(da: Umberto Saba, "Poesie scelte", Mondadori, Milano 1992, p.21)