domenica 9 luglio 2023

La pioggia nella poesia italiana decadente e simbolista

La simbologia della pioggia è in genere legata a quella dell'acqua, tuttavia si possono evidenziare delle differenze; tra di esse, per esempio, si può pensare alla pioggia come un "pianto del cielo", e quindi accomunarla a sentimenti di tristezza, noia e malinconia (il tutto acuito dal grigiore che domina nelle giornate piovose). Ma le piogge possono divenire anche simbolo di voluttà o di benessere fisico e mentale, specialmente se la precipitazione piovosa avviene durante il periodo estivo (esempio eloquente ne è La pioggia nel pineto di Gabriele D’Annunzio).



 

Poesie sull’argomento

 

Mario Adobati: "Canzonetta della pioggia" in "I cipressi e le sorgenti".

Diego Angeli: "Sera d'inverno ad Acqua Traversa" in "La città di Vita" (1896).

Gustavo Botta: "Balbettìo" in "Alcuni scritti" (1952).

Gustavo Brigante-Colonna: "Piove. Dal ciel discende un velo denso" in "Gli ulivi e le ginestre" (1912).

Paolo Buzzi: "Sera d'uragano" in "Aeroplani" (1909).

Giovanni Camerana: "Maggio" in "Poesie" (1968).

Enrico Cavacchioli: "Il terrore raccolto" in "L'Incubo Velato" (1906).

Guelfo Civinini: "Pioggia d'ottobre" in "I sentieri e le nuvole" (1911).

Gabriele D'Annunzio: "La pioggia nel pineto" in "Alcyone" (1904).

Adolfo De Bosis: "O nel tardo novembre" in "Amori ac Silentio e Le rime sparse" (1914).

Federico De Maria: "Pioggia voluttuosa" in "La leggenda della vita" (1909).

Luigi Donati. "L'acqua" in "Le Ballate d'Amore e di Dolore" (1897).

Corrado Govoni: "La pioggia rugginosa" in "Armonia in grigio et in silenzio" (1903).

Corrado Govoni: "Sotto la pioggia" in "Poesie elettriche" (1911).

Marco Lessona: "Piove" e "Parla un'altra donna" in "Versi liberi" (1920).

Tito Marrone: "La pioggia d'estate" in «Cronache della Civiltà Elleno-Latina», settembre 1904.

Nicola Moscardelli: "Pioggia" in "Abbeveratoio" (1915).

Arturo Onofri: "Cade una pioggia soave sull'orto fiorito" in "Canti delle oasi" (1909).

Nino Oxilia: "E piove, piove, piove..." e "È notte e piove..." in "Canti brevi" (1909).

Nino Oxilia: "Alla finestra mentre piove" in "Gli orti" (1918).

Guido Ruberti: "Mattino di pioggia" in "Le Evocazioni" (1909).

Diego Valeri: "Pioviggina" in "Umana" (1916).

 

 


Testi

 

PIOGGIA VOLUTTUOSA

di Federico De Maria

 

Piove. Folgora. C'è qualche cosa

nell'aria attristita

che quasi c'invita

al raccoglimento.

E, forse pel freddo, io sento

un brivido, un tremito strano:

è come se una lama voluttuosa

mi pungesse, spingendomi a poco

a poco verso di te.

Perché non vieni tu, o sposa

del mio mistero, a illuminar di gioia

la lasciva noia

di quest'ora tediosa?

Da gran tempo qui tutto t'aspetta

nell'ornata stanzetta.

Per te ò acceso un buon fuoco

che sfriggola e scoppietta

tentando rallegrar tutti gli oggetti

che attorno stan, poveretti,

imbronciati nel lento crepuscolo

che il cielo loro concede

da la finestra. E il tuo poeta siede

presso a quel fuoco, di faccia

a una vuota poltrona

che tiene aperte le braccia

invocandoti. Da le pareti

tutti i ritratti dei cari

mi guardano immobili, ma

sogghignandomi, anche i men lieti.

Ed io vedo la mia persona

ripetuta da l'attaccapanni

ove pare che i miei abiti

cadenti siano la caricatura

della mia dolente figura

abattuta da continui disinganni.

E t'attende pure il letto

bianco, come la castità,

ove crebbi e mai fui solo

fantasticando e sognando...

Oh, lì da gran tempo t'aspetto,

con questa pioggia infingarda

che più dispone ad amare.

Ti sentirei, sul mio petto

allacciata, trasalire, palpitare

per lunghe, lunghissime ore...

E sentiremmo la pioggia scandir la cadenza

del nostro furtivo amore.

picchierellando su i vetri

maliziosa... A ogni tuon rimbombante

balzeremmo, fatti rossi dal pudore...

e soffocheremmo in un bacio

uno scroscio irresistibile di riso.

Quante parole diremmo e poi quante

pazzie faremmo, senza parlar più !...

Poi, tardi, si spegnerebbe

il fuoco, col giorno, e tu

diresti: «Che freddo!» con quella

voce fatta più lunga dal languore, col viso

contro il mio viso, stringendoti a me

più forte, con i capelli arruffati,

gli occhi di nero cerchiati,

discinta nell'inverecondia

divina dell'amor che fa più bella.

— Però non avremmo più legna;

ed io riattizzerei le fiamme

coi versi che scrissi per te

in questi lunghi sei mesi

che attesi...

 

(da "La leggenda della vita", Edizioni di «Poesia», Milano 1909)

 

 

 

 

È NOTTE E PIOVE...

di Nino Oxilia

 

È notte e piove. Ò avanti

il mare che lamenta

coll'onda grigia e lenta

una storia di pianti.

 

Dalla finestra in luce

d'una casa abitata

il vento mi conduce

un suono - una risata -

 

...a tratti - Il canto lieto

di una fanciulla bionda.

Una voce profonda

d'uomo. Un passo sul greto.

 

Le nubi in cielo vanno

tacite, senza rombo,

verso un ignoto affanno,

sotto il cielo di piombo.

 

Il cuore, oggi, mi pesa

come non mai. Mi pare

che tutto, e cielo e mare,

voglia recarmi offesa.

 

E che la terra esali

qualche veleno ignoto

e qualche pianto ignoto

singhiozzi tra i mortali.

 

Vorrei sotto la mesta

pioggia che cade, sulla

spiaggia chinar la testa

come a una dolce culla,

 

e in silenzio ascoltare

tutti i ritmi trasfusi

nell'aria e già confusi

col risucchio del mare.

 

(da "Poesie", Guida, Napoli 1973)

 

 

Gustave Calilebotte, "Paris street; Rainy day"
(da questa pagina web)

domenica 2 luglio 2023

La poesia di Angelo Barile


 


Prima di pubblicare questo post, ho avuto la tentazione di considerare Angelo Barile (Albisola Marina 1888 – ivi 1967) alla stregua di un “poeta dimenticato”; in effetti, questo grande poeta del Novecento, da almeno un trentennio a questa parte è praticamente caduto nell’oblio, e oggi ben pochi lo ricordano. Eppure, l’unica pecca che si può trovare in Barile, è la sua scarsa prolificità; ma pur avendo scritto poche poesie, ha trovato il modo di lasciare il segno sia nell’ambito della poesia italiana novecentesca, sia nella cosiddetta “linea ligure” – di cui è un esponente di primo piano – che comprende nomi di suoi corregionali assai illustri come Sbarbaro e Montale. Certamente fu un isolato, poiché trascorse l’intera sua esistenza nel paese natale, occupandosi di un’azienda manifatturiera, e dedicandosi alla scrittura soltanto nei momenti liberi; pure, collaborò a diversi giornali, e fondò, insieme ad Adriano Grande, la rivista Circoli, in cui furono pubblicate per la prima volta alcune delle sue migliori poesie. Per meglio comprendere l’essenza della poesia di Barile, trascrivo due brevi frammenti tratti da altrettanti saggi che si sono occupati di lui; il primo è di Gianni Pozzi, e proviene dal volume La poesia italiana del Novecento:

 

La poesia di Angelo Barile nasce e si sviluppa in una zona periferica, ma collaterale alla poesia degli ermetici. Nella sua elegante, limpida e intermittente produzione, partecipa al clima letterario dell’epoca con la esigenza di una purezza esclusiva, tanto importante, ormai, di per se stessa, da esonerare il poeta da un contenuto diverso della solitudine innamorata della sua memoria.

La sua illuminante caratteristica consiste in una aperta e fondamentale assimilazione dei modi stilistici contemporanei, in una sorta di virtuoso e alto dilettantismo. Barile è un cesellatore di elaborati intarsi stilistici, senza protervia: ricostruiti in una specie di ipnotica, spontanea adesione al clima decadente che li determina. […]¹

 

Il secondo è invece estrapolato dall’antologia Poesia italiana del Novecento, a cura di Piero Gelli e Gina Lagorio; l’autore è Silvio Riolfo Marengo. Quest’ultimo, inizialmente cita parte di una postilla appartenente ad un’opera poetica di Barile, identificando la sua concezione di poesia come “energia vitale dello spirito”; segue un’ulteriore citazione tratta da uno scritto di Giovanni Boine, in cui si pone in risalto l’essenzialità e la pazienza nell’arte dello scrivere, che sono sinonimo di qualità; quindi così prosegue:

 

L’opera quantitativamente selezionata e fedele a pochi tempi essenziali di Barile nasce da questa poetica della necessità: sono momenti, immagini, situazioni della vita e del mondo familiare che la memoria recupera alla luce della poesia solo dopo che sono state a lungo «sepolte nel cuore» e traspone, con metafore balenanti, dal piano dell’esistere a quello dell’essere. Ed è naturale che l’epicedio venga eletto a modello deputato per fissare i caratteri dell’unica certezza metafisica concessa al credente: la morte che è tutt’uno con la vita, anzi ne riassume e ne esalta la pienezza, anche in presenza del dolore e del peccato, due motivi che increspano quasi sempre anche le evocazioni più tenere di Barile. […]²

 

Barile pubblicò soltanto tre raccolte poetiche, sebbene l’ultima non sia altro che una ricapitolazione della sua produzione in versi, con l’aggiunta di un’ulteriore, breve silloge conclusiva. Scrisse anche delle prose di buon valore, che sono per lo più incluse nel volume Risonanze (Quaderni di «Persona», Roma 1966).

Dopo aver elencato i volumi in versi del poeta di Albisola, trascrivo tre indimenticabili poesie dello stesso, tratte dalla nuova edizione di Poesie (1930-1963), pubblicata da Scheiwiller in Milano nel 1986.

 

NOTE

1)     Da: Gianni Pozzi, La poesia italiana del Novecento, Einaudi, Torino 1995, p. 286)

2)     Da: Poesia italiana del Novecento, Garzanti, Milano 1980, pp. 263-264.

 


 

Opere poetiche

 

“Primasera”, Edizioni di «Circoli», Genova 1933.

“Quasi sereno”, Neri Pozza, Venezia 1957.

“Poesie (1930-1963)”, Scheiwiller, Milano 1965.

 


 

Testi

 

USCIRE DALLA VITA

 

Uscire dalla vita come quando

s’esce di chiesa

in un finale d’organo: s’avventa

l’anima a scale prodigiose, trova

il piede sulla soglia

un bianco che vi palpita: e la luce

è nuova.

 

Ma uscire non è dato in rapimento.

Ch’io possa almeno

lasciarmi dietro la mia stanza, un poco

volgendo il capo a riguardarla, alfine

pulita, sgombra

d’ogni discordia, in ordine sereno

come la chiesa ora vuota: le croci

fanno una chiara ombra

sul pavimento.

 

(da "Poesie", Scheiwiller, Milano 1986, p. 69)

 

 

 

 

OSTERIA DELLA BELLA BREZZA

 

Padre, finita la giornata uscivi

le belle sere

a prendere l’aria di mare. Sedevi

fuori dell’osteria che non c’è più;

che aveva un nome così fresco, pinto

in azzurro di lettere leggere

sulla bianca maiolica. Hanno stinto

il tempo ed il salino

tante in me cose e non quel nome: spira

dal tuo celeste ancora

la bella brezza.

 

Discendevi su l’ora

che il nostro mare è una cara contrada

con tesi teli e fumo di comignoli.

Tra poco, e ancora è giorno,

treman sull’acque lumi e nelle case.

Cantan, su' remi, amanti.

Navi fanno ritorno,

escono navi dal prossimo porto,

van per quieta strada

all’orizzonte che il vespro avvicina.

 

Andavano, per te, sul mare grande.

Andavano distante

anche i piccoli barchi, e tu con loro.

I capitani della Bella Brezza

rifanno a gara

la traversata, toccano le Americhe.

Tempi di vela! Un palpito di nomi

i più marini di Liguria... Ognuno

passava al vostro tavolo, beveva

venti severi -

e il goccio d’oro al fiato vespertino.

 

Veniva alla tua frasca

l’umana brezza,

sotto il cielo benevolo il brusìo

che fa il paese conciliato a riva.

I cerchi delle donne

che giocavano a tombola con i sassi

tolti alla rena; i cerchi delle rondini

che stridevano basse

toccavano la testa dei ragazzi,

tutto animava la tua sera. E l’Ave

sul riposo di un popolo che scioglie

la sua gravezza ai margini turchini.

 

Ora respiri la brezza infinita.

 

(da "Poesie", Scheiwiller, Milano 1986, pp. 77-78)

 

 

 

 

A TARDA SERA

 

A tarda sera quando

prego pace ai miei morti,

ad una ad una vi chiamo per nome,

mie sensibili anime. In un lampo

a ciascun nome mi risponde il viso

desiderato,

e il sangue vi ripalpita vi segna

i suoi segreti.

 

Odono il mio susurro anche gli anziani

che in grembo alla memoria

già posano quieti

e forse ancora anelano in cammino

per i valichi estremi al loro Cielo.

Un poco, andando, si volgono e alcuno

lontanamente sorride...

                       

                        Ma questi,

al mio cuore i più mesti,

che ieri appena spezzavano il pane

con noi sotto la lampada e nell’ombra

son passati tenendosi per mano,

lo sguardo al focolare:

questi quando la sera

chiamo per nome i miei morti, li vedo

ancora fermi, ancora

trepidi e tesi di là della porta

non richiusa, che geme.

 

Ecco mi fate cenno, anime care,

d’incamminarci insieme.

 

(da "Poesie", Scheiwiller, Milano 1986, pp. 146-147)

 

 

sabato 24 giugno 2023

Intra du' Arni

 

Ecco l’isola di Progne

ove sorridi

ai gridi

della rondine trace

che per le molli crete

ripete

le antiche rampogne

al re fallace,

e senza pace,

appena aggiorna,

va e torna

vigile all’opra

nidace,

né si posa né si tace

se non si copra

d’ombra la riviera

a sera

circa l’isola leggiera

di canne e di crete,

che all’aulete

dà flauti,

alla migrante nidi

e, se sorridi, lauti

giacigli all’amor folle.

Ecco l’isola molle.

 

Ecco l’isola molle

intra du’ Arni,

cuna di carmi,

ove cantano l’Estate

le canne virenti

ai vènti

in varii modi,

non odi?,

quasi di nodi

prive e di midolle,

quasi inspirate

da volubili bocche

e tocche

da dita sapienti,

quasi con arte elette

e giunte insieme

a schiera,

su l’esempio divino,

con lino

attorto e con cera

sapida di miele,

a sette a sette,

quasi perfette

sampogne.

Ecco l’isola di Progne.

 

 

COMMENTO

 Intra du’ Arni è il titolo di una delle più celebri liriche presenti nella raccolta poetica Alcyone di Gabriele D’Annunzio (Pescara 1863 - Gardone Riviera 1938), ovvero nel Terzo libro delle Laudi (gli altri due, usciti rispettivamente nel 1903 e nel 1904, sono Maia ed Elettra). Pur se datata 1904, la raccolta Alcyone fu pubblicata, in prima edizione, nel dicembre del 1903, insieme ad Elettra (entrambe comprese nel Secondo libro delle Laudi) presso l’editore Treves di Milano. Io l’ho trascritta da una ristampa (Mondadori, Milano 2007) di questa che è unanimemente considerata l’opera poetica più importante di D’Annunzio. La lirica, molto probabilmente, fu scritta dal poeta abruzzese durante l’estate del 1902. Il testo parla di un’isola situata in mezzo all’Arno che possiede un fascino tutto particolare e che, per il poeta, diviene l’isola dei sogni. Lui la battezza “Isola di Progne”, per la presenza di molte rondini (secondo la mitologia greca, Progne o Procne, fu tramutata in rondine); questo luogo, a parte le rondini che pullulano, è deserto, e possiede un terreno sabbioso; vi sono anche dei canneti, dove gli uccelli passeriformi costruiscono i loro nidi; quando soffia il vento, le canne emettono dei suoni assai piacevoli, simili a musiche suadenti. Tutti questi elementi fanno sì che l’isola sembri un luogo incantato, un paradiso terrestre, dove il poeta sogna di vivere insieme alla compagna, perché, soli e felici in quel contesto unico, possano amarsi follemente durante tutto il resto della loro vita. Personalmente, ritengo che questa poesia sia la migliore in assoluto dell’intera raccolta, grazie ad una musicalità non comune, e anche grazie ad una sintetica ma efficacissima descrizione di luoghi e sensazioni che hanno poco a che fare con la realtà e molto con il sogno. 




 

domenica 18 giugno 2023

Antologie: "Operai di sogni"

 

Il volume di cui voglio parlare è una via di mezzo tra un saggio di critica letteraria ed un antologia poetica. Il titolo completo è il seguente: Operai di sogni - La poesia del Novecento in Sicilia; nacque a seguito degli atti del convegno nazionale di studi e ricerche di Randazzo, tenutosi tra il 10 ed il 12 novembre del 1984 nel comune siciliano. Trattasi di un'opera collettiva, anche se la presentazione e la curatela fu affidata al poeta Giovanni Raboni. Il volume si divide in tre parti: la prima e la seconda - dalla pagina 19 alla pagina 270 - sono dei saggi critici dedicati ai maggiori ed ai migliori poeti siciliani del Novecento. La terza parte, compresa tra la pagina 273 e la pagina 514, è invece una vera e propria antologia poetica, che vede protagonisti esclusivi i poeti siciliani del XX secolo, partendo da Giuseppe Villaroel, e giungendo a Carmela Fratantonio. In tutto sono compresi 28 poeti, inclusi i dialettali. Forse è inutile e superfluo aggiungere che spiccano, tra tutti, i nomi di poeti come Quasimodo, Cattafi e Ripellino (e in parte dello stesso Villaroel, probabilmente un po' accantonato dalla critica più recente); ma in questa antologia si può notare quanto la regione siciliana sia ricca di poeti validissimi ed anche poco conosciuti; tale discorso non riguarda soltanto il Novecento, come dimostra un'altra antologia, sempre dedicata alla poesia siciliana, di cui in futuro parlerò. Una pecca che ho individuato, riguarda l'assenza delle prime generazioni di poeti siciliani novecenteschi; infatti non vengono considerati né inclusi poeti importanti come Tito Marrone, Giuseppe Antonio Borgese e Federico De Maria - tanto per citarne alcuni - che completerebbero un repertorio poetico di prim'ordine, facendo capire al lettore che i siciliani erano già inseriti nelle più significative e sperimentali correnti poetiche, già nei primi anni del XX secolo. A parte ciò, il volume, sia per quel che riguarda la parte critica, che per quella antologica, è ben fatto e risulta senz'altro interessante. Riporto come mio solito, tutti i nomi dei poeti inseriti in questa antologia.

 


 


OPERAI DI SOGNI

 

Giuseppe Villaroel, Francesco Guglielmino, Ignazio Buttitta, Vann'Antò, Salvatore Quasimodo, Mario Gori, Edoardo Cacciatore, Bartolo Cattafi, Giuseppe Zagarrio, Lucio Piccolo, Stefano D'Arrigo, Angelo Maria Ripellino, Enzo Leopardi, Santo Calì, Guido Ballo, Alfonso Zaccaria, Angelo Maugeri, Armando Patti, Vanni Ronsivalle, Andrea Genovese, Giuseppe Bonaviri, Jolanda Insana, Sebastiano Addamo, Mario Grasso, Santi Bonaccorsi, Vincenzo Grasso, Nino De Vita, Carmela Fratantonio.