Non considerando,
per la marginalità che la caratterizza, una sua raccolta giovanile, si può
benissimo affermare che Medusa sia la prima e più importante opera poetica di
Arturo Graf (Atene 1848 - Torino 1913). Uscì per la prima volta nel 1880, presso l'editore Loescher di
Torino; ebbe una seconda edizione l'anno dopo, e una definitiva pubblicazione
nel 1890 - sempre grazie al medesimo editore - che si arricchisce di molti
testi poetici e di alcuni disegni dell'artista Carlo Chessa.
A proposito di
questa raccolta, che personalmente ritengo sia la migliore del Graf, ecco un
frammento pertinente scritto dall'illustre critico Luigi Baldacci, all'interno
dell'antologia Poeti minori
dell'Ottocento:
[...] Si è detto
che le fonti del Graf devono essere individuate nei romantici tedeschi e in Leopardi:
già per questo il suo esempio doveva restare isolato nell'ambito del proprio
tempo e di conseguenza mal compreso. Ma l'accusa crociana di riflessione¹ è sproporzionata alla
natura del Graf, e il suo stesso leopardismo, anziché ragionato nel segno del
mito o dell'incatenante sillogismo, ci appare piuttosto filtrato attraverso le
esperienze del Parnasse: cioè
tragicamente intuito, anziché razionalmente dimostrato, e soprattutto affidato
all'evidenza di una pittura immaginifica e talora scenografica (Baudelaire,
Leconte de Lisle). Così al mito si sostituisce il simbolo, secondo una
variazione decadentistica di quelle che potevano anche essere remote
autorizzazioni leopardiane².
Ciò che emerge
nei versi di Medusa è, quindi, un leopardismo contaminato dall'irrazionalità e
dall'istintività propri di determinate correnti letterarie come il simbolismo e
il decadentismo. E proprio a proposito di queste ultime, in un altro frammento
significativo di Anna Dolfi, ovvero della curatrice della più recente riedizione
di Medusa pubblicata cento anni dopo la definitiva (Mucchi, Modena 1990), dopo
aver dimostrato che l'acuta disperazione esistenziale del poeta è attenuata
soltanto da un'intima introspezione, si mette in risalto una delle
caratteristiche fondamentali dei versi di questa raccolta: l'assidua presenza
dell'acqua:
[...] Si
arricchiva così, in questa possibilità, sia pur unica di salvezza, anche il topos dell'acqua, certo acqua nera dell'ultimo viaggio sul mare,
ma anche acqua bianca di lago, acqua non solo della dispersione ma
dell'effettuato o sognato annegamento, quasi acqua del primo specchio cui
avevano teso Ofelia e Narciso nel tentativo vano di riappropriarsi di sé.
L'acqua non sarà allora solcata soltanto da imbarcazioni mortuarie (il viaggio
grafiano, d'altronde, è spesso, più che una simbolizzazione della morte,
un'allegoria tragica della vita sospinta da una tenace e delusa speranza a
schiantarsi contro il nulla finale), da navi guidate da vecchi marinai che
ripetono senza sosta il mito dell'eterno
non ritorno; sarà anche l'acqua/specchio/vetro capace di riportare alle
origini attraverso le immagini catottriche che enigmaticamente risvegliano il
passato trasmettendone i lontani lamenti. Sia pur facendo di quel passato di
nuovo un regno di morti, ridestato attimalmente alla vita nell'«acqua cheta» di
antiche specchiere («Come un'acqua cheta si riflette la stanza: / Sembra ogni
cosa diafana e leggera, / vision di sogno, baglior di rimembranza») e
riconsegnato al nulla dopo la ritessitura momentanea degli arazzi, la
ricomposizione dei colori trecenteschi delle cacce disperate, coinvolgenti
anche dame e cavalieri³.
Medusa è composta
da un totale di 163 poesie; a parte le prime due, tutte le altre sono racchiuse
in tre sezioni: LIBRO PRIMO (1876-1879); LIBRO SECONDO (1880-1881); LIBRO TERZO
(1882-1889). Concludo riportando tre fra le migliori poesie di questa
formidabile raccolta, estratte dalla riedizione di trent'anni fa (vedi foto
sotto).
ACQUA CHIARA...
Picciol lago, che
in mezzo
a questa valle e
a questi sassi enormi,
d’ignota vena ti
raccogli e dormi
dell’alte querce
e de’ grand’olmi al rezzo;
sul margin tuo
che in giro
tutto verdeggia
solitario io seggo;
la stanca fronte
con la man mi reggo,
lo specchio di
tue pure acque rimiro.
Primaticce vïole
e verde timo fan
l’aria fragrante:
in te la bianca
nuvoletta errante,
e dall’alto del
ciel si guarda il sole.
Intorno a te
nereggia
silenzïoso il
bosco; dalla frasca
la secca foglia
vagolando casca,
e lieve sulla
cupa onda galleggia.
Tra ’l verde, in
dolce rima,
un usignol la
primavera canta:
passano l’ore e
d’ombre il ciel s’ammanta,
splende la luna
ai negri sassi in cima.
Acqua chiara e
tranquilla,
sul tuo margine
io seggo; il ciel sereno
veggo in te
rispecchiarsi, e nel tuo seno
dagli occhi miei
piove un’amara stilla.
(da
"Medusa", Mucchi, Modena 1990, pp. 12-13)
IL VASCELLO
FANTASMA
Io lo vidi, io lo
vidi! un mar di piombo
senza voce,
senz’onda: in occidente
il sol morente
insanguinava il cielo,
le bige nubi
lacerando a strombo.
Io lo vidi, io lo
vidi! i cupi abissi
venia premendo,
procedeva stanco,
l’enorme fianco
arrotondava al sole,
pareva un mostro
dell’Apocalissi.
Laggiù, guardate!
In ogni parte sua
negro lo scafo;
avviluppata e nera
una bandiera
penzola da poppa,
bieca si drizza
una Medusa a prua.
Splendon vestiti
di lucenti lame
gli alberi
smisurati; per le nere
cave troniere
luccicano in doppia
fila i cannoni di
color di rame.
A prora, a poppa,
in cima agli alti fusti,
ai gran canapi,
su, stanno ammucchiati,
stanno aggrappati
i cento marinai,
estenuati,
pallidi, vetusti.
Il capitan coi
cento marinai,
scrutando il
cielo, investigando il morto
pelago, un porto
invan spïando, il porto
sempre invocato e
non raggiunto mai.
Così l’alto
vascel naviga ed erra,
e se talor la
nebbia all’orizzonte
simula un monte,
stanco ed affannato
si leva il grido:
Terra, terra, terra!
Ma breve error
gli spiriti soggioga:
si dilegua il
fantasma: orrida e grave
la negra nave in
suo cammin procede,
e la Speranza
dietro a lei s’affoga.
(da
"Medusa", Mucchi, Modena 1990, pp. 68-69)
Disegno di Carlo Chessa presente nella 3° edizione di Medusa, relativo alla poesia Il vascello fantasma |
L’ABETE SOLITARIO
Dalla trachite
eccelsa, vestito di gramaglia,
il solitario
abete smisurato si scaglia
siccome un dardo nel profondo ciel;
tutto solo
dell’Alpe sulla pendente balza,
dove più furïosa
la tramontana incalza,
dove più morde nel silenzio il gel.
Sott’esso uno
sgomento di traboccate rupi,
d’irte lacche; di
baratri caliginosi e cupi,
e un confuso di prone arbori stuol;
sopr’esso in
luminoso giro l’etere immenso
e le nuvole
bianche via per l’azzurro intenso
e sfolgorante nell’azzurro il sol.
Lontan, nella
bassura, il solitario abete
vede colli
ubertosi, vede pianure liete
di messi e d’acque, di paschi e di fior;
vede come
sognando, e tra le selci ignude,
in sua triste
gramaglia più rigido si chiude,
muto, superbo, nell’alpino algor.
(da
"Medusa", Mucchi, Modena 1990, p. 194)
NOTE
1) Il celebre
filosofo Benedetto Croce non lodò mai la poesia di Graf, così come un poeta che
tutto sommato non si discostava molto dal suo intento poetico: Pompeo Bettini;
fu proprio quest'ultimo che, in una rivista, etichettò in maniera negativa il
Graf poeta, affermando, come riportò poi anche il Croce, che in esso dominava
la "riflessione", ovvero un elemento identificabile in un bel difetto
soltanto se si parla di prosa.
2) Dal volume: Poeti minori dell'Ottocento, Tomo I,
Ricciardi, Napoli 1958, p. 1142.
3) Dal volume:
Arturo Graf, Medusa, Mucchi Editore,
Modena 1990, p. XVIII.
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